“Sono qui per presentare un piccolo progettino”. Queste le parole di esordio di una mia collaboratrice, alcuni anni fa, incaricata di mostrare a una riunione di dirigenti l’esito di un lavoro durato mesi che aveva richiesto gli sforzi e le competenze di un bel gruppo di lavoro, coeso ed entusiasta. La doppia diminuzione mi è rimasta dentro, spingendomi a indagarne il significato.
Chi si è trovata a lavorare in ambienti a maggioranza maschili sa quanto sia difficile prendere parola
La difficoltà di prendere la parola
Il corpo femminile esiste ed è percepito nei preliminari del contatto sociale, nei vari “prima le signore” che gli uomini proclamano occhieggiandosi, a mostrare la propria cavalleria che altro non è se non uno dei canoni comunicativi della virilità condivisa. Ma “prima le signore” vale se c’è da ordinare una consumazione, ad esempio, o per decidere se aprire una finestra invece di accendere l’aria condizionata. Non vale mai quando c’è da parlare. Sarà perché parola – evoluzione di parabola – è ancora inconsciamente considerato un atto divino, e il divino è riservato al principio maschile?
È alla portata di tutte osservare, nei vari contesti in cui c’è la possibilità di prendere parola, una grande differenza di comportamento tra i due generi. È più frequente che gli uomini prendano il proprio turno con disinvoltura, mentre le donne spesso iniziano chiedendo scusa: “devo dire una cosa brevissima”, “scusate, posso dire rapidamente due parole?”, “posso parlare? Ah, scusa, fai tu, dico dopo”. Tanti piccoli “progettini”.
Diversi punti di vista
Ho partecipato a tante riunioni, piene di donne che parlavano di cose importanti perché a quelle cose si erano dedicate con tutte se stesse e ogni parola era stata pensata, analizzata, scelta.
E quanti uomini ho visto che, pur avendo il ruolo di relatore, sono arrivati in ritardo e andati via prima per “altri improrogabili impegni”
Noi sappiamo cosa voglia dire mettere insieme tante cose diverse, e nel metterle insieme ci sforziamo anche di tenerle insieme. C’è poco da dire: se ho due impegni in orari sovrapposti e li considero importanti alla pari, devo necessariamente scegliere quale dei due cancellare. Se invece decido di essere presente in ambedue sto valutando non l’importanza dell’impegno, ma quella della mia presenza. Un atto di potere e di narcisismo, non di partecipazione e contribuzione.
Eppure, se sono la prima a chiedere scusa perché intendo parlare, se penso che quello che dirò saranno piccole paroline, quell’atto frettoloso di presenza mi renderà grata e ammirata per lo sforzo dell’uomo importante che a causa mia, delle mie piccole paroline, è costretto a correre da una parte all’altra senza tregua. L’emarginazione femminile da parte di chi ha il potere è nota.
Emarginazione, cioè mettere al margine, dove il margine è la parte estrema o il tutt’intorno di una superficie. Torna il nostro destino: quello di essere il contorno
Vivere ai margini
Eppure, attenzione, tante tra noi scelgono di vivere proprio su quel margine per non essere assorbite e omologate, e la consapevolezza di quel margine fatto nostro si accompagna alla sensazione che quella superficie, non più contenuta, possa sbiadirsi e svanire. Ecco perché quando ci sottraiamo al nostro destino, alla nostra funzione di contenimento e definizione dell’altro, quest’ultimo si sente così minacciato da aggredirci e cancellarci. L’affermazione da parte di tanti esecutori di femminicidi, “o mia o di nessun altro” è piuttosto un “o IO o niente”. Decidere di abitare consapevolmente il margine può essere un magnifico atto di ribellione.
