Si parla continuamente del bisogno di un cambiamento di cultura rispetto alla violenza contro le donne, ma cosa significa cambiare la cultura? Significa prima di tutto cambiare la percezione della violenza, e uno dei nodi fondamentali è l’informazione che, a differenza di fiction o della pubblicità, si pone come “oggettiva” e per questo influenza in maniera diretta la percezione del problema che viene posto: un’informazione che, qualora non venga data in maniera corretta, può procurare anche distorsioni e danni.
Riguardo l’informazione sul fenomeno della violenza contro le donne, almeno fino a poco tempo fa, i media italiani continuavano a ricalcare una cultura stereotipata della donna, proponendo il problema in maniera distorta e fondamentalmente riduttiva, sia riportando per lo più casi isolati di cronaca nera in cui si insisteva su particolari morbosi del fatto (anche quando si trattava di minori) e/o sulla vita privata della vittima, sia organizzando salotti televisivi in cui tutti, anche chi non se ne occupava, parlava facendo “opinione” sul fenomeno con una pericolosa banalizzazione del discorso in un contesto di urgenza e di sicurezza: il tutto a fronte di un problema che è invece strutturale e profondo, come quello appunto della violenza maschile sulle donne.
Sul femminicidio (termine che indica la morte di una donna con movente di genere), si è parlato e scritto a lungo in termini di omicidi per mano di uomini in preda a raptus o come delitto passionale, mentre riguardo la violenza contro le donne – femminicidio (che comprenda una gamma che va dalla violenza fisica, sessuale, psicologica, economica), si parlava quasi esclusivamente di casi di violenza sessuale arrivati in tribunale, mettendo l’accento sulla morbosità e/o sulla “consensualità o meno” della vittima e senza una chiara cognizione dell’intero fenomeno. Ma chi informa deve essere informato e non può prescindere da una formazione seria su temi così delicati che non possono essere improvvisati da professionisti dell’informazione, come appunto siamo noi giornalisti e giornaliste.
In Italia sono stata una delle prime giornaliste a usare la parola femminicidio scrivendolo nero su “Il Manifesto” e il blog “Antiviolenza” sul Manifesto online, molto prima che l’ondata di indignazione si scatenasse in maniera così forte. Con queste premesse, ho messo a punto il lavoro sul femmicidio-femminicidio nella Rete nazionale delle giornaliste italiane (Giulia) in cui, quando sono arrivata, nessuna sapeva l’esatto significato dei termini ed era poco consapevole di tutto il dibattito internazionale, dall’Onu al Consiglio d’Europa, che ruotava intorno a questo argomento.
Per questo alla fine del 2011 – dopo la stesura della Convezione di Istanbul e dopo il Rapporto Ombra della Piattaforma Cedaw portato dalle Ong italiane all’Onu di New York – ho creduto opportuno condividere il mio lavoro e il materiale da me raccolto e studiato, con le giornaliste della rete, e ciò succedeva quando ancora nessuno, sulla stampa e in Tv, parlava ancora di femmicidio/femminicidio, come succede adesso.
