I morti in Siria, dall’inizio della rivolta a marzo dell’anno scorso, sono arrivati a 20 mila, tra cui, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, si conterebbero 13’978 civili, 5082 membri dell’esercito, e 968 disertori. In Giordania ci sarebbero, secondo Unicef, 38’800 siriani rifugiati, di cui più di 13’000 fuggiti dall’inizio di luglio e accolti in campi che stanno raggruppando profughi oltre quattro volte la loro capacità. Per Valerie Amos, responsabile delle operazioni umanitarie Onu, «circa 200 mila profughi siriani sono fuggiti dalle città e un numero imprecisato di civili rimane intrappolato in rifugi di fortuna, senza cibo né acqua potabile».
Oltre la metà degli sfollati – spiega Dominique Hyde, di Unicef Giordania – sono donne, bambini e adolescenti che continuano ad affrontare il disagio causato dalle violenze e dagli spostamenti. Quello da cui scappano queste donne non è però solo la morte, ma quel flagello che accompagna ogni conflitto nella storia dell’umanità: ovvero lo stupro di guerra. È successo durante la Seconda guerra mondiale, è successo negli anni Novanta nella Repubblica del Congo, nella ex Juguslavia, è successo in Iraq, e ora succede in Siria come in altri paesi in guerra. Secondo il Rapporto dell’Ong «Women under siege» (Wus),
sarebbero soprattutto le forze governative siriane a usare scientemente lo stupro, uccidendo le donne dopo le violenze
Proprio le violenze sulle donne in Siria hanno portato i paesi islamici ad aprire il dibattito sullo stato delle gravidanze in seguito a stupro. Il popolare predicatore saudita Ali Al-Maliki su richiesta delle famiglie siriane ha proposto di aprire una discussione in seno al Consiglio del Comitato dei Grandi Musulmani sulla possibilità di permettere l’interruzione di gravidanza alle donne rimaste incinta a causa dello stupro nel periodo di tempo in cui il feto non si è ancora formato. «Una donna violentata da uomini fedeli a Shabiha (in Siria, il termine indica coloro che, armati ma spesso vestiti in abiti civili, attaccano i dimostranti nelle manifestazioni contro il governo del presidente al-Assad) non può sopportare la nascita di un figlio illegittimo», ha detto Ali Al-Maliki, specificando appunto che lo stupro è «uno dei crimini più orrendi», perché la donna «perde la sua dignità con una terribile umiliazione» e perché «le ferite del corpo con il passare dei giorni si rimargineranno, ma non quelle dell’anima». Inoltre la gravidanza dopo uno stupro è basato sulla negazione.
Il caso di una ragazza violentata da una banda di dieci miliziani fedeli al regime siriano ha colpito profondamente Ali al-Maliki, costringendo «gli illuminati» ad andare a vedere cosa c’era scritto nei libri giurisprudenziali islamici da cui è emerso che per alcune scuole sunnite l’interruzione di gravidanza è possibile in caso di malattia, stupro, povertà, abbandono e altre emergenze individuali e sociali, ma soltanto se praticato entro il centoventesimo giorno, ovvero fino a che il feto in formazione non avrebbe ancora un’anima. L’imam al Ghazali, uno dei padri del pensiero islamico, ha affrontato però l’argomento nel lontano 1111 affermando
la possibilità «dell’aborto terapeutico», e riconoscendo addirittura il diritto delle coppie a una sessualità non procreativa
Oggi però, nel mondo islamico, se l’aborto è possibile in Turchia – il cui governo pochi mesi fa ha dovuto ritirare un disegno di legge che avrebbe limitato da dieci a sei settimane il tempo per abortire – nella maggior parte del territorio islamico l’aborto è illegale e sottoposto alla sharia , per cui si può praticare solo quando è in pericolo la vita della madre, o in caso di anomalia del feto. I tempi concessi vanno dai 40 ai 120 giorni, e le pene per un aborto illegale – come per esempio in Libano – vanno dalla multa, al carcere o ai lavori forzati. Molti stati, tra cui anche l’Afghanistan, concordano sulla possibilità di interrompere la gravidanza se la madre è in pericolo, mentre in Arabia Saudita, negli Emirati, in Iraq e in Kuwait, bisogna valutare il caso singolo. Infine se quasi tutti i paesi vietano l’aborto su richiesta,
in Tunisia e Bahrain è possibile, e qui come in Sudan, è possibile anche l’interruzione di gravidanza in caso di stupro
Ma come sono considerate le donne nell’Islam e come viene considerata la violenza di genere? Nel Corano (Sura IV, 15) si legge che «se le vostre donne avranno commesso azioni infami confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte», o ancora «gli uomini hanno autorità sulle donne, per la superiorità che Allah ha concesso agli uni sulle altre» (Sura IV, 34). Mentre il velo viene indicato nella Sura XXIV, 31 con la frase: «E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne».
