Bambini strappati e “resettati”: i metodi della psicologia giuridica

Protocollo di Napoli: una guida per evitare il trauma degli affidi coatti dei minori basati sulla teoria ascientifica dell'alienazione parentale diagnosticati da Consulenze Tecniche d'ufficio in Tribunali che rivittimizzano le madri

Elvira Reale
Elvira Reale
Psicologa, Responsabile Centro Dafne dell'ospedale Cardarelli di Napoli, ha diretto il Centro Salute mentale. Ha pubblicato, tra gli altri, "Maltrattamento e violenza sulle donne" (vol I e II) e "La violenza invisibile sulle donne" (Franco Angeli Editore)



Il Protocollo Napoli, linea guida per le consulenze tecniche d’ufficio (CTU) nei casi di violenza domestica, è nato dalla necessità di veicolare nel campo clinico-giuridico, in tema di affidi dei minori, la Convenzione di Istanbul. In particolare gli articoli 26, 31, 45, 46, 56 che riguardano i minori, la loro sicurezza e la violenza assistita sulle madri, e l’articolo 48 sul divieto di mediazione familiare e gli articoli 15 e 18 sulla tutela della donna dalla vittimizzazione secondaria.

La psicologia giuridica

Si è assistito in questi anni al posizionamento della psicologia se-dicente (sd) forense, che si è ramificata sul territorio nazionale, producendo corsi, seminari, master sia nel privato che all’ombra di università. A Roma, Venezia, Padova e Chieti, sono state prodotte molteplici linee guida come il Protocollo di Milano e le Linee guida degli psicologi Lazio, firmate dai principali interpreti di questo orientamento: psicologi e psichiatri come Camerini, Gulotta, Lavadera, Pingitore, Malagoli Togliatti.

linee guida centrate sul diritto alla bi-genitorialità reinterpretato in maniera distorta rispetto a convenzioni internazionali e leggi che indicano solo il diritto del minore a mantenere, nei casi di separazione, il rapporto con i due genitori “a meno che ciò non sia contrario al loro interesse”

Da questo posizionamento è discesa la reinterpretazione arbitraria della bi-genitorialità (termine lessicale per altro assente sul piano della norma giuridica)  come diritto assoluto e primario del minore, e non come diritto per il supremo interesse del minore, ovvero i suoi diritti primari e incondizionati come appunto la cura, la salute e la sicurezza. La  psicologia sd forense, con questa sua interpretazione, ha attraversato il mondo giuridico e psicologico per dettare le nuove regole e i nuovi principi non fondati su dati scientifici, e non rispettosi della lettera e della sostanza delle norme e delle convenzioni. Nel Protocollo Napoli si è proceduto quindi a una critica di questa distorsione di principi psicologici e giuridici, che hanno avuto nel tempo una disseminazione tra i tecnici delle due discipline, e sono stati indicati i principi alternativi cui attenersi nell’ambito delle consulenze tecniche in tema di affido di minori e contenzioso tra genitori. Partiamo quindi dall’esaminare la distorsione delle convenzioni internazionali e delle leggi nazionali che riguardano il cosiddetto diritto alla bi-genitorialità nel minore e nell’adulto, nonché l’interpretazione fallace di cosa si debba comprendere nel best interest del minore.

Il diritto alla bigenitorialità

Il principio della cosiddetta bi-genitorialità, presente nella nostra costituzione all’articolo 30 tout court come diritto alla genitorialità in capo al singolo e non alla coppia, è rappresentato in maniera duplice come dovere-diritto, dove la parola dovere è anteposta al diritto, qualificando tale diritto come un munus. Ciò sta a significare che si tratta di un diritto condizionato dall’espletamento di un dovere di un’attività di servizio, ovvero di un’attività principale dovuta a un bambino e cioè l’attività di cura. Ancora significa che questo diritto non si acquisisce e non si esercita se prima non si è soddisfatta l’esigenza di cura di un minore.

