Violenza contro le donne e metodi di contrasto: i tribunali di Roma si aprono al confronto pubblico

Tavola rotonda “Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario" incontro per una nuova strategia

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



Uno degli incontri più interessanti sul tema della violenza contro le donne-femminicidio si è svolto giorni a Roma: un tavolo dove si sono seduti diverse competenze (operatori e operatrici di giustizia, sanità, forze dell’ordine, giornalismo, avvocatura, e società civile) che si sono confrontate su una strategia concreta di contrasto alla violenza contro le donne. Una tavola rotonda dal titolo “Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario. Per una strategia concreta di lavoro interdisciplinare”, durata circa 6 ore presso la Fondazione Lelio Basso di Roma, che ha avviato un dialogo tra chi lavora in ambiti diversi sulla violenza contro le donne, ognuno con la sua specificità, ma tutte legate da un filo rosso: la prevenzione alla violenza.

Gli interventi si sono concentrati infatti sull’applicazione di una strategia di prevenzione e tutela delle donne, più che sull’aspetto punitivo, con grande accordo sul fatto che è la prevenzione a giocare un ruolo fondamentale per affrontare il femminicidio. Tra tutto è emerso più volte la necessità della ratifica della Convenzione Europea di Istanbul da parte dell’Italia e la necessità di politiche mirate e dirette a un contrasto reale alla violenza sulle donne. In particolare la violenza nelle relazioni intime è stata indicata da tutti come forma più estesa della violenza contro le donne, ed è all’interno della famiglia che sono stati ravvisati reati come maltrattamenti, ingiurie, atti persecutori, violenza fisica ed economica ma anche sequestro di persona e tortura, con effetti devastanti nei confronti dei minori quando presenti.

Solo alla Procura di Roma sono stati avviati circa 6.000 procedimenti in un anno riguardanti le varie forme di violenza contro le donne

E’ stato evidenziato come la crisi italiana sia un altro degli ostacoli al contrasto al fenomeno sia per il finanziamento “a singhiozzo” dei centri antiviolenza, che sono cruciali, sia per politiche dirette e immediate in tutti i settori destinati, o da destinare, con questo scopo. Infine è stato detto da più parti che il problema riguardo la punizione di questi reati, non è l’inasprimento della pena ma la sua giusta esecuzione attraverso le  normative già presenti, in quanto si ravvisa spesso, nei tribunali, la mancanza della sua effettività o comunque la minimizzazione di certi comportamenti lesivi. Di fronte a una violenza non può essere accettato che ci sia, nella fase preliminare, la massima garanzia dell’imputato mentre non sia prevista la massima assistenza e protezione della vittima, che molte volte – soprattutto quando il procedimento si apre con un pregresso di anni di maltrattamenti in famiglia – non ha piena consapevolezza del suo status, tanto da riferire erroniamente a se stessa parte della responsabilità di ciò che è accaduto.

La violenza contro le donne non deve essere mai minimizzata, e l’approccio investigativo, di tutela, e di prevenzione deve prevedere una formazione specialistica che abbia un quadro intero ed esaustivo sul fenomeno stesso, ed è inaccettabile, per esempio, che ancora oggi procedimenti riguardanti questi reati possano essere discussi davanti al giudice di pace, come spesso succede. Su questo l’accordo è stato praticamente unanime in quanto si è intercettato il bisogno della formazione specialistica a tutti i livelli: dai giudici, agli avvocati, forze dell’ordine, psicologi (sia in ambito strettamente sanitario che nelle consulenze all’interno dei tribunali), ma anche di chi opera nell’informazione e chi lavora nei centri antiviolenza.

“Il tavolo di discussione si è svolto a Roma presso la Fondazione Lelio Basso – ha detto Antonella Di Florio presidente sezione Tribunale di Roma e tra le organizzatrici dell’evento – è partito da un articolo di Luisa Betti sul Manifesto quando le vittime di femminicidio erano, in Italia, 37 mentre oggi sono diventate 117 comprese le vittime collaterali.

