Tribunali: i danni dei pregiudizi nel giudicare la violenza sulle donne

Spesso gli stereotipi condizionano anche le sentenze che considerano le donne corresponsabili di quello che subiscono

Paola Di Nicola
Paola Di Nicola
Giudice al Tribunale penale di Roma, esperta su violenza contro le donne e stereotipi giudiziari, ha scritto "La giudice" (Ghena) e "La mia parola contro la sua" (HarperCollins)



La produzione giuridica, al pari di quella filosofica e religiosa, è, innanzitutto, una produzione culturale: stabilisce i valori su cui poggia la struttura della convivenza civile. Una sentenza non si limita a stabilire la regola del caso concreto, dando torto o ragione, ma stabilisce anche qual è l’ordine sociale, ritenuto legittimo, in nome dello Stato.

Il ruolo della parola

La magistratura con l’attività interpretativa dà forma alla realtà ed esprime la parola pubblica sino a renderla un modello che si impone nei confronti di tutti. Se l’istituzione replica pregiudizi culturali li rende regola giuridica, se li decostruisce rompe assetti millenari aprendo nuove prospettive. È una scelta che presuppone consapevolezza, formazione e capacità di visione. In questa difficile e delicata operazione un ruolo cruciale è svolto dal linguaggio, massima forma di espressione del potere perché, come dicono le linguiste, esiste solo ciò che è nominato e l’utilizzo di una parola al posto di un’altra legge o deforma la realtà, legittima un assetto di valori e assegna precise identità.

Se il movente di un femminicidio viene individuato in un raptus di gelosia, se l’intervento delle forze dell’ordine per violenza domestica viene definito lite familiare, se lo stupro viene qualificato come impulso sessuale irrefrenabile, se la ritrattazione di una vittima è ridotta a scelta di un amore malato: il fenomeno criminale è banalizzato, naturalizzato, romanticizzato, quindi ridimensionato e giustificato, e infine per questo rimarrà impunito

Violenza: il linguaggio che sposta le responsabilità

La narrazione della violenza di genere, come di qualsiasi tipo di reato, deve essere oggettiva e fondata su fatti, non su pre-giudizi e atteggiamenti moralistici e compassionevoli. Utilizzare un linguaggio emozionale in una sentenza, enfatizzando lo stato emotivo di un uomo che esercita violenza (era frustrato, esasperato, amareggiato, geloso, ecc.) costituisce, di per sé, una scelta che sposta l’attenzione dalla descrizione di un dato di realtà, cioè l’atto criminale (botte, insulti, denigrazioni, umiliazioni, morte), al suo travisamento frutto soltanto della scala valoriale di chi indossa la toga (uomo o donna) tanto da imporne il suo modello soggettivo.

Descrivere un uomo che violenta una donna come mosso da un impulso sessuale significa spostare la responsabilità dal suo autore ad una natura incoercibile di cui non è padrone; descrivere un uomo che uccide la compagna come mosso da gelosia significa depotenziare e naturalizzare la violenza come frutto prevedibile e genuino di un sentimento; descrivere un uomo che picchia o insulta la moglie come mosso dall’ira avalla il ruolo del padre-padrone che non può essere contraddetto. In questo modo la famiglia diventa un luogo di pulsioni unilaterali e non di relazioni paritarie, un territorio di caccia e di affermazione di un uomo in cui nessuna donna deve porre argini, esprimere dissenso e autonomia, esercitare minimali diritti di libertà: pena violenze e morte. E quando tutto non può essere taciuto, perché a terra c’è un corpo senza vita, arriva un altro strumento potentissimo di neutralizzazione della responsabilità maschile: il delirio di Otello, il raptus, la perdita di controllo, la cieca passione. Patologie e sentimenti debordanti e  non atti volontari e premeditati.

Il nero si tinge di rosa, il romanticismo dell’emozione in nome del popolo prende il sopravvento sulla realtà di quella morte e di quella violenza. Di quel reato

L’imputato si trasforma magicamente in una vittima fragile e predestinata di una donna che lo ha ferito con la sua libertà; di un contesto culturale e sociale che pretende la sua re-azione, altrimenti non è un uomo; di un ego smisurato che è centro di tutte le cose dalla notte dei tempi.