Un diritto costituzionalmente non assoluto ma condizionato all’esercizio doveroso della cura che significa a sua volta tutela della salute, della sicurezza, dell’educazione di un bambino. Passando poi a valutare il diritto del minore a mantenere le relazioni con i due genitori, anche dopo la separazione, troviamo che anche qui questo diritto non è assoluto ma limitato da alcune circostanze di fatto. Si muovono in questa direzione le varie convenzioni e leggi: dalla Convenzione di New York alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza 2000 e Strasburgo 2007) e a anche alla nostra legge 54/06.

Per tutte queste pronunce riportiamo a titolo esemplificativo l’art. 24 (Strasburgo 2007):

1 – I minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere. Essi possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità.

2 – In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente.

3 – Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.

Appare chiaro dai paragrafi che al primo posto abbiamo il diritto alla cura e al benessere ovvero alla salute, e poi il  diritto dei minori alla libertà di espressione (ovvero a essere ascoltati) e questi configurano i diritti primari, legati anche alla sopravvivenza personale, fondamentali e senza condizioni. Nel terzo paragrafo invece abbiamo il diritto condizionato al best interest che è appunto il diritto del minore a mantenere le relazioni con ambedue i genitori, ma solo se il mantenerle non è contrario al suo interesse.

La distorsione di questo diritto è stata alla base dello sviluppo della psicologia forense che ha preteso di mettere al centro la bi-genitorialità come obiettivo non da valutare ma da raggiungere in ogni controversia

Questa metodologia nega valore alle circostanze fattuali nelle quali si esercita la genitorialità nei confronti del minore, e nega valore ad altre convenzioni, che pure riguardano la tutela dei minori, come la Convenzione di Istanbul. Soprattutto nega valore ad altre interpretazioni del disagio del minore proponendo sempre e comunque come rischio evolutivo del minore, la violazione di questo diritto e non la violazione del diritto del minore alla sicurezza e alla cura. Tralasciamo qui di citare la corposa letteratura internazionale presente sul tema degli effetti della violenza assistita e diciamo solo che in caso di violenza assistita la separazione da un genitore violento è considerato sul piano clinico il primo passo per ottenere un miglioramento delle condizioni di disagio psicologico di un bambino.

Linea guida degli psicologi del Lazio

Come rappresentazione emblematica di questa metodologia che mette al centro  il presunto diritto alla bi-genitorialità nel determinare gli affidi, portiamo alcuni stralci tratti dalle Linea guida degli psicologi del Lazio. Queste metodologie hanno trasformato in un criterio psicologico il diritto alla bi-genitorialità: ovvero hanno statuito che la competenza genitoriale del singolo è soddisfatta se il genitore garantisce/facilita la presenza/accesso dell’altro genitore al rapporto con il  figlio. È di tutta evidenza che questo criterio c.d. dell’accesso  non potrà mai essere soddisfatto nei casi di violenza perché la donna che ha subito violenza non potrà mai avere un atteggiamento “amichevole” e di apertura verso un partner da cui spesso è fuggita per mettere al riparo se stessa ed i figli. Dalle “Linee Guida per l’ascolto del minore nelle separazioni e divorzi” a cura di Malagoli Togliatti, Lavadera, Capri, Rossi, Crescenzo, Ordine  degli psicologi del Lazio”, 2012, si legge:

Nel caso specifico delle separazioni e dei divorzi, la valutazione della genitorialità verterà in maniera specifica sulle capacità di ciascun genitore di salvaguardare la relazione del figlio con l’altro genitore, la capacità di garantire al figlio una continuità affettiva e relazionale, nonché la capacità di salvaguardare il figlio stesso dal confitto con l’altro genitore (coinvolgimento in dinamiche triangolari disfunzionali, squalifiche dell’altro genitore, conflitti di lealtà, ecc.).

L’esperto dovrà sempre avere una funzione di filtro e di rielaborazione dei contenuti e dei significati di ciò che avviene durante gli incontri di consulenza, svolti alla presenza dell’altro coniuge/partner e/o del minore. Questo per evitare di amplificare il conflitto.

