Giulia e le altre: il non intervento delle forze dell’ordine e il muro chiamato stereotipi che uccide

Oggi Filippo Turretta torna in Italia dopo aver ucciso Giulia Cecchettin ed essere scappato in Germania. Perché nessuno si è accorto della sua pericolosità e perché il circo mediatico continua a girare su se stesso spettacolarizzando il femminicidio ma senza interrogare le istituzioni che continuano a varare leggi che poi non vengono mai applicate?

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



Filippo Turretta sta rientrando in queste ore in Italia, un ragazzo come tanti, uno che si dispera perché la ragazza l’ha lasciato, che minaccia di suicidarsi perché soffre, uno che non ce la fa ad andare avanti senza di lei, uno che però all’ultimo appuntamento va con un coltello, un guanto, dei sacchi, il nastro isolante, una scheda bancomat prepagata e 200 euro in contanti. Perché?

Quello che il circo mediatico non vede

Giulia Cecchettin

È quello che si chiedono tutti, che si chiede la famiglia di Giulia Cecchettin, uccisa con numerose coltellate alla testa e al collo per poi essere scaraventata in un dirupo, che si chiede la famiglia del ragazzo, giurando che loro non sospettavano nulla e ripetendo di essere una brava famiglia. Ma cosa non funziona in questo racconto che si sta sviluppando sui media come un circo impazzito in cui chiunque dice la qualunque in mondovisione? Quello che sfugge è l’incapacità di uscire fuori da schemi, ruoli, preconcetti e stereotipi che non sono più applicabili alla lettura di un reale su cui è necessario applicare nuovi paradigmi.

Un’incapacità profonda di smantellare quello che finora è stato, decostruendo e analizzando i fatti senza rimanere aggrappati a quegli stereotipi che danno la possibilità di riempire le figure senza doverne disegnare altre nuove

Gli stereotipi che uccidono

Giulia non è la prima a essere uccisa per aver detto no a un uomo, prima di lei ce ne sono state tante altre e ce ne saranno altre ancora, ma se davvero ci siamo stufati occorre fare una scelta: quella di lavorare nella decostruzione sistematica di un immaginario con cui cresciamo e veniamo educati appena mettiamo la testa fuori da nostra madre, e su cui si costruisce tutta la nostra vita senza essere consapevoli che questo non è il modo migliore di vivere e che si può avere di più e meglio. Perché se veniamo cresciuti con l’idea intrinseca che i maschi possano fare quello che vogliono mentre le femmine hanno miliardi di limiti, e che in fondo un uomo vale più di una donna, tutto quello che faremo dopo sarà condizionato da un gravissimo pregiudizio culturale fatto passare come normale, mentre si tratta di una pesantissima discriminazione basata sul genere che di naturale non ha niente.

Perché la pattuglia non è intervenuta

Ma allora chiedo: siamo in grado di scardinare questo principio discriminatorio da cui scaturisce tutta la violenza maschile sulle donne che si consuma a livello planetario in quanto punta di un iceberg che da prassi può diventare morte? Siamo in grado di pensare che Filippo non era un bravo ragazzo che si è svegliato una mattina con un coltello in mano e che i sintomi della sua violenza non sono stati percepiti perché semplicemente nessuno di quelli che erano vicino a lui erano preparati e allenati a leggere certi sintomi e certi comportamenti come pericolosi?

Giulia si è difesa strenuamente e le ferite sulle mani e sulle braccia lo dimostrano, ma quando lui ha tirato fuori quel coltello era troppo tardi, nel senso che lei si è resa conto di quanto lui fosse pericoloso solo in quel momento, come tutte le altre donne uccise che non si sono potute salvare perché non pensavano che il loro partner potesse “arrivare a tanto”. La pattuglia che era stata chiamata da un testimone che aveva sentito le grida non si è mossa perché non ha dato peso a una lite tra fidanzati, malgrado i maltrattamenti nelle relazioni intime (che sono un reato) siano all’ordine del giorno e malgrado questo sia un fattore di rischio per una donna che potrebbe anche essere uccisa durante una aggressione del genere.

Ebbene quella pattuglia poteva salvare Giulia ma non l’ha fatto. Perché? per quale motivo?

Relazioni tossiche percepite come “normali”

Perché siamo abituati a pensare che le relazioni tossiche siano parte delle relazioni, perché se un uomo picchia la compagna ha in fondo le sue ragioni, perché l’ossessione e la possessività nei confronti di una ragazza è sintomo di amore e questa falsa informazione è incisa nel nostro Dna: lui fa così perché ti ama, tu sei sua, ti vuole solo per sé, non guarda le altre, è innamorato pazzo. Peccato che poi t’ammazza. E così poi ci domandiamo: perché lo ha fatto se l’amava? Era fuori di testa? Ebbene no, l’ha fatto perché la società intera, tutto quello che lo circonda, la sua stessa educazione, i principi con cui è nato e cresciuto, gli hanno confermato che aveva tutto il diritto di farlo e il fatto che nessuno se ne sia accorto prima, lo dimostra. Nessun mostro, solo “bravi ragazzi” che portano avanti la propria mascolinità così come gli è stato insegnato e permesso da quegli stramaledetti stereotipi fatti passare come elementi normali e strutturali delle nostre vite.

