Intervista doppia: Di Nicola e Luccioli su donne e magistratura

Due giudici si confrontano su come dovrebbe essere la Giustizia al suo interno per esprimere un equilibrio di genere

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



Come dovrebbe essere l’Italia per diventare un Paese per donne? La domanda è posta a bruciapelo a quelle che ricoprono ruoli istituzionali e a chi, con le proprie decisioni, può determinare la vita di altre persone. Un brainstorming al femminile che parte dalla fine: l’immagine di un luogo dove una donna possa vivere a proprio agio. Una sfida per le italiane che quest’anno, si sono ritrovate al 71esimo posto, su 136 Paesi, in materia di pari opportunità con gli uomini (“Global Gender Gap Report” del World Economic Forum di Ginevra). Un’inchiesta con interviste doppie. In questa puntata entriamo nei palazzi di giustizia con due donne che, in modi diversi, hanno affrontato il potere maschile: Maria Gabriella Luccioli, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, e Paola Di Nicola, giudice presso il Tribunale penale di Roma.

Prima donna a entrare nella Corte di Cassazione 30 anni fa e prima giudice a essere ammessa tra gli 8 candidati che si sono contesi a maggio di quest’anno la nomina alla presidenza della Corte suprema di Cassazione

Gabriella Luccioli ha segnato diversi momenti storici nella vita di questo Paese: con la sentenza Englaro, quella sull’uso nelle Ctu dei tribunali della non verificata Pas (Sindrome di alienazione parentale), e quella che ha affidato un bambino alla madre insieme alla sua compagna, piuttosto che a un padre violento. Un mondo, quello della magistratura, che ha vietato l’accesso alle donne fino al 1963 e che Paola Di Nicola ha descritto nel suo libro: La giudice. Una donna in magistratura, (Ghena Book, 2012), raccontando la sua storia personale e professionale, e dando un certa idea sull’impatto dei pregiudizi di genere in un luogo di potere come questo.

Gabriella Luccioli e Paola Di Nicola

Partiamo da un’immagine. Come dovrebbe essere l’Italia per diventare un Paese per donne?

È un discorso lungo, perché dovrebbero esserci tante cose insieme. Prima di tutto dovrebbe essere un Paese che non ha bisogno di quote per promuovere le donne, e in cui le donne stesse non siano valutate per avvenenza ma per impegno e capacità. Un luogo che possa fare a meno dell’uso del corpo femminile come oggetto nelle pubblicità, nei media, ovunque, e dove il linguaggio non sia espressione del più becero machismo. Bisognerebbe, insomma, rifondare tutto su una cultura priva di stereotipi: cosa che può avvenire solo dopo una profonda elaborazione della necessità di superare i pregiudizi sulle donne.

Intanto dovrebbe diventare un Paese civile dove la differenza e il senso del limite diventano sintomi di consapevolezza e non di carenza. Un luogo dove il potere non sia più una forma di sopraffazione o di esercizio della forza ma che abbia un aspetto umano, sia attraverso il corpo di un uomo o di una donna. E poi mi piacerebbe un Paese in cui non ci si debba vergognare delle differenze, anzi. Le donne sono il concentrato della differenza e per questo sono i principali bersagli di pregiudizio.

Gli uomini cosa farebbero senza stereotipi?

Secondo me, gli uomini si libererebbero anche loro da questa gabbia, perché alla fine sono faticosi per entrambi. Un buon inizio per gli uomini, sarebbe cominciare a interrogarsi sul perché commettono violenza sulle donne, cosa li spinge a diventare stalker, e perché devono maltrattare le loro compagne per sentirsi forti.

Se si andasse nella direzione dello smantellamento degli stereotipi, ci sarebbe un grande vantaggio per tutti. Con diverse relazioni ispirate al rispetto reciproco, si mettono le basi per un dialogo più sano. C’è da dire che per fare questo c’è una sola chiave: l’educazione, sia nelle famiglie che a scuola. In famiglia, il ruolo delle mamme che educano i figli maschi è importantissimo, è il modo per un superamento totale della valorizzare del modello maschile di riferimento. E nella scuola bisognerebbe cominciare da subito, da piccoli, facendo giocare maschi e femmine con gli stessi giocattoli.

Quindi la scuola è un punto di partenza.

Sì, e come materie incentiverei lo studio dell’educazione civica, naturalmente, e farei leggere la costituzione in tutta le sue possibilità, ma introdurrei anche lo studio della storia delle donne. Però, prima, vanno cancellati gli stereotipi. Questo lo dico perché lo vedo come nonna, e non solo a scuola ma anche nella scelta del tempo libero e dello sport: i bambini vanno al calcio e le femmine a danza, così diventa un dato ineluttabile, non puoi sfuggire.

Diciamo che comincerei dalla scuola materna, insegnando la differenza di genere a bambini e bambine, perché solo distruggendo gli stereotipi dall’inizio ce la puoi fare. E poi cambierei il modello che da duemila anni ci costringe all’idea della femmina da proteggere, perché impedisce di essere protagoniste della propria vita. La consapevolezza è la cosa più importante, solo quando si aprono gli occhi allora viene tutto fuori. Una cosa che mi capita anche ai processi.

Può spiegare meglio?