Il colloquio congiunto consente di osservare le modalità di rapporto tra i due ex partner, attraverso la valutazione della capacità o meno di dialogare, dell’entità e della modalità attraverso cui si esprime il conflitto, delle capacità negoziali e soprattutto dell’attenzione di ognuno di ascoltare le ragioni dell’altro.

L’ascolto del minore da parte dell’esperto parte dalla necessità di tutelare la continuità dello stile di vita del figlio e delle sue relazioni con le figure significative, puntando alla salvaguardia del rapporto con le famiglie di origine e con entrambi i genitori.

L’obiettivo della consulenza è quindi risolvere la conflittualità dando vita a un intervento trasformativo, scavalcando completamente il tema della valutazione di elementi ostativi all’applicazione di questo principio e della necessità, in caso di violenza, di porre in sicurezza la donna vittima di violenza ed i figli minori.

Donna e figli, in questa metodologia, sono costretti a confrontarsi con l’autore di violenza nel ruolo di partner/padre, abbandonando le difese per andare incontro ai presunti diritti in linea paterna

La Consulenza Tecnica d’ufficio

In particolare il consulente richiede alla donna, se vuole essere considerata competente come genitore e non essere esclusa dall’affido e/o allontanata dai figli,  di essere collaborativa con il partner e di facilitargli l’accesso al minore, nel caso anche di un netto rifiuto da parte di quest’ultimo. La consulenza progettata con questa metodologia, che ritroviamo in altri protocolli come quello di Milano, porta a considerare la donna responsabile dell’insuccesso del consulente che si è speso nel tentativo di mediazione, il quale ha negato la situazione di violenza domestica qualificandola come reciproca conflittualità, ascrivibile spesso all’ostruzionismo della donna con la vocazione a stabilire un rapporto simbiotico con il figlio.

In nessuna di queste consulenze, che nascono sotto l’egida del diritto alla bi-genitorialità, viene preso in considerazione il comportamento del padre prima della separazione. Anche là dove siano presenti atti di procedimenti, denunce, rinvii a giudizio, sentenze di primo grado o racconti della violenza subita dalla donna, il consulente non li prende in considerazione se non per argomentare che non si tratta di violenza e che la donna ha alterato la realtà, o non è stata in grado di testimoniare in modo attendibile quanto successo dopo la separazione dal partner rappresentata come un lutto da elaborare.

È chiaro che la violenza non costituisce per questi consulenti forensi un buon motivo per limitare la responsabilità genitoriale del padre o considerare la genitorialità paterna incompetente

L’alienazione parentale

Se i minori si rifiutano di incontrare il padre non viene presa in considerazione la prima opzione che, in questi casi, è quella che il minore sia vittima di violenza assistita. Al contrario  tutti, come prima ipotesi senza vagliarne altre, si affidano al costrutto dell’alienazione parentale descritta non tanto più come sindrome ma come comportamento ostruzionistico della madre. Quando poi il comportamento della madre non sia dimostrato con dati di fatto, ecco che si ricorre alla dimensione clinica dell’inconscio, parlando di trasferimento di vissuti, intenzioni, desideri inconsci, proiettati dalla madre sul bambino che renderebbero quest’ultimo prigioniero del mondo materno. Costruzioni che possono trovare eventualmente spazio in sede clinica e non possono certo avere accesso nelle aule giudiziarie pena l’inquinamento delle procedure, fondate su fatti e comportamenti provati.

Una volta poi affermata, con queste metodologie, la responsabilità materna, chiamando in causa anche l’inconscio, si giunge alla parte più oscurantista e drammatica delle indicazioni del consulente sd forense, ovvero l’allontanamento traumatico del minore dalla madre e dal suo contesto abituale di vita. Questo aspetto consequenziale dell’intervento della cosiddetta psicologia forense non trova fondamento in alcun costrutto scientifico degno di questo nome e non abita il mondo sanitario la cui massima è primum non nocere. Nessun codice deontologico, in ambito  sanitario, prevede interventi costrittivi, afflittivi e traumatici definibili come interventi terapeutici.

