Monica Vitti, l’antidiva moderna e dissacrante che sapeva ridere di sé

Oggi i funerali dell'attrice alla Chiesa degli artisti a Piazza del Popolo a Roma, dopo il saluto al Campidoglio

Eleonora Degrassi
Eleonora Degrassi
Critica cinematografica e televisiva, esperta di genere nell’immaginario visuale



Nata il 3 novembre 1931, Monica Vitti se ne è andata il 2 febbraio dopo una lunga malattia degenerativa che l’ha allontanata dalle scene per quasi 20 anni. Oggi alle 15 il funerale nella Chiesa degli artisti a Piazza del Popolo a Roma, dopo l’ultimo saluto che da ieri è possibile nella Sala della Protomoteca al Campidoglio.

I successi

All’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, è stata la mattatrice del cinema italiano che ha saputo raccontare le donne quando poche altre potevano farlo. La sua è stata una carriera straordinaria, piena di riconoscimenti: 5 David di Donatello come migliore attrice protagonista, 3 Nastri d’Argento, 12 Globi d’oro, un Ciak d’oro e un Leone d’oro alla carriera, un Orso d’argento alla Berlinale, una Cocha de Plata a San Sebastián, una candidatura al premio BAFTA. Diplomata all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, ha debuttato giovanissima a teatro e, cambiato nome, ha iniziato il suo viaggio nell’arte tra cinema, tv, palchi e libri (“Sette sottane”, 1993, e “Il letto è una rosa”, 1995).

Il desiderio di essere altro

Vitti non è rimasta mai indietro, si è ritagliata il proprio spazio nonostante spesso l’industria cinematografica fosse fallocentrica e fallocratica, ingabbiata in schemi precostituiti e ruoli fatti con lo stampino, monodimensionali, piatti. Il suo desiderio di raccontare altro esplode in queste parole che altri hanno detto a lei: “Monica, come posso scrivere storie per te? Sei una donna, e cosa fa una donna? Non va in guerra, non lavora. Cosa posso fare? Posso solo scrivere una storia d’amore. Tu fai figli, tu soffri, lui parte, sei senza speranza” (“Bianco e Nero”, 1972).

A Vitti questo sta stretto e così si prepara a ridisegnare i confini femminili che guardano altrove

Ha indagato, interrogato, riso e deriso un’Italia non sempre, o forse quasi mai, all’altezza dei sogni delle sue cittadine, ha smembrato l’immagine femminina del passato a suon di silenzi e risate per costruirne una nuova, moderna, figlia del presente, pronta a guardare al futuro. Moderna sì, fin dal corpo, capace di incarnare gli slanci del boom economico e di tutte quelle luci e ombre del periodo, in grado di sradicare gli elementi italiani dalla sua personalità. Una fisicità quasi “spersonalizzata” rispetto a quelle “moraccione” dalle curve piene, dai fianchi voluttuosi e dai seni accoglienti che dovevano appunto accogliere un’Italia affamata dalla guerra e dalla povertà.

Non è metafora del materno, sottotesto simbolico della maggiorata, rappresenta un femminile evoluto rispetto agli standard dell’Italia patriarcale

Bellezza fuori dagli stereotipi

L’avventura

Lei si definisce non bella, anzi proprio in virtù dell’immagine divistica allora in voga, dice di essere “troppo magra, troppo alta, troppo bionda” (Vitti, “Sette sottane”, 1993), troppo poco mediterranea per competere con le colleghe di una bellezza nazional-popolare, Claudia Cardinale o Silvana Mangano. È esile, con quella voce rauca affascinante e disperata, lei, delicata ma non smunta, sensuale e anche algida, aristocratica e popolana, vivace ma forse mai davvero, animata da una lieve ma al tempo stesso profondissima, inquietudine.

Deserto Rosso

Monica è una bambina matura e una donna fragile, un’attrice divertente ma anche malinconica, tenera e spietata, coraggiosa e perduta. È ragazza con la pistola ma anche regina alienata, bionda fatale e ballerina di avanspettacolo. Monica Vitti è tutto questo e molto di più, è proprio così, corale, totale, ricca di sfumature, i suoi film ne sono un esempio. Lei sta in quella forbice di interpretazioni che va dalla citazione del “mi fanno male i capelli” di “Deserto rosso” ai balli divertenti di “Polvere di stelle”. È anima della tetralogia dell’incomunicabilità ma anche spirito ironico della commedia capace di ridere anche degli strappi più dolorosi.