Parlo delle donne che denunciano il compagno o il marito violento dopo tanto tempo, ma anche degli uomini che si meravigliano quando vengono condannati, soprattutto se si stratta di maltrattamenti o stalking. Diciamo che se c’è una violenza grave, fisica o sessuale, è evidente che si tratta di un reato, ma se ci sono maltrattamenti e violenza piscologica, ci si meraviglia che si tratti di reati. Mi è capitato diverse volte, e questo vale anche per persone istruite, con tanto di laurea. Il problema è il modello introiettato, quello che scambia la violenza con l’amore, e che riguarda sia gli uomini che esercitano questo controllo, sia le donne che lo subiscono e non lo mettono a fuoco. Se noi non rompiamo questo meccanismo e non indichiamo gli stereotipi come base di modelli malati, questi continueranno a essere diffusi e quindi a essere considerati normali. Per dirla tutta, se non cambiamo il modo di pensare, tutte le leggi sono inutili, qui va reimpostata l’identità della persona e delle relazioni.

Nella Giustizia italiana come funziona, ci sono stereotipi?

Bisogna fare delle distinzioni perché alla fine i pregiudizi verso le donne sono così profondi che ti condizionano a 360 gradi. Noi, in magistratura, siamo ormai al 48% e in generale c’è un atteggiamento diverso dei colleghi rispetto al passato. La donna giudice però, continua a essere vittima di pregiudizio nel quotidiano. Faccio un esempio pratico capitato a me: sono a Roma e fuori dall’udienza, l’imputato chiede al carabiniere “oggi sarò giudicato da un giudice o da una donna?” Cioè, l’istituzione diventa alternativa al mio genere.

Per me è diverso, sono in Cassazione da vent’anni e il rapporto tra le parti non c’è, mentre quando ho iniziato la carriera, il pregiudizio verso di noi era fortissimo. Mi ricordo che la mia prima destinazione fu a Montepulciano, in Toscana, dove trovai un foro molto civile, che accettò bene il mio arrivo anche se ero una donna. La vera difficoltà, invece, fu con i colleghi, soprattutto quelli più giovani, che vedevano la presenza di una collega come un’ombra: c’era una diffidenza, uno scetticismo e una critica indescrivibile. Poi, una volta arrivata a Roma, è stato più facile e ho cominciato a ricevere complimenti, ma mi sentivo comunque e sempre sotto esame, e sentivo che al minimo errore sarei stata giudicata non meritevole.

Ma il pregiudizio che costruisce il tetto di cristallo per le magistrate, c’è o non c’è adesso?

Quando si tratta di posti decisionali, il fatto di essere una donna, conta. E su questo pregiudizio bisognerebbe discutere in magistratura, perché oggi è ritenuto un problema individuale: sei tu a doverti far valere, è responsabilità tua se si affievolisce la tua autorevolezza. E questo nega che ci sia un problema di genere, che invece ci sta perché il pregiudizio sulle donne è ancora forte. Un pregiudizio che non crolla in 50 anni e che l’assunzione del modello maschile a oltranza, anche da parte delle donne, non risolve.

In magistratura le donne sono il 48% e tra un po’ superiamo gli uomini, perché sono di più le donne che vincono il concorso e questo dimostra che sono più brave, è un risultato obiettivo. Mentre per quanto riguarda le nomine e gli incarichi direttivi, abbiamo un 18% nei tribunali e un 12% nelle procure, un numero inadeguato rispetto alla proporzione. Qui il discorso è articolato, perché se da una parte è vera una minore disponibilità delle donne a proporsi e a mettersi in gioco, spesso per gli incarichi si adduce il fatto che noi abbiamo meno anzianità perché siamo entrate dopo, che è un falso problema. La verità è che dietro ci sono criteri apparentemente neutri che nascondono uno stereotipo.

Che rapporto hanno le donne con il potere?

Noi abbiamo usufruito delle lotte femministe e quindi sembra che abbiamo più diritti, però poi ti rendi conto che non è così. Il diritto di entrare in magistratura ce l’ho ma non ho il riconoscimento di essere istituzione davanti a gran parte dei miei imputati e i pregiudizi non si fermano davanti all’aula di giustizia. E se poi nel rapporto con il potere, le donne vengono fagocitate dal modello maschile, c’è solo l’immobilità. Peccato, perché le donne consapevoli possono cambiare il mondo.

Sono andata al congresso di ANM (Associazione nazionale magistrati, ndr) tempo fa, e c’erano tantissime donne, e si aveva questo impatto forte, anche visivo, di una magistratura con donne autorevoli e con alcune che sono intervenute con grande piglio. Si vede che abbiamo raggiunto traguardi ardui. Però le donne hanno ancora poco potere, nel senso che stanno raggiungendo professioni impensabili fino a 10 anni fa, ma questa delle posizioni apicali è un tema forte sia in politica, che nelle università, come nella magistratura, in tutto.

Proposte?

Bé, il Consiglio superiore della magistratura ha solo 2 donne, e per i luoghi di potere il problema di genere è ancora da risolvere in Italia. Bisogna puntare a far entrare più donne.

Per quanto riguarda le donne nel Csm, la proporzione è ridicola. A luglio si voterà, e lì il discorso è complesso perché c’è il gioco delle correnti. Non so, forse si supererà questo tetto minimo, ma non credo ci saranno rivoluzioni, si parla di una riforma e si parla anche di quote nel Csm. Vedremo.

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