Perché nessuno si è accorto di Filippo Turretta

Filippo Turretta

Nelle indagini è venuto fuori che “il ragazzo avrebbe danneggiato un paletto della luce proprio sotto la sua abitazione, colpendolo con violenza” e che “a seguito di un feroce litigio con Giulia Cecchettin, Filippo Turetta avrebbe colpito una sporgenza di marmo staccandola definitivamente”. Quindi che il ragazzo avesse scatti di violenza era chiaro ma il problema è che nessuno se ne è accorto perché probabilmente quegli agiti sono stati interpretati come normali sfoghi. E qui ci chiediamo: ma se la pattuglia delle forze dell’ordine, che in teoria dovrebbe essere formata anche sulla violenza di genere e i suoi fattori di rischio, ha creduto di non dover intervenire, perché qualcuno dell’entourage avrebbe dovuto intercettare la natura violenta di Filippo, Giulia compresa?

Il fattore di rischio non esiste ma solo nelle teste 

Il padre che continua a dire che il figlio era un ragazzo “modello” e la pattuglia che non interviene quella sera, sono la riprova di quanto la rintracciabilità del fattore di rischio nella violenza sulle donne sia del tutto assente nelle nostre teste, grazie a quel muro di gomma chiamato stereotipo di genere.

Ma se ad avere quel buco sono le istituzioni, siamo tutte in serio pericolo e ha ragione Elena Cecchettin a dire che si tratta di “omicidi di Stato”

Se un magistrato non riconosce una violenza in famiglia seppur denunciata e concede a un padre violento di tenere con sé il bambino a Natale per poi dover fare i conti con il fatto che quel padre ha ucciso il figlio quando erano da soli, come è successo a Varese anni fa, di chi è la responsabilità? Se gran parte dei tribunali penali e soprattutto civili, come ha documentato la Commissione d’inchiesta sul femminicidio al senato della scorsa legislatura, non è preparata né formata su come riconoscere e contrastare la violenza sulle donne, e se molte sentenze vengono emesse sulla base di quei famosi stereotipi per cui è normale che un sessantenne dia una paccata sul sedere a una minorenne a scuola, come pensiamo di mettere un freno ai femminicidi che sono solo la punta di questo enorme iceberg?

Quante altre Giulie dovranno morire per colpa di questo muro?

Distruggere i pregiudizi di genere partendo dagli adulti

Elena Cecchettin

Se l’intera società è basata su rigidi stereotipi di genere in cui la donna conta meno in tutta la piramide sociale, dal lavoro alla famiglia alla politica, il problema è culturale e per cambiare questa cultura a livello strutturale è necessario cominciare a scardinare i punti chiave della filiera preparando e formando obbligatoriamente gli adulti che ricoprono ruoli chiave nel contrasto alla violenza che sono prima di tutto la magistratura, le questure, le forze dell’ordine, a cui le donne chiedono protezione spesso senza essere ascoltate; i medici e gli infermieri che devono dare la prima assistenza e che devono rintracciare la natura di quelle ferite e di quelle percosse nei loro referti; e naturalmente i media e l’informazione, quindi noi giornalisti, per non leggere più “al culmine di una lite”, “lui l’amava e lei lo voleva lasciare”, “è stato un delitto passionale”, che sono ritratti tossici che lavorano su quegli stereotipi già insiti dentro di noi per convincerci che in fondo è una cosa normale, trasformando così un femminicidio in un reato di serie B.

E a cosa servirà fare sempre nuove leggi (come quella varata pochi giorni fa al senato) ogni volta che una donna viene uccisa, se poi queste leggi non vengono applicate dato che chi dovrebbe farle rispettare non sa rintracciare la violenza?

La trasformazione culturale e la fine della sproporzione tra i sessi

Questo però non basta per mettere un punto alla violenza, perché il lavoro di formazione che si fa sugli addetti ai lavori deve andare di pari passo con una trasformazione culturale, politica e sociale radicale e a 360 gradi, come ci ricorda la Convenzione di Istanbul, in cui la sproporzione tra i sessi deve sparire completamente e le donne devono poter godere della loro libertà di stare al mondo senza alcuna rivendicazione perché non ne hanno più bisogno. In questi giorni molti parlano della necessità dell’educazione sentimentale nelle scuole che pur essendo molto importante non è la soluzione di tutti i mali perché la responsabilità è prima di tutto degli adulti che sono in grado di muoversi a livelli decisionali.