Diventare vittima una seconda volta ma in tribunale

Non è un caso che ci chiamiamo umanità, da homo. Come sono, invece, le donne che subiscono violenza nei nostri processi? Esagerate, calcolatrici, contraddittorie, bugiarde, pazze. Se denunciano c’è dietro qualcosa. Chissà a cosa mirano. Chi denuncia una truffa, una rapina, un furto è creduto, non si dubita della sua parola. Le vittime di violenza, invece, non solo sono le uniche vittime di reato a cui non si crede, a priori, ma vengono anche colpevolizzate per non avere evitato quella violenza. Perché non è fuggita? Perché non ha cambiato numero di telefono? Perché non si è trasferita? Perché non lo ha lasciato? Perché lo ha lasciato ? Perché è andata alla festa ? Perché ha bevuto? Perché è uscita di sera? Sarebbe più veloce chiederle: “perché esiste ?”

La condotta di un uomo violento non viene mai letta come un’azione, ma sempre come una re-azione

Se ci chiediamo a cosa, scopriremo che la violenza nasce perché una donna si è sentita libera e questo non le è consentito, fa crollare il mondo, tuttora costruito sulla sua soggezione. Uscire con le amiche o decidere di lasciare un uomo violento è un atto eroico, in Italia e nel mondo. Può portare persino alla morte.

Il paradosso tra i codici e le sentenze

Il passaggio di responsabilità dall’autore di un crimine alla sua vittima, passaggio che silenziosamente serpeggia ogni volta che apprendiamo di uno stupro o di un femminicidio, avviene anche attraverso un altro inconsapevole meccanismo giuridico: ciò che per il codice penale aggrava un reato, tanto da aumentarne in astratto la sanzione si trasforma nel suo contrario fino ad escluderla o alleviarla. Pensiamo alla condizione di ebrezza della vittima di uno stupro: è un’aggravante per chi ne approfitta, eppure capita di leggere sentenze (in Italia e nel mondo) in cui quella stessa ubriachezza, che annienta qualsiasi volontà di re-azione (questa si), viene confusa con un implicito consenso e porta all’assoluzione.

Oppure pensiamo alla gelosia, parola non menzionata nel codice penale, che da decenni viene interpretata dalla Corte di cassazione come aggravante (rientrando tra i motivi futili che muovono la condotta delittuosa), ma che, specialmente nei femminicidi, viene illogicamente recuperata, da alcuni giudici di merito, per ridurre la pena e legittimare gli argomenti usati dagli imputati che si descrivono come illusi e traditi dalla donna che hanno ucciso. Si tratta di un’inversione logico-giuridica che non trova spazio per nessun’altra aggravante e per nessun altro reato.

Ecco svelata la falsa neutralità dell’interpretazione che nulla ha a che vedere con l’applicazione del diritto, ma è solo figlia della scala valoriale del singolo giudice che, con il sigillo dello Stato, universalizza i pre-giudizi e genera un’aspettativa di tolleranza sociale rispetto alla stessa violenza agita

Se questo avviene è solo perché ciascuno di noi, in ogni contesto, è ingabbiato/a in una struttura culturale in cui le donne vanno svilite, la loro capacità va ridimensionata, il loro lavoro vale meno, le loro ambizioni vanno soffocate, la loro parola va ridicolizzata, la loro presenza va occultata, la loro storia va denigrata, la loro libertà va punita. E se tutto questo vive e cresce nelle nostre case e nei nostri luoghi di lavoro, con battute, modelli e complici omertà, non può che replicarsi drammaticamente nelle aule di giustizia che ne costituiscono il riflesso o la cassa di risonanza. La sfida è che uomini e donne di questo tempo, a partire dalle istituzioni, riconoscano e poi decostruiscano stereotipi culturali millenari che alterano la realtà e i fatti, per restituire una parola pubblica fondata su una nuova imparzialità.

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Articolo tratto dalla 27esimaora del Corriere della sera con il consenso dell’autrice.

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