Sottrazione del minore con uso della forza

Quando il bambino è a rischio per la sua vita, il codice civile interviene con il suo articolo 403 che impone di sottrarre il minore al suo contesto solo se vi è una provata emergenza e in presenza di un rischio per la vita. Al di là di questo, che non è comunque un intervento psicologico o terapeutico, sanitario, non sono previsti altri interventi di natura costrittiva se non il TSO, ovvero il trattamento sanitario obbligatorio, che vale per tutti, adulti e minori, e che è disciplinato da altre norme, la legge 833/78 che riguarda l’ordinamento sanitario e non giudiziario.N

Nonostante questo tipo di intervento traumatico e afflittivo sul minore non sia nemmeno concepibile in ambito psicologico, gli psicologi sd forensi lo hanno indicato come l’unico intervento che può restituire la genitorialità negata ad un padre

Ecco cosa dicono nel loro documento “Buone prassi giudiziarie e psicosociali in favore della bigenitorialità e di contrasto all’alienazione parentale” firmato da 10 sigle (Centro Studi Famiglia dell’Associazione Circolo Psicogiuridico, Centro Universitario Internazionale, Centro Universitario di Studi e Ricerche in Scienze Criminologiche e Vittimologia, Fondazione Guglielmo Gulotta di Psicologia Forense e della Comunicazione, La Casa di Nilla, Centro specialistico della Regione Calabria per la cura e la protezione dei minori, Master in Neuropsicologia e Psicopatologia Forense – Università di Padova, Società Italiana Scienze Forensi – SISF, Società di Psicologia Giuridica – SPG, Unità PsicoForense – UPF, Università IUSVE di Venezia):

Quando il figlio continua a rifiutare qualsiasi contatto e comunicazione con il genitore escluso e con i suoi parenti, in mancanza di altre opzioni praticabili, sarà necessario prevedere il suo trasferimento in una residenza transitoria presso una struttura specializzata per minorenni.

A seconda dei casi, il programma di incontri in spazio neutro prevede operatori esperti che, utilizzando apposite tecniche e strumenti, svolgano un ruolo di facilitatori della relazione con entrambi i genitori. In linea generale questi programmi devono svilupparsi in un continuum che dallo spazio neutro porti gradualmente verso periodi di permanenza presso l’abitazione del genitore precedentemente respinto.

Un trattamento inteso nelle forme del sostegno psicologico e/o psicoterapico  finalizzato a far acquisire al minore maggior consapevolezza delle proprie relazioni familiari, potrebbe risultare inefficace innanzitutto per mancanza di motivazione al cambiamento, tanto più se il bambino continua a subire il condizionamento del genitore che ha alimentato la sua avversione nei confronti dell’altro nel corso dell’intervento, sino a poter provocare, talvolta, paradossalmente una cronicizzazione del rifiuto.

Richard Gardner e il trattamento sul minore

Richard Garder

Il trattamento in questi casi è l’applicazione del Transitional Site Program come codificato da Richard Gardner, inventore della PAS (Parental Alienation Syndrome) che nelle intenzioni del suo inventore viene applicato esclusivamente alle madri che programmano i figli, e prevede il trasferimento coattivo in comunità alloggio (Gardner, R. “Recommendations for Dealing with Parents Who Induce a Parental Alienation Syndrome in Their Children”, Journal of Divorce & Remarriage, Volume 28 – 3/4, 1998, p. 1-21). Il corrispettivo italiano di questo trattamento (ideato da Marco Pingitore, altro psicologo forense) è il REFARE Program – Trattamento Psicologico Alienazione Parentale, definito come “il primo trattamento psicologico specifico per i casi in cui il Tribunale ha affidato il figlio al genitore rifiutato a causa della c.d. alienazione parentale, processo psicologico in cui le condotte irresponsabili di un genitore violano il diritto alla bigenitorialità del figlio, ex art. 337-ter comma 1 c.c.”