Lo scopo più diffuso del velo è di segnalare una «proprietà del maschio» e la fattura del velo indica anche uno status sociale, ma come precisa il versetto 59 della Sura Al Ahzab: «O Profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate».
Ciò dimostra quindi come il velo sarebbe una «protezione» dalla molestia, così come da violenza e stupro, anche se poi, sempre secondo il Corano, una donna per poter provare a un giudice di essere stata violentata ha bisogno di quattro testimoni. Perciò, sebbene la pena imposta dalla sharia per lo stupro è la pena capitale, la consuetudine di dover dimostrare la violenza attraverso la testimonianza di 4 maschi, impedisce alle donne di avere giustizia in quanto, il più delle volte, l’accusa di stupro – in cui è difficilissimo portare davanti al giudice 4 testimoni – diventa un’accusa di adulterio o di pratiche sessuali fuori dal matrimonio per la donna che viene così arrestata.
Solo in Pakistan, per esempio, quasi il 75% delle donne è in prigione per aver denunciato uno stupro
In generale la violenza contro le donne per l’Islam è grave in quanto lede la «proprietà» dell’uomo – che in molti casi non «riprende indietro» la donna ormai disonorata – ma non è considerata assolutamente come un crimine se, per esempio, si svolge dentro le mura domestiche: la Sura An-Nisâ’ (IV, 34) recita: «Ammonite quelle [donne] di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse». Per il Corano è quindi lecito che l’uomo picchi la moglie non ubbidiente, come una forma di disciplina quando la persuasione «benevola» fallisce, perché il potere che è dato a un marito nei confronti della donna, in alcuni paesi musulmani, non è travalicabile né dai genitori né dalla polizia.
Hirsi Ali, la scrittrice somala che ha vissuto in Olanda eletta in parlamento nel 2003 e scappata negli Usa nel 2006 dopo l’omicidio del regista Theo van Gogh ucciso dai fondamentalisti islamici per l’uscita del film Submission – di cui lei ha scritto la sceneggiatura – dichiara esplicitamente come «l’Islam sia imbevuto di violenza e la incoraggi». Per Hirsi Ali – che ha scritto « Non sottomessa », « Infedele », « Se Dio non vuole» e «Nomade » – l’Islam non è compatibile con con i diritti delle donne in quanto «per modernizzare l’Islam e adattarlo agli ideali contemporanei, è necessario porsi in atteggiamento critico nei confronti del Corano e dei precetti in esso contenuti: in una parola, è necessario dialogare con Dio e dissentire dalle sue leggi». Cioè è necessario porsi in maniera laica, come l’Occidente ha fatto nei confronti della Chiesa cattolica, cercando di escludere quest’ultima dagli affari politici e sociali.
«In Afghanistan le donne manifestano contro pratiche previste dalla legge islamica – spiega la scrittrice – ma le organizzazioni femministe occidentali non sono per niente critiche dell’Islam. Ascoltano la minoranza di uomini che usano l’Islam come strumento per sottomettere le donne». Sottoposta a infibulazione a 5 anni, e fuggita a 22 da un matrimonio combinato, Hirsi Ali cominciò a vivere la sua vita solo dopo essersi liberata dalla famiglia e dai fardelli religiosi che le imponevano un’esistenza che lei non desiderava: attualmente lavora a Washington presso l’American Enterprise Institute, e si occupa di diritti della donna islamiche e della violenza di genere per ragioni culturali o religiose.