Il rapporto tra diritto e femminismo non ha mai assunto le sembianze di una relazione pacifica, tutt’altro, non foss’altro perché il diritto è un potere tra gli altri costruito sulla base dell’UNO (maschio, bianco, padre di famiglia). Eppure il femminismo nasce e si rende visibile per la prima volta in Occidente attraverso l’urlo e la lotta delle “suffragiste”. Prima di loro solo la testimonianza di Olympe de Gouges con la sua memorabile “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” all’indomani della Rivoluzione Francese. Testo che le costò la ghigliottina in pubblica piazza. Da allora, e per tutto l’arco del ‘900 è accaduto davvero di tutto. Gli assi entro i quali il rapporto conflittuale tra diritto e femminismo si sono prevalentemente attestati hanno coinvolto
due grandi temi: il rapporto difficile tra emancipazionismo e differenza sessuale, e tra la Legge e la Giustizia
Nel primo caso l’approccio è noto a tutte e tutti: è legittimo invocare il diritto e i diritti delle donne equiparandosi agli uomini attraverso la rivendicazione del principio universalistico dell’eguaglianza? Di primo acchito risponderemmo tutte di sì, se non fosse che quell’eguaglianza è stata pensata e voluta dagli uomini, tendenzialmente a loro immagine e somiglianza. Quando, dopo una lunga stagione emancipazionista, si diffonde in Italia il pensiero della differenza sessuale di Carla Lonzi e poco dopo quello della comunità filosofica di Diotima, nonché la riflessione svolta dalla Libreria delle donne di Milano il “taglio” viene dato di netto: le donne sono differenti e affinché possano essere incluse tutto il mondo deve cambiare – per parafrasare Clarice Lispector – a partire dai suoi fondamenti. Diritto compreso. La domanda, allora, era ed è:
vogliamo essere come gli uomini o preferiamo darci una autorevolezza a partire dalla nostra differenza sessuale intesa come valore anziché considerarci sempre e comunque come un “non ancora” maschile?
Lo snodo mai risolto tra eguaglianza (emancipazionismo) e differenza sessuale si è andato consolidando anche rispetto alla postura da tenere nei confronti del rapporto tra Legge e Giustizia. La Legge, si sa, rimanda al simbolico del pater – nell’iconografia, ad esempio, la Legge è sempre rappresentata attraverso l’occhio di Dio o del Principe o del Sovrano –; la Giustizia, invece, è sempre rappresentata attraverso un’immagine femminile, una mater che dirime i conflitti attraverso la saggezza e la virtù, ma anche attraverso la disobbedienza alle leggi ingiuste, come fa Antigone, ad esempio. Basta una Legge per sentirci eguali o i movimenti femministi si trovano meglio nella posizione di rivendicare una forma di Giustizia per se e gli altri, al di là della Legge? Tutti questi irrisolti, che rimarranno tali perché i femminismi sono tanti, si sono andati attestando su due approcci diversi rispetto al diritto.
Da un lato c’è l’approccio di rivendicazione dei cosiddetti “Diritti delle donne” che mirano all’eguaglianza formale e sostanziale per il tramite delle Leggi (Giusfemminismo); dall’altra c’è l’approccio del “Femminismo giuridico” ovverosia l’essere fuori e dentro il diritto. Fuori perché lo si critica come potere fondato sul maschile, dentro perché attraverso la trasformazione del linguaggio è possibile cambiarlo, soprattutto nei processi per stupro o violenza, o attraverso la critica delle sentenze, con l’obiettivo preciso di ri-significarlo alla radice.
In entrambi i casi la posta in gioco è la rivendicazione di una Giustizia per sé e per gli altri, ovvero quel luogo in cui diritto e politica si incontrano anche grazie ai femminismi
Una sfida possibile che tutte pratichiamo ogni giorno avendo in testa la famosa frase di Carol Smart, una giurista statunitense: il diritto è sessista, il diritto è maschile, il diritto è sessuato. Finora non è bastato, naturalmente. Tanto più che oggi tocca fare i conti con qualcosa di molto pernicioso. Se in passato il patriarcato generava un’esclusione netta delle donne dalla scena pubblica, oggi ci troviamo a dover fare i conti con il cosiddetto post-patriarcato ovvero con un rovescio violento che molti uomini adoperano per colmare il vuoto del potere perduto o minato.
Un passaggio che si nota molto rispetto alle sentenze. Nessuno avrebbe usato locuzioni come “tempesta emotiva” o altri arzigogoli “giustificazionisti” dinanzi ad un’accusa di omicidio almeno sino agli anni ’90, quando l’eco mediatica del documentario “Processo per Stupro” andato in onda sulla Rai con le incredibili arringhe tra Tina Lagostena Bassi e gli avvocati misogini che difendevano gli stupratori, sembrava aver cambiato l’opinione pubblica. Allora si metteva in discussione il processo di imputabilità della vittima, oggi rischiamo la stessa cosa più il suo contrario, ovvero il processo di vittimizzazione a priori, primaria e secondaria. Oggi il vero grande rischio è che si torni al “prima” degli anni ’70, ma in un contesto radicalmente mutato. Quel patriarcato in crisi che ora mostra il suo lato sanguinolento e che tenta di ricomporsi istericamente è più subdolo, meno diretto, disperato, incapace di ragione.
Proprio per questo il diritto torna ad essere centrale per i femminismi: uno strumento che può essere criticato ma anche usato a nostro vantaggio
A patto che non si ceda mai alla tentazione di essere come quell’Uno ormai desueto, scardinato, messo radicalmente in crisi dalla nostra libertà e a patto che la stessa Legge possa essere presa in considerazione solo come ciò che favorisce l’espandersi di quella stessa libertà. Penso sempre ad una frase di un’amica costituzionalista: “molti uomini difendono la Legge che ci ha fatte entrare in Magistratura, la celebrano, la studiano, ma non sarebbe meglio che loro difendano anche la Legge Merlin? E’ una delle poche Leggi che non ci ha incluse, ma ci ha liberate!”.