Ora nessuno può più negare che l’uccisione delle donne configuri una fattispecie specifica che risponde a presupposti peculiari

e nessuno ritiene che si possa più parlare genericamente di omicidio. La particolarità dei moventi e delle circostanze in cui il delitto viene commesso consente di coniare e pronunciare senza timore il termine di femminicidio, rispetto al quale c’era stato finora qualche rifiuto, qualche reticenza. Sono stati fatti alcuni passi avanti”. Organizzato anche con  Tiziana Coccoluto (giudice Tribunale di Roma) e Giuristi democratici, il tavolo ha analizzato e avviato un percorso di analisi e confronto tra chi lavora in ambiti diversi sulla violenza contro le donne: un dialogo proficuo tra giustizia, psicologia, informazione e società civile. Un tavolo che, con un lavoro di integrazione, vuole sollecitare istituzioni, governo e ministeri preposti, a un’azione trasversale per un efficace contrasto sulla violenza contro le donne, che sia però in un’ottica di prevenzione e di protezione, prima che di punizione.

Antonella di Florio

Antonella di Florio (presidente sezione Tribunale civile di Roma), introducendo i lavori, ha ricordato come questo “convegno è stato pensato nel marzo del 2012 quando le vittime di femminicidio erano, in Italia, 37”, mentre “oggi sono diventate 117, comprese le vittime collaterali”. “Ora – dice Di Florio – nessuno può più negare che l’uccisione delle donne configuri una fattispecie specifica che risponde a presupposti peculiari e nessuno ritiene che si possa più parlare genericamente di omicidio”, in quanto “la particolarità dei moventi e delle circostanze in cui il delitto viene commesso, consente di coniare e pronunciare senza timore, il termine di femminicidio, rispetto al quale c’era stato finora qualche rifiuto, qualche reticenza”. Al tavolo sono emersi vari punti come l’esigenza di una corretta attuazione delle norme già vigenti in ambito giuridico, sia penale che civile, in quanto, come sottolineato da Barbara Spinelli (avvocata penalista, esperta femminicidio), anche l’Onu ha individuato nell’ordinamento italiano, “a fronte di un invidiabile, ma pur sempre perfettibile, impianto normativo”, “il problema dell’implementazione delle norme esistenti, viziata dal pregiudizio di genere”.

Maria Monteleone

Dopo il quadro internazionale dato da Spinelli, che ha spiegato come femmicidio e il femminicidio siano “due neologismi coniati per evidenziare la predominanza statistica della natura di genere della maggior parte degli omicidi e violenze sulle donne”, Maria Monteleone (procuratrice aggiunta Procura di Roma) ha dato chiara situazione della gravità della violenza domestica in Italia, auspicando una “adeguata investigazione sui fatti che possono evolvere in reati di maggiore gravità, e che spesso sono preceduti da episodi minimizzati anche dagli organi inquirenti”. Monteleone, nel suo intervento, ha proposto alcune modifiche mirate alla prevenzione e alla tutela maggiore delle vittime di violenza: “Innanzi tutto si deve assicurare una effettiva e concreta assistenza legale alla vittima fin dal momento in cui deve presentare la querela o la denuncia – ha spiegato – e bisogna introdurre modifiche legislative specifiche per la parte offesa anche nella fase delle indagini preliminari. Occorre – ha concluso – prendere atto che la vittima di questi fenomeni criminosi riveste una posizione particolare in un sistema processuale, il nostro, che è troppo sbilanciato a favore dell’autore del delitto, al quale vengono assicurate le più ampie garanzie possibili”. Monteleone ha sottolineato che

“il fenomeno della violenza che caratterizza le relazioni familiari è molto grave perché sono elevati i nuovi procedimenti che ogni anno vengono iscritti”

(circa 6.000), e che “sempre più frequentemente si deve fare ricorso alla adozione di misure cautelari”. “E’ un dato acquisito – dice Monteleone – che in pochi casi la violenza si ferma ad un singolo fatto, mentre risulta che molto spesso ci si trovi di fronte a un crescendo di gravità, e un intervento tempestivo può impedire che la situazione evolva in maniera ancora drammatica”.

