Il femminicidio in Italia: i danni di chi minimizza il fenomeno

Lezione per incontri seminariali al Mae “Centralità della persona e tutela dei diritti umani nel mondo contemporaneo” 

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice DonnexDiritti International Women



“Negli ultimi dieci giorni in Italia sono state uccise dai loro partner tre donne mentre un’altra è stata gravemente ferita dal marito a Barletta. Le donne uccise sono: Lisa Puzzoli, 22 anni, ammazzata a Udine dall’ex convivente, Vincenzo Manduca, 27, di Forlì, denunciato tre volte dalla giovane per stalking e molestie; Giovanna De Lucia, 27, di San Felice a Cancello, nel casertano, accoltellata dal marito, Giovanni Venturano, 27 anni, andato da lei per fare pace; Luciana Morosi, 67 anni, strangolata dal marito, Enrico Sciaccaluga, a Genova,

Lisa Puzzoli

Dall’inizio dell’anno sono già 120 le vittime di femminicidio in Italia, comprese le vittime collaterali (nonni, figli, genitori, fratelli, sorelle, conoscenti che si trovavano per caso al momento del delitto o perché uccisi per vendetta contro le vittime predestinate), e la maggior parte, circa il 70% di queste vittime (dati Onu), avevano già segnalato a servizi sociali e/o forze dell’ordine il pericolo che correvano e quindi erano “salvabili”. Se si va a vedere il significato di femminicidio si legge che essa è, secondo Marcela Lagarde, “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.

Secondo il Rapporto sull’Italia della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, reso pubblico a giugno a Ginevra:  “Sono stati fatti sforzi da parte del Governo per affrontare il problema della violenza contro le donne, inclusa l’adozione di leggi e politiche e la creazione e fusione di enti governativi responsabili per la promozione e protezione dei diritti delle donne. Ma questi risultati non hanno ancora portato una diminuzione della percentuale di femminicidi o si sono tradotti in un reale miglioramento della vita di molte donne e bambine”, e che “Nonostante le sfide dell’attuale situazione politica ed economica, gli sforzi mirati e coordinati nell’affrontare la violenza contro le donne attraverso l’uso pratico e innovativo di risorse limitate, questa necessità rimane una priorità. I livelli alti di violenza domestica, che contribuiscono ai livelli in crescita di femminicidi, richiedono una attenzione seria”. “Nel caso specifico dell’Italia – ha detto Rashida Manjoo – secondo le statistiche che ho ricevuto durante la mia visita nel paese, mentre

il numero di omicidi di uomini su uomini è diminuito dall’inizio del 1990, il numero di donne uccise dagli uomini è aumentato

Un rapporto sul femmicidio basato sulle informazioni raccolte dai media indica che nel 2010, 127 donne sono state uccise dagli uomini. Nel 54% dei casi, il responsabile era un partner o ex-partner e solo nel 4% dei casi l’aggressore era uno sconosciuto (il 96% è conosciuto dalla vittima, ed è un familiare, un conoscente, un partner o un ex, ndr). Il 70% di tutti i casi di femmicidio ha riguardato donne italiane e nel 76% dei casi anche gli aggressori erano italiani, al contrario di quanto si crede comunemente, che tali crimini siano commessi da stranieri, un luogo comune generalmente rafforzato dai media”.

Rashida Manjoo

Secondo il Rapporto di Rashida Manjoo, circa l’85% della violenza nel nostro Paese si consuma in famiglia, una forma di violenza che viene spesso minimizzata sia dalle forze dell’ordine, sia nei tribunali, sia dalla stessa informazione che spesso tratta questi delitti come fossero storie di “amore malato” (senza contare che la maggioranza dei femmincidi si consuma nelle relazioni intime di cui il 70% era stato segnalato, come già detto). Mariella Zanier, mamma di Lisa Puzzoli – la ragazza uccisa dall’ex qualche giorno fa – ha detto chiaro e tondo:

“Sapevamo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di terribile a Lisa. Questa è stata una morte annunciata”

mentre il padre, ha confermato che “C’erano state denunce per maltrattamenti, poi la sentenza del tribunale, il mese scorso, per la bambina. Nonostante questo non è stato possibile prevenire l’uccisione di nostra figlia. A questo punto mi chiedo a cosa serva la legge se non tutela una ragazza dalla violenza, se non impedisce una tragedia come questa. Adesso io e mia moglie restiamo qui con una bambina di due anni da crescere”.

