Di sicuro non avranno la ribalta mediatica del movimento delle sardine, ma anche quest’anno Non una di meno, i centri antiviolenza e tutte le realtà femministe del territorio, sono riuscite a portare in piazza a Roma più di 100mila persone a due giorni dalla Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne del 25 novembre.
Ieri pomeriggio carri, musica, slogan gridati a squarcia gola hanno invaso le strade bloccate di Roma, per ribadire ancora una volta che il primo passo per il contrasto a questa violenza, è sostenere e non chiudere quei centri antiviolenza che sono la vera, unica speranza per uscire dall’incubo per moltissime donne. Una violenza che si scontra con soldi promessi e mai arrivati, come nel caso del centro antiviolenza Thamaia di Catania, spazi minacciati dallo sfratto che rischiano di chiudere per sempre, come la Casa internazionale delle donne di Roma o come Lucha Y Siesta che ospita donne e bambini fuggiti all’inferno. Per Non una di meno
“La violenza non ha passaporto né classe sociale ma spesso ha le chiavi di casa e si ripete nei tribunali e nelle istituzioni
ed è per questo che il lavoro dei centri antiviolenza femministi va riconosciuto, garantito e valorizzato” ma per farlo “servono atti concreti”. Soprattutto se a ricordare l’incapacità delle istituzioni sono i corpi delle donne uccise anche in questi giorni: come quello di Ana Maria Lacramioara ammazzata in provincia di Palermo a bastonate dall’amante perché rimasta incinta, quello di Chiara Corrado, 40 anni di Pisa colpita in testa dal compagno a Torre del Lago, e quello di Barbara Grandi, colpita dal marito nel novarese con 40 coltellate.
Ma se è vero, come attesta la Polizia di Stato, che qui una donna subisce una violenza ogni 15 minuti e che l’80% di queste violenze sono agite da maschi bianchi italiani che vivono dove le donne dovrebbero sentirsi al sicuro, ovvero in casa propria, quello che balza agli occhi è un fenomeno strutturale complesso che ha bisogno d’interventi efficaci e investimenti sicuri, a partire dall’implementazione della Convenzione di Istanbul che stiamo ancora aspettando dopo 6 anni dalla sua ratifica.
Un andamento schizofrenico, quello dell’Italia, che ha ottime leggi ma dove il numero di femminicidi aumenta, come dicono i dati dell’Eures, passando dal 35,6% al 40,3%, e questo malgrado si parli ormai da tempo di un cambiamento che non sembra mai decollare veramente: che sia una consapevole presa in giro delle istituzioni che non riescono ad andare oltre le parole? “A essere necessari – dice Lella Palladino, presidente di DiRe (Rete nazionale dei centri antiviolenza) – sono interventi di sistema e non provvedimenti tampone, perché servono misure per un cambiamento culturale radicale che investa la società tutta, e che affrontino la violenza come un fenomeno strutturale che non può essere contrastato se non si assicurano ai centri antiviolenza risorse certe e adeguate”. Un monito a cui non è sufficiente la risposta del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che su twitter promette 12 milioni di euro per attivare il fondo per gli orfani di femminicidio, mentre dall’altra parte
ogni centro antiviolenza riceve 76 centesimi per ogni donna viva che cerca rifugio lontano dal pericolo che ha in casa
A farcelo sentire, questo enorme gap tra il dire e il fare, sono le donne dei movimenti femministi che anche quest’anno protestano contro il patriarcato che uccide in tutto il mondo. Molti degli striscioni colorati e delle facce dipinte ieri erano per le combattenti curde che dopo averci liberato dall’Isis sono state lasciate al macello dell’esercito turco di Erdogan, e per “El Mimo”, la giovane Daniela Carrasco trovata morta in Cile.
Una sorte toccata in queste ore anche ad Albertina Martinez Burgos, trovata cadavere con segni di pugnalate nel suo appartamento dove le sono stati rubati la macchina fotografica e il computer su cui aveva per settimane registrato le azioni violente delle forze dell’ordine in piazza contro i manifestanti.Un corteo, quello di Roma, che per loro si è seduto a terra ed è rimasto in silenzio per 5 minuti per far sentire al mondo il suo “urlo sordo” di rivolta che ha unito numerose piazze dal Sud America all’Europa, nella convinzione che serva “una vera rivoluzione per distruggere questo patriarcato che ci uccide”, come dichiara Chiara di appena 20 anni.
Per Alina, 28 anni e precaria, “è stata Non Una Di Meno quella che ha aperto la strada a manifestazioni di massa che non vedevamo da tanto tempo, e anche se nessuno ne parla, in questi anni il movimento femminista ha fatto assemblee in tutte le città, nelle periferie e in piccoli centri, con ragazze e giovani che hanno preso parola e che oggi agiscono in piazza in prima persona”, urlando anche contro Salvini e il suo razzismo. Ragazze e ragazzi che quest’anno hanno combattuto senza tregua contro l’oscurantismo della Lega, facendo muro alle politiche medioevali del Congresso delle famiglie di Verona e contro il disegno di legge Pillon che pur essendo stato messo da parte ancora non è stato “buttato nel cesso”.Una marea con obiettivi politici chiari, determinata al cambiamento che si prepara a combattere ogni tipo di violenza, di sopraffazione e di razzismo con un forte obiettivo di uguaglianza e libertà, e che se è ancora lontana dal conquistare le prime pagine dei quotidiani o le poltrone dei talk show, come sarebbe giusto che fosse, resta un movimento che dopo 4 anni non sembra cedere il passo a nessuna stanchezza.
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Le foto sono di Cecilia Mussoni © Tutti i diritti riservati