Franca Mangano

Franca Mangano (presidente sezione Tribunale di Roma), ha ben spiegato l’attuazione dell’illecito endofamiliare, come fonte autonoma di risarcimento del danno, in sede civile, e una maggiore tutela dell’individuo: “Grazie alla l. n. 154/200 – ha detto Mangano – il giudice civile, alla stessa stregua del giudice penale, può adottare ordini di protezione per allontanare familiari e conviventi che costituiscano un pericolo per l’incolumità e per la serenità psichica di altri componenti il nucleo familiare”, e se “accanto a questo sistema cautelare, il giudice civile provvede al risarcimento del danno derivante dal fatto reato o dall’illecito civile”, è anche vero che “la maggiore criticità risiede nella difficoltà di quantificare il danno che una violenza sessuale o una condotta violenta in genere, produce sulla salute della donna, sulla sua dignità e sulla sua capacità di autodeterminazione”.

Elvira Reale

Eliva Reale (psicologa reponsabile dello sportello antiviolenza dell’ospedale San Paolo di Napoli) ha sottolineato il bisogno di eziologie corrette con “un’attivazione autonoma del campo sanitario in tema di anti-violenza che preveda la riformulazione di prassi diagnostiche e d’intervento”, e ha chiesto il respingimento, da parte di giudici, di Ctu (Consulenze tecniche d’ufficio) fatte da psicologi qualora, in sede di separazioni e affido di minori, non tengano conto – nel caso siano presenti – di violenza domestica e di abuso su minori, distinguendo la conflittualità dalla violenza, ed evitando in ogni modo che durante i processi la donna che ha subito questa violenza venga considerata sullo stesso piano dell’offender. “Davanti a questa tragica realtà – ha detto Reale – è essenziale la formazione di psicologi ai temi sanitari della violenza contro le donne in cui sia chiaro che la violenza del partner agisce come grave stressor sulla vita delle donne e dei minori”.

Per quanto mi riguarda ho invece evidenziato la necessità di un cambiamento della cultura a partire dall’uso della parola femminicidio che deve essere riempito di contenuti e non usato come un semplice slogan dai media: una “rivoluzione” che passa attraverso una corretta informazione che smetta di ricalcare stereotipi secondo i quali la donna è anche responsabile del suo stupro (provocatrice) e dove il marito “geloso” uccide la moglie in un “raptus” perché fuori di sé (e quindi “meno grave”).

Chi scrive sui giornali e sostiene certi stereotipi, indirettamente giustifica e sostiene quelle pericolose attenuanti culturali che permettono agli offender di usufruire di allegerimenti di pena

senza che questo scandalizzi o indigni nessuno nell’opinione pubblica. Un esempio è la sentenza del Tribunale di Belluno dell’anno scorso in cui un uomo, che ha stuprato una donna minacciandola con l’accetta, ha usufruito di attenuanti in quanto la donna doveva sapere a cosa andava incontro perché conosceva il debole che l’uomo nutriva nei suoi confronti, come è scritto nella sentenza che lo ha condannato a 2 anni invece di 8 come chiesto dal pm. Un fatto che nessun giornale ha ripreso criticandone i presupposti appunto culturali.

Elisabetta Rosi

Elisabetta Rosi (consigliere in Corte di Cassazione) ha poi non solo ribadito “il ruolo sussidiario che la legislazione penale riveste, così come previsto nell’ambito delle strategie della Convenzione europea di Istanbul contro la violenza sulle donne, che vedono nella prevenzione e soprattutto nella protezione delle vittime, la chiave di volta del contrasto al fenomeno della violenza”, ma ha anche sottolienato l’importanza dell’adeguamento di un linguaggio “differente” per quanto riguarda le sentenze che molte volte entrano nel merito delle violenze di genere, “sviluppando la consapevolezza della necessità di un uso della lingua italiana coerente con il rispetto dei diritti anche delle vittime particolarmente vulnerabili, nella redazione delle sentenze e degli altri provvedimenti giudiziari”.