Vincenzo Manduca

L’uomo che ha ucciso Lisa era stato denunciato per stalking, minacce e lesioni, e si è presentato da lei con la scusa di discutere aspetti legati al mantenimento della figlia, ma con sé aveva un coltello di 20 centimetri con cui ha ucciso la donna, una premeditazione che Lisa non poteva sapere ma che poteva immaginare se qualcuno glielo avesse fatto notare: per esempio, le istituzioni a cui si era rivolta per essere tutelata. Il fattore di rischio è un dato rilevante per salvare queste vite, perché Lisa ha acconsentito di ascoltare il suo assassino, anche se malvolentieri, perché non era consapevole, fino in fondo, del pericolo che correva: ma questo è un classico nelle dinamiche di femminicidio in ambito di relazioni intime perché se lo Stato non interviene in maniera adeguata, e consapevole del rischio che la donna può correre, perché se ne deve rendere conto la donna che in fondo con quell’uomo ha convissuto e che magari un tempo era anche diverso? Per questo la prevenzione, più che la punizione a posteriori, gioca un ruolo fondamentale: in particolare per la violenza nelle relazioni intime in cui si ravvisano reati come maltrattamenti, ingiurie, atti persecutori, violenza fisica ed economica ma anche sequestro di persona e tortura, con effetti devastanti nei confronti dei minori quando presenti.

Solo alla Procura di Roma sono stati avviati 6.000 procedimenti in un anno per varie forme di violenza contro le donne

e se la crisi italiana è un altro degli ostacoli al contrasto al fenomeno, sia per il finanziamento “a singhiozzo” dei centri antiviolenza, sia per politiche dirette e immediate in tutti i settori destinati, o da destinare, il problema riguardo la punizione di questi reati, non è l’inasprimento della pena ma la sua giusta esecuzione attraverso le normative già presenti, in quanto si vede come spesso, nei tribunali, la minimizzazione di certi comportamenti lesivi e quindi la poca applicazioni delle norme vigenti.

Di fronte a una violenza non può essere accettato che ci sia, nella fase preliminare, la massima garanzia dell’imputato mentre non sia prevista la massima assistenza e protezione della vittima, che molte volte – soprattutto quando il procedimento si apre con un pregresso di anni di maltrattamenti in famiglia – non ha piena consapevolezza della sua condizione, tanto da riferire erroniamente a se stessa parte della responsabilità di ciò che è accaduto.Ancora oggi succede che nei tribunali civili e penali di tutt’Italia, e per un pregiudizio radicato, le donne non siano credute e quindi non vengano protette a sufficienza, un fattore che porta molte di loro a non denunciare (oltre al fatto che spesso si è in presenza di una dipendenza economica o si ha la paura che il partner possa portare via i figli minori, se presenti). La violenza contro le donne non deve essere quindi mai minimizzata, e l’approccio investigativo, di tutela, e di prevenzione deve prevedere una formazione specialistica che abbia un quadro intero ed esaustivo sul fenomeno stesso, ed è inaccettabile, per esempio, che ancora oggi procedimenti riguardanti questi reati possano essere discussi davanti al giudice di pace, come spesso succede.

Su questo diventa centrale il bisogno della formazione specialistica a tutti i livelli

dai giudici, agli avvocati, forze dell’ordine, psicologi (sia in ambito strettamente sanitario che nelle consulenze all’interno dei tribunali), ma anche di chi opera nell’informazione e chi lavora nei centri antiviolenza. Sui dati, che sono fondamentali per affrontare il problema, in Italia bisogna anche dire che non c’è un osservatorio nazionale ufficiale sui femminicidi come in Francia e in Spagna, in quanto il ministero non è in grado di elaborare dati in maniera differenziata, e nell’attesa che escano fuori i dati sulla violenza che la ministra Fornero ha promesso con una nuova indagine Istat, le vittime di femmincidio vengono contate dalle associazioni attraverso i casi riportati dalla stampa.

