Cultura dello stupro al cinema: come “Una donna promettente” rimodella il “rape and revenge”

Il film di Emerald Fennell, Oscar per la sceneggiatura in uscita il 24 giugno, riscrive la figura della "vendicatrice"

Eleonora Degrassi
Eleonora Degrassi
Critica cinematografica e televisiva, esperta di genere nell’immaginario visuale



“Le ragazze così corrono seri pericoli”. “Se non sta attenta se ne approfittano”. “È eccitante però”. Inizia così “Una donna promettente” (“Promising Young Woman”), il film scritto e diretto da Emerald Fennell al suo esordio alla regia che ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale quest’anno.

Margot Robbie

Un film che sarebbe dovuto uscire al cinema in Italia il 13 maggio ma che, a seguito delle proteste dovute al doppiaggio, uscirà solo il 24 giugno ovvero alle porte dell’estate. Pellicola prodotta, fra gli altri, da Margot Robbie, attrice e produttrice australiana con diverse nomination agli Oscar e famosa per il ruolo dell’antieroina Harley Quinn della DC Comics in “Suicide Squad”, scritto e diretto da David Ayer.

Chi è una “ragazza promettente” e cosa fa

Carey Mullighan interpreta Cassie

Prima scena. Interno bar: da una parte tre uomini, dall’altra una ragazza. Da una parte i cacciatori, dall’altra la preda. Tre sobri e una in balia dell’alcol. La donna che deve stare attenta è Cassie, una strepitosa Carey Mullighan, la “promettente” del titolo. Uno di questi giovani si avvicina, le chiede se ha bisogno d’aiuto ma il suo pensiero è un altro. Così se ne vanno insieme dal locale e lui la porta a casa sua perché lei vuole stendersi.

Mentre l’uomo la spoglia, bacia il corpo privo di forza né per reagire né per eccitarsi. Un incubo da cui ci si sveglia quando Cassie apre gli occhi, quasi demoniaci, si alza di scatto e chiede lucidamente allo sconosciuto: “Cosa fai?”. Sì perché il gioco del film è che la donna promettente è solo all’apparenza ubriaca, e quello che mette in atto è un progetto sottile e machiavellico: vendicarsi degli uomini del loro modus cogitandi, più o meno Aileen Wuornos (Charlize Theron) in “Monster”. Il piano è semplice:

una volta alla settimana Cassie entra in un locale, si finge ubriaca e aspetta che qualcuno la porti a casa pronto ad approfittarsi di lei e rinsavita, costringe il potenziale abusante a fare marcia indietro

Non vuole (ancora) uccidere nessuno ma vuole solo dare una lezione. Cassie, dopo quella notte, cammina scalza e gloriosa per la vendetta raggiunta, ma un gruppo di uomini la molesta per strada. La donna è oggetto di sguardo, ancora vittima del male gaze che giudica: uomini che insinuano che quella sia la camminata della vergogna di una che si è divertita. Scene che fanno tornare alla mente Laura Mulvey e il suo saggio “Visual and Pleasure and Narrative Cinema”, dove si disquisisce sulla scopofilia feticista e sul piacere visivo nel cinema classico riguardo l’esibizionismo passivo che opprime le donne, in cui lo spettatore maschio vince la potenza femminile, ricordo costante della possibilità della castrazione: la mancanza, il non fallo, la differenza per cui la donna è potente di per sé.

Cassie doppia questo principio e lo immerge nel mondo contemporaneo, come una guerriera spezza quel cerchio per cui bisogna essere statua di cui godere lo sguardo: lei non ha paura, si ferma e fissa, punendo gli uomini con la loro stessa arma

Perché Cassie si vendica

Chris Lowell

Ma è Fennell che ci spiega la storia di Cassie. La giovane vive con i genitori, è una ex studentessa di Medicina ora cameriera in un bar, dopo che la sua migliore amica, Nina, si è suicidata per il trauma avuto dopo lo stupro da parte di un compagno di università, Al (Chris Lowell). Tutto si complica quando incontra Ryan (Bo Burnham), un vecchio compagno di corso con cui inizia una relazione e che l’avverte che Al sta per sposarsi.

Noomi Rapace interpreta Lisbeth Salander

Cassie ricade nel vortice, riveste i panni della spietata giustiziera, della Dea della vendetta che pianifica con attenzione certosina ogni cosa, come la crudelissima Amy di “Gone Girl” di David Fincher. Diventa una Black Mamba in cui riecheggia l’ombra di Lisbeth Salander, l’hacker informatica protagonista di “Uomini che odiano le donne” (dalla serie Millennium scritto dallo scrittore e giornalista svedese Stieg Larsson).

Cassie fa una lista di tutti quelli che non hanno ascoltato Nina e che le hanno fatto ritirare la denuncia, non credendole: dall’avvocata che l’aveva ricattata, allo stupratore, passando per i complici, colpevoli anch’essi della morte della sua migliore amica

Il film qui si fa thriller: un moderno rape and revenge rimodellato. Lo schema solito infatti è una donna che prima viene violentata dal maschio che vuole punirla, correggerla, ristabilendo così la propria supremazia con la forza, donna che poi si vendica perché non accetta abusi e rifiuta di subire ancora, di rinunciare alla libertà, (vendetta che a volte è portata in fondo anche da familiari o dal compagno). Ma come in “Revenge” di Caroline Fargeat, il sottogenere si adegua a una società e una donna che è cambiata: la violenza qui si fa endemica, non è espressione dei reietti della società, il pensiero tossico è nella mente di tutti e per questo è ancora più pericoloso.