Giovanni Diotallevi (consigliere in Corte di Cassazione), ha sottolineato come “anche la risposta organizzativa della Corte di Cassazione, per assicurare tempestività e prevedibile uniformità alle decisioni su questa materia, ha previsto una razionalizzazione nella distribuzione degli affari concernenti questa tipologia di reati, limitando la competenza a due sole sezioni”. Diotallevi ha fatto presente che “l’applicazione della legge sullo stalking e le modifiche sulla disciplina dei maltrattamenti in famiglia, con la relativa problematica del c.d. mobbing, richiedono approfondimenti progressivi e affinamento di sensibilità giurisprudenziali”, e che “l’opportuniutà di un approccio integrato di saperi si rivela indispensabile rispetto anche all’individuazione di mezzi ulteriori e diversi, rispetto a quello esclusivamente repressivo, che rischia di intervenire solo nel momento più doloroso delle vicende”.

Luisa Pellizzari

Luisa Pellizzari (direttrice Servizio Operativo Centrale, Ministero degli Interni), insieme a Chiara Giacomoantonio (vice questore aggiunto SCO), ha esposto i passi avanti, fatti grazie all’innovazione delle “strutture dedicate alla trattazione dei reati commessi in pregiudizio di donne e minori”, con una “una sezione ad hoc specializzata nelle indagini concernenti lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e il turismo sessuale in danno di minori, competenza che, negli anni, è stata estesa ai reati commessi in ambito domestico e allo stalking”. “Il monitoraggio interforze degli omicidi consumati sul territorio nazionale, effettuato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza – ha detto Pellizzari – ha evidenziato, che la maggior parte di quelli commessi in pregiudizio di donne è maturato in un contesto familiare: in particolare, dal 2010 ad oggi, del totale degli omicidi con vittima di sesso femminile, circa il 70% è stato commesso in ambito familiare”.

A fronte di un trend che per quanto riguarda il femmincidio in Italia va a crescere (125 donne uccise nel 2010, 137 nel 2011), le parti che si sono riunite intorno a questo tavolo hanno, ognuna con una specificità, mirato a una strategia interdisciplinare, e da parte di tutti gli interventi è emerso che uno dei nodi fondamentali per un serio contrasto alla violenza contro le donne, è la formazione riguardo la violenza di genere verso tutti coloro che hanno “a che fare” con questi temi: magistrati, avvocati, operatrici dei centri antiviolenza, psicologi, giornalisti che informano l’opinione pubblica su questo fenomeno, forze dell’ordine, personale dei pronto soccorsi, ecc.

Vittoria Tola

A questo proposito Vittoria Tola (responsabile nazionale dell’Udi e tra le promotrici della Convenzione No more!), ha riportato nella discussione “il caso della ragazzina di Montalto stuprata da un gruppo di amici che hanno avuto la solidarietà di un intero paese, sindaco in testa: un’adolescente che all’epoca aveva 15 anni e che oggi ne ha 22 mentre il processo deve ancora concludersi”. Tola ha ribadito come “la violenza contro le donne sia un fenomeno culturale, un fenomeno iscritto nella tradizione che viene da lontano, e che appartiene alla mentalità. Una cultura che in questo caso significa l’insieme delle idee, valori, strutture fisiche e simboliche che definiscono le norme di un determinato popolo o comunità, definendo anche e soprattutto un potere e chi lo esercita in maniera dominante ed egemonica”.

La Convenzione No More!, ha tentato di indicare ambiti e priorità su cui intervenire contro la violenza sulle donne chiedendo, tra le altre cose, l’immediata verifica del Piano Nazionale varato nel 2011 e la ratifica della Convenzione di Istanbul; ma ha anche lanciato il grido di quella società civile e di quelle associazioni che negli anni hanno organizzato centri antiviolenza in tutta Italia, un grido al quale il presidente del consiglio Mario Monti, come asserisce Tola, “non ha ancora risposto dopo mesi di richieste”.

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Estratti dalla Tavola rotonda “Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario. Per una strategia concreta di lavoro interdisciplinare” a cura di Luisa Betti (giornalista) e Antonella Di Florio (presidente sezione Tribunale civile di Roma)

 

 

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