dovunque si realizzi un conflitto sull’affido con figlio recalcitrante e madre protettiva, si arriva alla definizione di una madre alienante senza andare a vedere i fatti che pesano sul rifiuto del bambino

Se il bambino sta male quando incontra il padre, e la madre richiede una restrizione del diritto di visita a tutela della salute del minore, lei sarà indicata come manipolatrice e responsabile dei vissuti negativi del bambino verso il padre  attraverso una proiezione dei propri vissuti sul bambino. Il trattamento è quindi prevalentemente forzoso: allontanamento immediato del figlio dalla madre alienante e collocazione dal genitore rifiutato con una transizione presso una struttura di passaggio per poi essere collocato dal padre (a cui viene data la responsabilità genitoriale esclusiva) e con visite super protette della madre (alcune madri hanno qualificato questo regime come trattamento del 41 bis).

La parentectomia

I professionisti fautori di questo trattamento, che discende appunto dall’ideatore della PAS Richard Gardner, sottolineano il carattere traumatico dell’intervento, definito da loro stessi come parentectomia (G.B. Camerini, T. Magro, U. Sabatello, L.Volpini dell’università di Padova e Roma  – “La parental alienation: considerazioni cliniche, nosografiche e psicologico-giuridiche alla luce del dsm-5″, Gior. Neuropsich Età Evol. 2014; 34:1-). Di seguito riportiamo le critiche agli psicologi che utilizzano i trattamenti coercitivi (“Experts Warn About Dangers of Deprogramming Treatment”, The Leadership Council on Child Abuse & Interpersonal Violence, 2009):

Varie forme di questo tipo di “trattamento” sono nate negli ultimi dieci anni. La terapia di solito comporta il confinare il bambino in un luogo lontano da casa, e isolare il bambino dal genitore a cui il bambino è più attaccato. L’attaccamento al genitore preferito è contestato, e il bambino è incoraggiato con sessioni intensive ad accettare nuovamente il genitore rifiutato. Questa cosiddetta “terapia” ricorda il tipo di tecniche di lavaggio del cervello usate nei campi di prigionia dove la privazione e l’isolamento sono usate per costringere false confessioni e per forzare i cambiamenti ideologici nei prigionieri. Mentre queste tecniche possono produrre cambiamenti nella credenza e nel comportamento, siamo preoccupati che queste tecniche siano dannose per la salute mentale dei bambini.

Uno dei pericoli concreti di questo tipo di terapia è che è stata usata per costringere i bambini a riunificarsi con adulti che hanno commesso crimini violenti contro di loro, mettendo così i bambini a rischio di ulteriore vittimizzazione. Il Consiglio direttivo ha parlato con diverse vittime di questo tipo di terapia che sono state traumatizzate dal trattamento.

Pingitore, avanzando una critica alle procedure consulenziali, indica come non sia legittimo sul piano giudiziario parlare di diagnosi e cure, e ritorna a dire che “di fronte a un genitore che impedisce l’accesso del figlio all’altro genitore, al Tribunale non dovrebbe interessare il motivo alla base di quel comportamento, ma sostanzialmente solo se lo adotta, per poi prendere relativi provvedimenti giudiziali (non sanitari) (Pingitore M., “È legittima la perizia sulla personalità dei genitori separati?”, VVAA).

La mancanza di scientificità

Alla fine ciò che emerge con costanza e invariabilità, è il costrutto a-giuridico della bi-genitorialità. La bi-genitorialità sarebbe il valore da salvaguardare sia dal punto di vista giuridico che psicologico. Esso contiene in sé ogni altro diritto e bisogno primario del bambino dalla salute alla sicurezza, all’educazione, alla socializzazione. Di conseguenza in questa prospettiva distorta, ogni disagio del bambino è riferito alla mancanza di questo valore, ogni altro fattore che riguarda la salute del minore viene cancellato dal campo valutativo.