Uno dei modi di emarginare e cancellare le donne è lo sminuire, il renderci piccole, deboli, infantili
Tra le mura di casa, spazio ben circoscritto dove la tradizione assegna ruoli precisi e non sovrapponibili, le cose sono chiare: è tutto nostro l’ambito della “naturale” predisposizione alla cura, e sappiamo usarlo benissimo. Abnegazione, empatia, priorità al bisogno altrui, addirittura sua anticipazione, ci assegnano il ruolo di regina della casa, signora di un piccolo reame dove dettiamo legge. Certo, sono piccole leggi che ordinano piccole cose.
La declinazione al maschile
Fuori casa, la scena pubblica ci accetta se sappiamo stare al margine. Rimpicciolite e infantilizzate come vallette, veline, ombrelline, letterine. Cancellate quando nominate al maschile: direttore, prefetto, avvocato, architetto. Quando cerchiamo di spostarci dal margine ed essere parte legittima della superficie contenuta, si alzano convinte voci contrarie.
Un esempio costante è la vibrata protesta contro la declinazione al femminile dei mestieri. Quali cacofonie offendono le altrui orecchie, quale inopportuna dittatura linguistica! Chissà come mai non è accaduto lo stesso quando venne coniato, con l’avvento della televisione, il termine valletta, declinando al femminile il termine preesistente che indicava già dal medioevo un ruolo solo maschile (ovviamente di natura meno svilente). Guai spostarci dal margine.
Ci arrabbiamo? Siamo isteriche. Ci accaloriamo in una discussione? Siamo arroganti e alziamo la voce
Parliamo con competenza della violazione dei diritti delle donne? Siamo troppo femministe o addirittura nazi-femministe. Difendiamo con foga la nostra volontà in contrasto con un antagonista? Siamo pazze, da rinchiudere. Non è un colorito modo di dire, è stato ed è il destino di tante.
L’auto diminuzione
Ma qui non interessa tanto l’emarginazione messa in atto dal maschile, comprensibile in quanto autodifesa per evitare di perdere i propri margini. Interessa l’auto diminuzione che noi stesse mettiamo in atto. È presente nelle migliaia di selfie che circolano in rete dove quasi sempre le donne appaiono con la testa reclinata da un lato, come a chiedere accettazione. Nelle voci che si fanno piccole per chiedere comprensione. Nei passi corti e incerti imposti dai codici di abbigliamento. Nell’aderire acriticamente ai modelli estetici arrivando a percepirci esattamente così come si vuole dall’esterno. Nelle auto censure e nel dire con convinzione che le donne sono le peggiori nemiche di loro stesse. Nel non alzare la voce, nel considerare inadeguate e inopportune azioni come esigere, pretendere, imporre, obbligare.
Moltə, leggendo questo elenco, avranno sentito che questi verbi indicano proprio azioni e comportamenti che non vogliamo assolutamente adottare, che non è il mondo che vogliamo, che devono esserci altri modelli di comportamento. Certo, è così. Ma se contestualizziamo le cose cambiano. Ad esempio, non dovremmo forse esigere rispetto, pretendere l’attuazione di un accordo, imporre il nostro punto di vista all’attenzione in una discussione, obbligare chi è affidato alla nostra responsabilità al rispetto di regole?
Leadership al femminile
Rimane difficile definire cosa significhi leadership al femminile e questa difficoltà nasce dal grande inganno messo in atto dal patriarcato che ha trasformato le nostre richieste sul diritto a esserci, nella formale presenza di donne al potere: un potere rimasto maschile. Partiamo dal linguaggio. Ricordiamoci che dare il nome a qualcosa è metaforicamente un atto divino, consiste cioè nel dare vita a qualcosa. Quello che facciamo è importante o, almeno, non è meno importante di ciò che fanno altri.
Non facciamo lavoretti, non scriviamo libretti, raccontini o piccole poesie: quello che facciamo non è incompleto e non ha bisogno di essere sancito dall’approvazione di qualcuno più autorevole
Alleniamoci a unire l’aggettivo “importante” a ciò che facciamo e diciamo, assumendo così che esso sia di gran conto e che debba essere preso in seria considerazione. Facciamoci largo, nessun altro sarà così premuroso da farci spazio.