Il tam tam che è scaturito da quel lavoro ha portato l’informazione a concentrarsi in maniera differente sul problema
e mi ricordo come le giornaliste dopo le nostre riunioni, andassero con grande tenacia nelle redazioni in cui lavoravano, cercando di portare faticosamente quel bagaglio di studi e di informazione all’interno del lavoro nelle diverse testate in cui erano. E’ stato così che dall’inizio del 2012 le giornaliste della Rete, e poi anche fuori dalla Rete, hanno cominciato a dare una prospettiva diversa al trattamento della violenza contro le donne all’interno dell’informazione, sia dandosi maggiori strumenti di analisi, sia ascoltando di più la società civile a contatto con le donne che subiscono violenza (come per esempio i centri Antiviolenza, le avvocate e le psicologhe specializzate, i movimenti delle donne), al fine di argomentare il fenomeno con una prospettiva che superasse il
pregiudizio discriminatorio sia sulle donne che rispetto alla considerazione di un argomento “inferiore” e privo di una sua dimensione specifica di genere
Già a marzo del 2012, dopo un mio ampio articolo sul femmincidio (“Il Manifesto” – 7 marzo 2012 – “La famiglia italiana fa più vittime della mafia”), da parte delle giudici Antonella Di Florio (Tribunale civile di Roma) e Tiziana Coccoluto (Tribunale Penale di Roma), mi è stato chiesto di istituire insieme un tavolo interdisciplinare che mettesse in contatto diverse categorie professionali (giudici, avvocati, giornalismo, psicologi, e società civile) intorno al tema del femminicidio. Un altro grande passo avanti nella costruzione di una rete sempre più larga e con contenuti professionalmente alti, che ha prodotto un tavolo proficuo dal titolo “Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario. Per una strategia concreta di lavoro interdisciplinare”, in cui erano sedute la procuratrice Maria Monteleone, la giudice Franca Mangano, la direttrice dello Sco, Luisa Pellizzari, l’avvocata Barbara Spinelli, i giudici di Cassazione Giovanni Diotallevi ed Elisabetta Rosi, la psicologa Elvira Reale, e Vittoria Tola dell’Udi (oltre la sottoscritta e la giudice Antonella Florio che conduceva).
Un tavolo voluto da Magistratura Democratica, Giulia e Giuristi democratici, che, tra tutti i tavoli e i convegni che ho fatto nel corso di questi anni, è stato uno dei più importanti incontri sul femminicidio con spunti di riflessione che sono stati poi ripresi in diversi ambiti di discussione, e in cui già si auspicava la ratifica della Convenzione di Istanbul. Convenzione che oggi, finalmente, vediamo ratificata dall’Italia soprattutto per merito e sotto la spinta di tutta quella parte di donne, professioniste e della società civile, che si è mobilitata e ha prodotto sapere e consapevolezza su questo fenomeno, come oggi questo convegno.
Un approccio, dicevo, interdisciplinare, indispensabile se si vuole intervenire con efficacia sulla violenza di genere nella sua trasversalità, proprio perché la violenza discende da una discriminazione profonda delle donne che attraversa tutta la società, nessuna sua parte esclusa. Un sistema che oggi trova d’accordo anche la ministra del pari opportunità Idem, sia per il suo dialogo con la società civile – con l’istituzione di tavoli di discussione specifici – sia nell’organizzazione del tavolo interministeriale, che comprende il coinvolgimento dei ministri interessati (giustizia, istruzione, sanità, interno, lavoro, ecc), a dimostrazione che senza un coinvolgimento di diversi ambiti di competenza non è possibile affrontare un fenomeno che in Italia non è un’emergenza ma un problema strutturale profondo. Ovviamente, auspichiamo che tutto questo sia fatto attraverso una preliminare indagine accurata – e speriamo anche in una commissione ad hoc – che avvii un monitoraggio sulla realtà riguardo la violenza contro le donne/femminicidio, in un’Italia già redarguita dall’ONU con le Raccomandazioni Cedaw e quelle della Special Rapporteur, Rashida Manjoo, e nel rispetto della appena ratificata Convenzione di Istanbul.
L’impreparazione però, non è solo dei giornalisti ma degli stessi legislatori e delle istituzioni italiane. Un esempio è l’ignoranza con cui si usa femmicidio e femminicidio, la cui differenza ci ha spiegato l’avvocata Spinelli: un errore che non solo tocca i media ma anche le istituzioni – come dimostrato dal dibattito in aula della ratifica della Convezione di Istanbul a cui ho assistito alla Camera, e dove abbondavano termini scorretti e interventi che toccavano solo in superficie il problema. Risolvere quindi il problema culturale è il nodo: ma lo dobbiamo fare da sole? Io farei un passo in più perché vorrei costringere gli uomini a darci retta, a fare quello che noi diciamo, perché questa è la vera scommessa: costringere gli uomini a prendere in mano il problema nella modalità da noi indicata perché comunque li riguarda.