Il Protocollo di Napoli

Da qui il riparte il nostro intervento come Protocollo Napoli che fa luce sulla mancanza di appropriatezza scientifica di questi costrutti psicologici, purtroppo traslati in campo giudiziario con gravi effetti inquinanti tanto che spesso le sentenze dei giudici si trasformano in avventuristici diari clinici. Di seguito i principi generali alla base del Protocollo Napoli redatto da Caterina Arcidiacono (Ordinaria di Psicologia Unina), Antonella Bozzaotra (Presidente Ordine Psicologi Campania e psicologa sportelli antiviolenza Asl Na 1 Centro), Gabriella Ferrari Bravo (Psicologa), Elvira Reale (Responsabile Centro Dafne ospedale Cardarelli), Ester Ricciardelli (Psicologa sportelli antiviolenza Asl Na 1 Centro), approvato e sottoscritto dall’ordine degli psicologi della Campania. In accordo con le indicazioni della Convenzione di Istanbul (CdI) e con la definizione delle donne quali vittime di violenza e dei minori quali vittime di violenza assistita, in ogni situazione di affido genitoriale, specie nei contesti di alta conflittualità, si propone che i criteri preliminari nelle CTU rispondano ai seguenti obiettivi:

  1. a) Valutare la presenza di violenza domestica nei confronti della madre (IPV)

In accordo con l’approccio ecologico proposto dall’OMS1, un intervento a vertice psicologico dovrebbe valutare le effettive pratiche di cura espletate negli anni da entrambi i genitori nel corso dell’intera storia familiare e tenere conto delle condizioni sociali, culturali, organizzative e relazionali della coppia. In tale quadro sarebbe sempre opportuno considerare i livelli di potere esercitati nella coppia e nell’intero contesto familiare e dare ascolto alla parola del minore.

La considerazione di tali molteplici dimensioni costituisce premessa necessaria per qualsivoglia teoria psicologica che orienta l’intervento valutativo. Infatti, in tal modo le dinamiche conflittuali esistenti all’interno del nucleo familiare possono essere esaminate secondo una prospettiva di differenza di genere, nel cui ambito osservare i comportamenti agiti, improntati a violenza e controllo. Pertanto il protocollo recepisce che in ogni caso di emersione della violenza non può essere applicata la mediazione come indicato dall’art. 48 della CdI.

  1. b) Sollecitare gli esperti a un sempre maggiore approfondimento della specificità del PTSD (Disturbo da stress post-traumatico) rispetto a turbe o disfunzioni di personalità, al fine di evitare che condizioni riferibili a uno stato di emergenza situazionale contingente vengano confuse con inadeguatezze e fragilità strutturali della persona

Pertanto, nelle situazioni di violenza, il supporto testologico va finalizzato prioritariamente alla valutazione dei disturbi da stress post-traumatico, spesso cronico ma anche acuto, mentre i tradizionali test di personalità potrebbero risultare limitati nell’evidenziare gli effetti delle situazioni traumatiche. Inoltre, nell’offerta testologica attuale, non sembrano esserci strumenti adeguati a valutare le competenze genitoriali in grado di evitare i rischi di ri-vittimizzazione secondaria di donne e minori.

 

  1. c) Promuovere la distinzione tra intervento psicologico valutativo e trattamento

L’esercizio della professione psicologica distingue tra obiettivi valutativi (soprattutto in ambito forense) e quelli di presa in carico a valenza clinico-trasformativa. Sarebbe opportuno che la CTU mantenesse una finalità meramente valutativa in risposta ai quesiti del giudice e che fosse rinviato ad altri momenti e ad altri specialisti l’intervento clinico di presa in carico. Esso avrà il compito, di fuori del contesto giudiziario, di supportare con ottiche diverse vittime e autori di violenza (come previsto anche dalla CdI, art.16) nel superamento delle rispettive problematiche connesse alle dinamiche di potere, subite o agite.

