Non si uccide per gelosia: anche i giornalisti dovrebbero saperlo

Fatti di cronaca riportati come raptus dell’offender preso dalla passione anche se invece si tratta di violenza

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



Il 13 marzo Marcello Cimino è stato ucciso da Giuseppe Pecoraro che ha dato fuoco al clochard che conosceva e che dormiva a poca distanza dalla pompa di benzina in cui Pecoraro lavorava: un crimine che quest’ultimo ha confessato attribuendo il movente alle presunte attenzioni di Cimino verso una donna a cui il benzinaio faceva la corte.

Una dichiarazione che ha portato molti giornali a sbizzarrirsi sul movente passionale, come se la gelosia fosse una ragione sufficiente ad uccidere, quando dalle ricostruzioni sembra che in realtà l’uomo fosse stato già coinvolto in atti violenti contro la ex moglie, compreso un incendio appiccato dopo una lite: cosa a cui è stata data pochissima importanza rispetto al romanzo all’italiana condito da presunto amore, gelosia e morte.

In uno dei tanti articoli scritti si legge addirittura una descrizione della donna che sarebbe stata “l’oggetto del contendere” con parole degne di un feuilleton che poco ha a che vedere con l’informazione ma che in qualche modo potrebbe giustificare l’atto sconsiderato, vista la presenza della donna:

“Trentasei anni, la pelle bianchissima, l’ovale perfetto del viso incorniciato da capelli color miele, Caterina accetta di parlare dopo molti indugi

Forse le serve anche per liberarsi da un peso che non ce la fa più da sola a sopportare. Veste un paio di leggings e solo un cardigan grigio sopra una maglietta fina. Trema di freddo e di paura”. Senza rendersene conto, anzi sicuramente per condire meglio il romanzo, il giornalista indugia su aspetti non indispensabili alla descrizione del fatto e anzi sembra insistere sul movente passionale, quando invece qui di passionale non c’è nulla, dato che si tratta di una morte terribile dettata da un comportamento già evidentemente violento.

Giuseppe Pecoraro

Ma che non si uccide per gelosia dovrebbe essere ormai chiaro anche per i giornalisti che si apprestano a scrivere un pezzo o a fare un servizio soprattutto se si tratta di una persona dai comportamenti già noti. Di certo oggi, rispetto a qualche anno fa quando ancora non si parlava di femminicidio e quando ancora i pezzi di cronaca venivano confezionati con particolari morbosi degni di un racconto horror in cui la dinamica dei fatti faceva apparire una donna che forse se l’era andata a cercare e un uomo distrutto dalla gelosia per colpa della partner, le cose sono cambiate.

Grazie al lavoro di molte colleghe nei blog e nei giornali, una parte del linguaggio e della narrazione della violenza maschile è cambiata, eppure ancora oggi follia, raptus, movente passionale, sono ancora parole ricorrenti nella narrazione della violenza maschile sulle donne, come sono ricorrenti i racconti di una famiglia felice che a un certo punto si trasforma in uno splatter, o di un padre premuroso che poi a un certo punto uccide moglie e figli, oppure un fidanzato innamorato che dà fuoco alla fidanzata perché troppo innamorato:

frasi che richiamano a un immaginario ancora legato alla mentalità del delitto d’onore

uscito dalla porta nel 1981 ma rientrato subito dalla finestra, per cui l’uomo che agisce in maniera violenta verso la compagna o la ex ha comunque automaticamente le attenuanti tipiche di atti che si consumano in un rapporto d’intimità, e questo anche se si tratta di un’uccisione che avviene dopo anni di violenza domestica, maltrattamenti, percosse, persecuzioni, e magari dopo diverse denunce, o anche, come nel caso del clochard, quando a essere ucciso è “un rivale in amore”.

Fatti di cronaca che vengono riportati come se fossero a sé stanti, eventi quasi casuali dovuti a un momento di scarsa lucidità dell’offender, mentre solitamente si tratta di uccisioni che avvengono al culmine di un comportamento violento dimostrato in mesi o addirittura anni.

Per trovare un modo diverso e più attinente alla realtà dei fatti che escluda una sottovalutazione del fenomeno della violenza maschile sulle donne, e quindi che eviti la vittimizzazione secondaria delle sopravvissute, dato il ruolo centrale dell’informazione per una vera trasformazione culturale che è la prima forma di prevenzione del femminicidio, l’Ordine dei giornalisti del Lazio e la Federazione nazionale della stampa, hanno organizzato a Roma corsi di formazione che affrontano due aspetti fondamentali del problema: da una parte la narrazione del femminicidio nell’informazione e dall’altra la narrazione degli offender. Ovvero come si affronta una formazione libera da quegli stereotipi che mettendo la donna e l’uomo su piani diversi, culturalmente ancora accettati e normalizzati, corrono il rischio di rivittimizzare le sopravvissute e di condonare la violenza come un evento normale nella vita di una donna.

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