Il 3 aprile 2021 è stato il primo compleanno di Lidia Menapace senza di lei. Giorno in cui l’abbiamo voluta ricordare con il primo webinar sul suo pensiero di tre incontri (il prossimo dal titolo “Luoghi marginali, luoghi franchi, luoghi imprevisti” sarà il 15 aprile alle 18.00 sempre in diretta su Facebook e su YouTube). Un pensiero nomade, totalmente non accademico, ironicamente contro corrente anche, e soprattutto, dentro l’ortodossia della sinistra e del femminismo.
Lidia Menapace e il suo pensiero
A 92 anni, appena cinque prima di essere portata via dal Covid il 7 dicembre scorso, Lidia Menapace partecipò al seminario di Altradimora Distacchi: separazioni, abbandoni, lutti, scelte. Come affrontarle? sulla necessità di distaccarsi dal patriarcato a partire dall’uso della lingua che si parla quotidianamente. Un discorso ancora necessario per ricordare che la nostra cultura tende a occultare in molti modi le donne, nel discorso privato come in quello pubblico. “Se non si passa dall’uno al due non si può affrontare l’infinita serie dei numeri”, aveva detto in quell’occasione con la solita chiarezza profonda che incantava perché arrivava dritta a chiunque, a prescindere dal livello scolastico e culturale. Dato che solo lei riusciva a rendere semplice e godibile la complessità avendo il dono maieutico della divulgazione.
Lidia Menapace è stata la prima a mettere l’accento sull’importanza del linguaggio sessuato come strumento contro il sessismo
Nella prefazione a “Parole per giovani donne” (1993) sul perché fosse così complicato dire “uomini e donne” invece che usare “uomini”, Lidia afferma: “Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere”. Ci ha regalato la definizione più suggestiva del Movimento delle donne, osservando che è carsico come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della Terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”.
Negli anni dirompenti del movimento femminista ha suggerito il riconoscimento (da non confondere con l’affidamento), come fondamento della relazione politica tra donne, ricordando che “il processo della conoscenza-riconoscimento-riconoscenza non è né meccanico, né facile: richiede volontà, efficacia e anche strumenti, persino istituzioni ad hoc. E per questo propose la “Convenzione”, cioè un patto paritario per comuni convenienze, come forma politica per la costruzione di pratiche e azioni condivise, efficace senza essere mortificante per la molteplice soggettività propria dell’essere donna e del movimento stesso.
Nel suo “Economia politica della differenza sessuale”, Lidia Menapace ha proposto una riflessione teorica intorno all’economia della riproduzione, declinata nelle specificità biologica, domestica e sociale, che troppo spesso viene ancora genericamente definita “lavoro di cura”, mentre, osserva puntualmente Lidia, “la cura è il modo senza il quale non si realizza il lavoro stesso”. Non si contano le migliaia di occasioni di dibattito, presentazioni di libri, seminari e incontri di formazione ai quali ha preso parte, viaggiando incessantemente fino a 92 anni, spesso da sola sui treni in orari assurdi, dormendo rarissimamente in hotel perché preferiva le case di chi la invitava, insegnando così a noi, sue allieve:
l’arte politica dell’informalità, della disponibilità curiosa alla condivisione enormemente più umana. La sua personalissima e irripetibile versione di quella che chiamava la “via alcolica al socialismo”
La Resistenza
Attivamente pacifista e nonviolenta ha proposto la scuola politica sotto l’egida di Rosa Luxemburg, figura storica snobbata sia dai partiti a sinistra come da buona parte del femminismo, arrivando a scoprirne le radici proto-ecologiste. “Sono convinta che una nuova strumentazione politica teorica possa muovere non da cattedre, bensì da tavole, non da scranni, bensì da incontri conviviali”, scrive Lidia nell’introduzione di “A furor di Popolo”.
Allo scoccare dei suoi 80 anni mi prese una fissazione causata dall’irrazionale panico che morisse senza che ci fosse un prodotto unitario (i libri c’erano, sì, ma non mi sembravano realmente riassuntivi dei momenti salienti della sua vita eccezionale e del suo pensiero) e sono riuscita a realizzare il docufilm “Ci dichiariamo nipoti politici” nel 2006, nel quale sono racchiusi i passaggi esistenziali, politici e teorici per conoscere questa straordinaria testimone del ‘900: qui raccontò un’altra, totalmente antieroica e poco conosciuta, storia delle donne nella Resistenza. “Essere partigiana è stata una scelta naturale, ma non necessariamente armata”, diceva.
“Non avrei mai potuto uccidere nessuno, ero così spaventata dalle armi che avevo il terrore di spararmi in un piede. Le donne hanno fatto la Resistenza anche e soprattutto nascondendo i partigiani nelle case e nei fienili, rischiando la vita per questo atto di insubordinazione”
Lidia, alla quale Marea ha dedicato il primo numero del 2021 raccogliendo tutti i suoi articoli per la rivista dal 1995 al 2016, è stata il contrario dell’accademia, della politica paludata e ufficiale. Lei è stata e romane esempio raro e adamantino di laicità: caratteristiche che, anche a sinistra, non l’hanno resa popolare ai vertici ma che l’hanno consegnata alla storia contemporanea come figura indimenticabile per i milioni di persone di ogni età che ha avvicinato nel suo peregrinare instancabile.
“E sì, sono proprio una peripatetica,” diceva sorridendo per prendersi in giro e alleggerire l’atmosfera nelle situazioni ufficiali, spiazzando le eventuali ‘autorità’ presenti. L’essere femminista nel concreto ha significato per lei condividere lo spazio fisico: cum panis, dirsi compagna nella fisicità era per Lidia Menapace la norma, non l’eccezione. Maestra, maieuta, levatrice, non materna ma affiancante, Lidia Menapace ha incarnato, nel piccolo corpo-mente curioso e gentile che solo il Covid è riuscito a spegnere, l’esempio vivente di femminismo inclusivo, irridente del virilismo di destra e di sinistra, e di laicità che si fonda sulla libertà dei corpi di gioire del piacere, tutti i piaceri, nel rispetto reciproco.