È icona del cinema ma non ne possiede le rigidità perché lei è un’antidiva che pur essendo diva per il pubblico fin nel midollo, sa essere tutto e niente

Ha così tanti volti che ciascuna spettatrice di ieri e di oggi può ritrovare il proprio. Cerebrale e inquieta, tormentata e disperata, l’attrice incarna l’Italia urbana della Dolce vita, la donna della borghesia intellettuale ed è divertente e divertita quando gioca con Sordi, Mastroianni, Tognazzi, Manfredi.

I film e la vita con Michelangelo Antonioni

Monica Vitti con Michelangelo Antonioni

Vitti è la musa di Michelangelo Antonioni, sua compagna nella vita, insieme narrano le nevrosi della coppia, le inquietudini della donna moderna. Monica parla con i silenzi, esprime turbamenti, dolori, drammi, traumi, attraverso le parole dosate di sceneggiature meravigliose. “L’avventura” (1960), “La notte” (1961), “L’eclisse” (1962) e “Deserto rosso” (1964) sono quattro film che le danno la possibilità di raccontare quattro donne diverse ma simili, quattro variazioni sul tema.

L’eclisse

La tormentata Claudia che cerca l’amica tra le isole delle Eolie, la tentatrice Valentina che “ruba” Mastroianni a Jeanne Moreau, la misteriosa e scontenta Vittoria che si fa corteggiare senza entusiasmo e la depressa e tormentata Giuliana, moglie insoddisfatta di un imprenditore. Abita quelle inquietudini di femmine che vagano senza meta e senza la forza per reagire agli stimoli circostanti, che attendono qualcosa che forse non arriverà mai. Lei è volto-paesaggio indecifrabile e rarefatto, la nuca e i capelli che fanno male, arruffati, scarmigliati, elementi di un dramma spesso di spalle che rappresenta il tratto distintivo del cinema di Antonioni.

La donna comica che rompe lo schema

Si allontana poi da questo cinema per perlustrare il comico, in cui sembra trovare la sua vera dimensione, in cui il suo corpo e le sue storie impreviste sfidano il punto di vista maschile dominante con la figura di una donna ribelle, indisciplinata attraverso eccesso e stravaganza. Con Mario Monicelli e il “La ragazza con la pistola” (1968) dà corpo alla coraggiosa e ribelle Assunta Patanè che, rapita per errore da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffré) che voleva in realtà la cugina di lei, decide di vendicarsi perché la morale corrente lo richiede: chi disonora deve pagare. In questo romanzo di emancipazione femminile Vitti incarna la donna lapidata da una società: una Sicilia piena di pregiudizi, arretratezze che disconosce colei che viene meno al codice d’onore ed è per questo che è costretta a partire per l’Inghilterra dove Vincenzo si è rifugiato.

Assunta è forte nonostante nel film dica il contrario perché questo le è stato insegnato (“sono debole”)

La ragazza con la pistola

Ma una volta arrivata in Inghilterra con i capelli legati, fasciata in un abito nero, imprigionata nei suoi pensieri (“il vero uomo ci deve provare, la vera donna si deve rifiutare”), è pronta a usare quella pistola che porta nella valigia per ripulire l’onore macchiato. Lì a poco a poco, arriva però a scoprire la vera sé, cambia i vestiti (il vinile, tessuto artificiale per eccellenza, è espressione dello spirito dei tempi moderni) e il punto di vista. Infine, quando la sua vendetta, civile e ironica, si è compiuta, Assunta abbandona l’eccesso in favore di un look che significa serenità e autocontrollo: la moda che innesca una rivoluzione nella sfera privata esprime una stabilità identitaria, una donna ormai formata.