Le scuole e l’educazione alle differenze

Giuseppe Valditara

Nelle scuole quello che manca sono prima di tutto insegnanti formati che siano in grado di saper rintracciare un abuso in famiglia, una violenza da parte di un coetaneo, perché spesso si tratta di persone di minore età che non sanno a chi rivolgersi e che hanno solo l’insegnate come punto di riferimento perché a casa è un inferno. Ed è solo dopo aver lavorato almeno su questi punti chiave che arriva l’educazione alla differenza rivolte ai giovani e alle giovani, perché se la società in cui poi si ritrovano stride così tanto da quello che imparano a scuola, non serve a nulla. A partire dai libri scolastici che dovrebbero essere buttati nel cesso e rifatti con criteri di genere, e a partire dagli adulti che per fare educazione alla differenza devono essere a loro volta preparati e formati.

Un pericolo che è dietro l’angolo se pensiamo che il ministro Giuseppe Valditara aveva dato l’incarico per fare le linee guida nelle scuole ad Alessandro Amadori, teorico del maschicidio e del complotto femminista contro gli uomini

Perché Elena Cecchettin ha ragione

Alla luce di tutto questo possiamo dire che quando Elena Cecchettin dice che “Filippo Turetta non è un mostro, ma un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro”, ha ragione. Quando dice che “il femminicidio non è un delitto passionale, ma di potere, è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge” e che “il femminicidio non è un delitto passionale ma è un delitto di potere”, ha ragione. Quando dice che “la cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna a partire dal controllo, la possessività, il catcalling” e che “ogni uomo viene privilegiato da questa cultura”, ha ragione. Il fatto invece che queste parole pronunciate in diretta dalla sorella della vittima sia stato come uno tsunami che ha stravolto l’opinione pubblica dando seguito a reazioni anche estreme e altamente offensive, va spiegato in quanto è la riprova che quegli stereotipi con cui noi nasciamo non solo sono strutturali ma sono intoccabili.

e che questo patriarcato, che da un secolo e mezzo prende le botte da donne che cercano di cambiare l’ordine costituito, è ancora in grado di produrre la sua controffensiva malgrado ormai il flusso del desiderio di libertà delle donne che non ci stanno sia irrefrenabile a costo della vita

Cosa possono fare gli uomini che davvero vogliono cambiare

Il discorso che si è sviluppato grazie alla sorella di Giulia è stato fastidioso quanto un vaso di Pandora che improvvisamente si scoperchia, tanto che Taormina ha chiesto perché la famiglia non soffrisse in silenzio invece di fare tutto questo baccano. Gli uomini si sono sentiti colpiti e hanno cominciato a difendersi da queste accuse ignominiose o hanno cercato aggiustare il tiro dicendo che anche loro sono responsabili anche se non hanno mai torto un capello a una mosca.

Ma d’altronde sono loro che hanno il potere, che ancora decidono le cose più importanti e che hanno i maggiori vantaggi da una struttura societaria basata su stereotipi e ruolizzazioni di genere, pensiamo forse che ci rinunciano senza morti e feriti? Non credo proprio

Quello che possiamo però suggerire agli uomini che veramente stanno a disagio, è non solo di ascoltarci prima di parlare e di smetterla di spiegarci cosa dobbiamo fare, ma di parlarsi tra loro e di cominciare a fare quell’autocoscienza che abbiamo fatto noi per ricostruire la nostra storia dato che il resto del mondo ce l’aveva cancellato e rimosso. E soprattutto di riconoscere e reagire alla tossicità maschile e all’evidente disparità tra i sessi in tutto quello che fanno nella loro quotidianità dalle relazioni intime fino all’ambiente di lavoro.

Non girare la testa davanti alla mascolinità tossica

Come non ridere ma di ribellarsi alla battura pecoreccia dell’amico, evitare atteggiamenti discriminatori e alzare le chiappe se una collega prende meno soldi a parità di mansione, di non aspettare che il lavoro di cura in casa sia fatto dalle loro mogli perché loro non devono aiutare ma fare, di rendersi conto quando hanno atteggiamenti predatori e smetterla immediatamente perché non fanno piacere, di non ricattare anche solo sottilmente una collega promettendo una sfavillante carriera, di non far sentire la partner in colpa perché non ha tempo per i bambini, di non giudicare continuamente una donna da questi benedetti posteriori senza i quali sembra che l’umanità potrebbe addirittura estinguersi. E poi leggete, magari cominciando dalla Convenzione di Istanbul che dovrebbe essere recapitata nella casella della posta di casa come i libretti azzurri di Berlusconi all’epoca.

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