Si inserisce cioè nella scia di “Thriller” di Bo Arne Vibenius, di “Non violentate Jennifer” di Meir Zarchi, di “L’ultima casa a sinistra” di Wes Kraven ma lo fa con maggiore finezza e intelligenza drammaturgica, ponendo al centro una vendicatrice che sembra un po’ Joker, un po’ una bambina mai cresciuta, che gioca con un’alternanza di rosa, le unghie smaltate, le trecce.

ma se nei film del rape and revenge lo sguardo continua a essere maschile nella struttura narrativa e nella scrittura, qui è lei a guardare ed è uno sguardo tutto femminile

L’abuso è “un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”, scrive Susan Brownmiller nel libro “Against Our Will: Men, Women and Rape” (1975), e questa filmografia rappresenta proprio la declinazione della violenza come punizione: sintesi perversa di tutto ciò che colpisce la donna. Qui non si tratta solo di mascolinità in crisi, bisognosa di controllo e conferme, si esonda dal confine e si rappresenta l’atto come simbolo di una mentalità fallocentrica, nemica delle donne che raggiunge ogni livello.

Nel 1988 Jodie Foster arriva al suo primo Oscar per “Sotto accusa” dove interpreta una donna violentata che accusa i suoi stupratori: un’attrice che era stata diretta però da un uomo, il regista Jonathan Kaplan. Qui Fennel fa qualcosa in più perché c’è una donna che racconta il dramma di un’altra donna dal punto di vista e attraverso lo sguardo femminile.

Cassie è traumatizzata da ciò che è capitato all’amica, lo stupro non è rappresentato ma c’è in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni riflessione

Tanto che la protagonista non riesce a sganciarsi da quell’avvenimento, vive la sua parabola oltre la legge e oltre il film stesso, è un’eroina e dea-ex-machina della narrazione stessa. È lei a condurre il gioco, è lei a vestire i modelli femminili. Indossa maschere, anche sessualizzate come in molti film dell’exploitation, ed è un angelo della vendetta, citando Abel Ferrara, che fa giustizia per tutte le donne ai margini, ancora oggi silenziose e soggiacenti al sistema patriarcale che non muore.

Così da oggetto si fa soggetto. Quella di Fennell è un’opera che va al di là della violenza alla “Kill Bill” (Quantin Tarantino), espressione massima della vendetta al femminile, o alla Geum-ja di “Lady Vendetta” (Park Chan-wook), perché è una riflessione sull’accettazione sociale di una struttura di potere che usa e abusa delle donne, e sul suo sovvertimento.

Cassie agisce in nome di Nina ma anche a nome di tutte le donne che non hanno ottenuto giustizia, e il suo stupro diventa principio generatore della sua identità, facendolo diventare fatto collettivo

La colpa è di tutti, donne e uomini, e non c’è redenzione né per i colpevoli, né per i personaggi all’apparenza positivi come Ryan che sembra il fidanzato perfetto ma che nasconde invece un’onta difficile da cancellare e da accettare. Nell’ultimo atto Cassie decide che è arrivato il momento. Si prepara indossando l’ultima maschera: un po’ l’infermiera di “Kill Bill” (uno dei massimi sogni erotici maschili) ma coloratissima come l’Harley Quinn di Margot Robbie, e un po’ “angelo della morte” come tutte le Jennifer del cinema che tornano e usano il loro corpo per colpire il maschio.

Emerald Fennell

Cassie però non è una rediviva tornata per lo scalpo del rapist, lei è viva ma ancora ossessivamente ferma a quella notte in cui l’amica è stata stuprata. Non ha nulla da perdere perché abita la Terra per cancellare quel trauma calcificato nella sua mente.“Una donna promettente” quindi va oltre e racconta la cultura tossica interiorizzata che ancora oggi riempie giornali e narrazioni mediatiche: “ai tempi era solo un ragazzino”, e “Nina era pronta a divertirsi”, altrimenti non avrebbe partecipato alla festa e bevuto. Cassie si fa legislatrice di una sua legge: ricorda la vittima, la sua genialità, il suo fascino, celebra la portata del dolore vissuto dopo lo stupro, lo strazio di chi non è più sé.

Un’eroina che vince se si vendica, qualunque sia la sua fine. Una storia che mostra come smettere di essere conquista del territorio sessuale per diventare trionfo su quello sociale

E Fennell trionfa con la sua Dea della vendetta che con il suo soggetto “eccentrico” tenta di dislocarsi dalla cosiddetta norma, per vendicarsi di tutte quelle donne che sono vittime di un sistema distorto. “Una donna promettente” è un film epocale, figlio del #metoo, un’opera che scuote le coscienze e turba perché Fennell, con una forza sovraumana di parole, sguardi e intenzioni, ha il coraggio di portare in scena la cultura dello stupro nella sua interezza, riproponendo gli stilemi del male gaze e della donna oggetto sessuale, attraverso una protagonista che rompe il sistema e lo capovolge. Dimostrando quindi che non è necessario essere “stuprate” per ribellarsi al maschio facendo giustizia da sé, perché quello che succede a una, riguarda tutte.

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