  1. d) Promuovere l’ascolto del minore, partendo dal diritto alla Safety First

I colloqui con i minori rappresentano un punto critico, come tutti gli operatori che ne hanno esperienza sanno bene. Essi devono essere rispettosi delle richieste ed esigenze del minore e dovrebbero essere effettuati evitando ogni possibile invadenza, suggestività e pressioni di qualunque tipo, anche solo mirate a ottenere una compliance alla situazione della consulenza. È naturalmente inopportuna ogni pressione rivolta a far accettare al minore gli incontri con il genitore verso cui ha mostrato, nel corso della valutazione, rifiuto e paura. Il rifiuto del minore va approfondito e valutato a partire dalle sue motivazioni, dalle sue paure e dalle sue angosce, sempre nel rispetto del suo sentire e della sua volontà. Quest’ultima, comunque, non può essere forzata per imporre al minore incontri costrittivi con il genitore rifiutato, come recentemente affermato dalla sentenza n. 30826 del 2018 della I sez. Civile della Corte di Cassazione.

  1. e) Promuovere il Dovere-Diritto alla genitorialità (Art. 30 della Costituzione)

In quest’ambito bisogna indicare con chiarezza che le competenze genitoriali devono essere valutate tenendo conto primariamente della storia del rapporto di cura che ha caratterizzato la relazione tra i minori e i singoli genitori fino al momento della separazione e nel corso della stessa. In caso di violenza va escluso, tra le competenze genitoriali, il criterio dell’accesso (friendly parenting), che considera buon genitore colui/colei che promuove l’accesso all’altro (in genere il collocatario che promuove la relazione con il genitore non collocatario). È opportuno ribadire che il legislatore (Convenzioni internazionali e Leggi nazionali) si è già espresso stabilendo precisi limiti a tale diritto, subordinando il diritto all’accesso a quello della tutela (Art. 26 e 31 della CdI) nel caso di condotte pregiudizievoli da parte di uno o entrambi i genitori, che minano la salute e la sicurezza dei minori (compresi il maltrattamento e la violenza assistiti).

  1. f) Promuovere l’adesione solo ai costrutti scientifici validati da organismi internazionali

In particolare, si segnala qui, tra le altre, la posizione dell’APA (“Statement on Parental Alienation Syndrome”) dove si rigetta la cosiddetta PAS in quanto costrutto ascientifico, più volte rifiutato dalla comunità scientifica internazionale.

  1. g) Promuovere modalità di affido che non alterino le abitudini di vita del minore

Nell’ambito della CTU bisogna fare attenzione a che siano mantenute le abitudini di vita dei minori e i legami con il suo contesto relazionale e affettivo. A questo criterio va improntata l’organizzazione dei contatti, delle visite e del tempo da trascorrere con il genitore non collocatario (più spesso il padre).

In tal modo la separazione, che comporta necessariamente una diversa programmazione dei tempi quotidiani, non stravolgerà lo stile di vita dei minori, e non riserverà proprio a essi i costi psicologici più elevati della separazione dei genitori. In considerazione di ciò, appare chiaro quanto il concetto di “bigenitorialità perfetta”, che si fonda su una simmetrica distribuzione dei tempi tra i genitori, si caratterizza, viceversa, come un abuso dei tempi della vita dei figli. In conseguenza di questo principio, fondato sulla prioritaria necessità di non stravolgere la vita dei minori, in nessun caso vanno assecondate o poste le condizioni per interventi forzosi e afflittivi, in particolare quelli che impongono un passaggio coattivo da un genitore all’altro. Tali procedure, al di là di tutte le altre considerazioni etiche e deontologiche, vanno considerate come un trauma attuale e certo in confronto al possibile danno aleatorio, costituito dal non trascorrere in misura perfettamente uguale i tempi di vita con entrambi i genitori. Tutto ciò diventa particolarmente vero quando un genitore ha esercitato o esercita violenza nella relazione di coppia.

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