Nei giornali, per esempio, la maggioranza dei direttori e caporedattori centrali qui in Italia sono uomini, e per far adottare la parola femminicidio è stata una lotta immane
figuriamoci per il resto. Giorni fa sono stata al #nohatespeech, seminario alla Camera promosso dalla presidente Laura Boldrini, e lì io, Loredana Lipperini e Lorella Zanardo, abbiamo parlato della violenza sulle donne nel web, un fenomeno odioso quanto grave di cui noi stesse siamo state oggetto, ma il muro sembra duro da abbattere.
E ciò è dimostrato dal fatto che quando la presidente Boldrini, vittima di attacchi sessiti violenti, si è mossa su questo, è stata gridata la parola “censura” malgrado lei non l’avesse proferita, per una sottovalutazione di quello che rappresenta in realtà la violenza sessista e discriminatoria, anche a mezzo web, contro le donne.
Ma quel è la libertà di espressione che si rappresenta in uno sfogo violento fatto di epiteti e minacce?
In quella sede così importante e con addetti ai lavori, pochi hanno capito però la connessione tra la violenza psicologica, presente in tutte le convenzioni internazionali che riguardano le donne (dalla Cedaw alla Convenzione di Istanbul), e i suicidi delle ragazze che hanno subito assalti mediatici. Non si capisce che non accettare la violenza in tutte le sue forme, compresa quella psicologica anche mediata dalla nuova tecnologia, non significa censurare perché quella non è libertà.
Un pregiudizio, quello della discriminazione di genere, che non passa solo attraverso i media o il web, ma anche con l’insegnamento nelle scuole in cui le protagoniste della storia umana vengono oscurate, nel trattamento delle donne nei posti di lavoro, o in famiglia nei ruoli che “competono” le donne, e anche in ambito giudiziario dove – al di là di un impianto giuridico anche attrezzato – ancora oggi le donne possono non essere credute quando denunciano una violenza.
Donne che rischiano di essere rivittimizzate in tribunale, che non hanno la dovuta protezione nel lasso di tempo che va dalla querela al giudizio (momento in cui sono più vulnerabili), che possono essere costrette a un affido condiviso coatto anche in presenza di violenza domestica se il procedimento penale non viene esplicato nei tempi dovuti (e quindi la violenza non è tenuta in considerazione), che si ritrovano ancora adesso rimandate a casa dalle forze dell’ordine per mancanza di preparazione e di formazione di tutti gli operatori che si possono trovare ad avere a che fare con reati di questo tipo su tutto il territorio nazionale (come dimostrato anche dal fatto che il 70% dei femmicidi italiani del 2012 erano stati segnali ai servizi sociali o alle forze dell’ordine).
Il punto cruciale è allora la percezione della violenza nella sua reale gravità: una cultura della “sottovalutazione della violenza” che traspare ovunque con conseguenze enormi, e in cui si rischia di far passare come normalità, un danno o una violazione. Per questo l’informazione ha un ruolo fondamentale: perché se i media sostengono in massa questa cultura della sottovalutazione – che poggia sul pregiudizio della discriminazione di genere – è ovvio che anche la percezione dell’intera opinione pubblica sarà tale, a parte eccezioni.
Raccontare uno stupro come una storiella, insinuare che lei era consenziente, andare a rovistare nelle storie intime, parlare di delitto passionale, non è solo scorretto a ma è dannoso
e per questo noi cercheremo di agire entrando nelle redazioni sulla base anche delle indicazioni ONU e della Convenzione di Istanbul. Le donne oggi sono l’avanguardia di un profondo cambiamento culturale che farà bene a tutti e che porterà vantaggi all’intera società, sia alle donne che agli uomini, ma gli uomini devono ascoltarci e prendere sul serio le nostre indicazioni.
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Indagine di Luisa Betti Dakli sui Media e femminicidio presentata nell’ambito del Convegno “Violenza di genere: nuove forme di tutela dei diritti fondamentali – Il femminicidio e la Convenzione di Istanbul”, organizzato da ADMI (Associazione Magistrate Democratiche Italiane) a Roma presso sala Occorsio del Tribunale Penale di Roma.