Sulla percezione della gravità della violenza nelle relazioni intime e la sua contiguità con il femmincidio, un ruolo chiave ce l’ha anche l’informazione che troppo spesso veicola contenuti tesi a riproporre stereotipi altamente lesivi per le donne che non contemplano il fenomeno nella sua interezza usando anche a volte un linguaggio offensivo nei confronti delle vittime.

Un’informazione che può contribuire fortemente al cambiamento di una cultura ampiamente assecondata anche dalle istituzioni, e fertile terreno sul quale la violenza sulle donne prolifera. E questo a partire dall’uso della parola femminicidio che deve essere però riempita di contenuti e non usata come un semplice slogan sia dai politici che dai media: una rivoluzione culturale che passa anche attraverso un’informazione che smetta di ricalcare stereotipi secondo i quali la donna sarebbe, anche lei, complice del suo stupro – provocatrice o preda – e dove il marito o il fidanzato geloso uccide la donna in un raptus perché fuori di sé, macchiandosi così di un reato meno grave che richiama culturalmente al delitto d’onore. Un esempio è

la sentenza del Tribunale di Belluno dell’anno scorso in cui un uomo che ha stuprato una donna minacciandola con l’accetta, ha usufruito di attenuanti perché la donna doveva sapere

a cosa andava incontro perché conosceva il debole che l’uomo nutriva nei suoi confronti – come è scritto nella sentenza che lo ha condannato a 2 anni invece di 8 come chiesto dal pm. Un fatto che nessun giornale ha ripreso criticandone i presupposti appunto culturali. Quando si tratta di un femminicidio, che magari avviene dopo una lunga serie di maltrattamenti gravi in famiglia, o di uno stupro da parte di italiani, nei giornali la grafica segue, più o meno, uno schema: il titolo riporta spesso un’attenuante psichiatrica dell’autore, e se questo autore è italiano, la notizia verrà messa in secondo piano, se invece si tratta di un immigrato la notizia viene sbattuta in prima pagina. Per gli omicidi di genere, che al 96% in Italia vengono commmessi da conoscenti maschi, si parla di raptus o infermità mentale, gelosia o delitto passionale, oppure di stress dovuto al lavoro o alla perdita del lavoro, e si traccia un profilo della vittima che possa giustificare l’atto che in realtà è semplicemente un omicidio di genere.

Di solito il background culturale nell’illustrazione dei fatti, si richiama agli stereotipi femminili della donna “preda” che istiga l’istinto animale dell’uomo: quindi se la vittima, dell’omicidio o dello stupro, è di bell’aspetto ci sarà la sua foto, ma se la vittima è un’anziana o una donna non particolarmente avvenente, ci sarà l’immagine del luogo del delitto o la foto di polizia o carabinieri, che rimette ordine come se fosse un semplice fatto di cronaca isolato e non un fenomeno sociale grave. Se poi la vittima, dell’omicidio o dello stupro, è una minorenne di bell’aspetto, saranno pubblicate foto preferibilmente ammiccanti con didascalie penose come nel caso di Sarah Scazzi “la bella biondina pugliese”. In molti di questi casi si cercherà di indugiare su aspetti morbosi e perversi per interessare il lettore senza dare un quadro d’insieme ma facendo appunto leva su stereotipi culturali.

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Lezione all’interno degli incontri seminariali – Convegno internazionale “Centralità della persona e tutela dei diritti umani nel mondo contemporaneo”  nel ciclo di studi “La promozione dei Diritti Umani: dalla teoria alla pratica” al Mae (Ministero affari esteri) – Comitato promozione e protezione diritti umani – Vis – panel Protection of Women.

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