Il gioco delle parti con Sordi e Scola

Amore mio aiutami

Vitti dà l’ennesimo colpo ai cliché con “Amore mio aiutami” (1969), film di Alberto Sordi in cui si mostra un minuetto sul tema della coppia che dietro a una facciata di modernismo propone il gioco delle parti. Da una parte c’è Raffaella, dall’altra Giovanni, da una parte lei chiede appunto di aiutarla perché si è innamorata di un altro uomo, Valerio, dall’altra lui fa l’uomo che accetta e capisce. In realtà le cose sono ben diverse, lui vuole essere progressista, moderno, apprezzare la sincerità della moglie ma alla fine la picchia come il peggiore degli uomini. Lei dice di essere fortunata ad avere quel marito ma ha solo un desiderio: liberarsi da quel rapporto stanco. In uno dei momenti più godibili del film Raffaella, costretta a stare lontana dall’oggetto del desiderio, sta male, il suo corpo si ammala della voglia di lui. Affetta da una paralisi nervosa, in preda a zoppia e a mancamenti improvvisi, Vitti rompe l’ennesimo stilema per cui una comica non deve essere avvenente perché mette in moto altri istinti.

Lavora sul rapporto uomo donna e sul desiderio femminile di cambiare le dinamiche anche in “Dramma della gelosia” di Ettore Scola dove, in tempi non sospetti, il regista narra un insolito e quanto mai precursore dei tempi ménage à trois. Adelaide è una bella fioraia che si innamora prima di Oreste (Marcello Mastroianni) affascinante muratore romano e poi di Nello (Giancarlo Giannini), pizzaiolo toscano amico d’Oreste. Vitti interpreta una donna, vitale, passionale e piena di vita, economicamente indipendente, che quindi può almeno sulla carta compiere le scelte che vuole, non ha legami o meglio legacci che le impongono rapporti e determinati vincoli.

Dramma della gelosia

Adelaide non pensa a quel matrimonio di granito che fino a poco tempo prima era l’unica, inesorabile possibilità per la donna, non vuole un “normale” nucleo familiare, non vuole figli, si sente a posto con queste due relazioni che in modo diverso la appagano nonostante tutti quei sogni che aveva coltivato leggendo i romanzi rosa. Diventa una parodia vivente delle soap opera, delle melodrammatiche eroine, e proprio mentre ironizza fa capire che può esistere anche altro. Lei vorrebbe superare i tabù, affrancarsi dalla vecchia idea d’amore: “Il mio tormento? Devo uscire da questo bivio amoroso, da queste turbe psichiche. Di che natura è il mio male? Ho avuto un trauma? Sono sotto shock? È un disturbo neurovegetativo? O è perché sono mignotta?”. Parole con elementi chiave per leggere la complessità del personaggio: il timore di essere sbagliata, lo stringente legame tra moralità e sessualità che pungola chi vuole vivere senza troppi giudizi.

La femminilità che lei mette sempre in scena è libera, emancipata e progressista, cosa che le permette di non diventare un mero oggetto dello sguardo maschile ma di dare dei colpi ben assestati a tutti quei costrutti che ancora non sono crollati ma iniziano a vacillare

Cinema, tv, teatro

Polvere di stelle

Vitti che compie lo stesso viaggio anche in “Gli ordini sono ordini” di Franco Giraldi in cui dà forza e personalità a una donna borghese che si ribella al marito dominante dimostrando di potergli tenere testa. Si diverte in film come “Polvere di stelle” (1973) e “Ninì Tirabusciò, La donna che inventò la mossa” (1970) mostrando le sue abilità di interprete brillante sotto tutti i punti di vista: canta, balla, guerreggia con i più talentuosi colleghi del momento, dimostrando una bravura cristallina e minimalista anche quando eccede. Vitti è stata un’artista mai sazia dell’arte, curiosa, libera.

La sete di vita e di sfide l’ha resa una navigante in mare aperto, alla ricerca di nuove terre da scoprire, alla conquista delle platee televisive (“Milleluci” nel ’74 e “Domenica in” vent’anni dopo), ed è sempre stata amica delle donne, lavorando fianco a fianco senza mai sgomitare ma anzi condividendo la scena. Monica è una figura fondamentale per tutte le donne, per cui nutre un amore corrisposto che emerge in queste parole: “Le donne mi hanno sempre sorpresa, sono forti, hanno ancora la speranza nel cuore e nell’avvenire”. Cuore e avvenire per cui e in cui si è buttata con tutta sé stessa.

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