Qualche anno fa, mentre ero a Damasco, migliaia di profughi iracheni scappavano dalla guerra che imperversava nel loro paese, l’Iraq, cercando asilo in uno dei pochi posti, la Siria, che, insieme alla Giordania, accettava ancora di accoglierli. Una fuga disperata che coinvolgeva operatori e operatrici internazionali sul territorio i quali, tra mille difficoltà, cercavano di gestire quello che era un vero e proprio esodo. L’allora responsabile dell’Unhcr in Siria, Laurens Jolles, oggi delegato dell’Unhcr per il sud Europa, era alle prese con questa fatica: “Insicurezza generale, impossibilità di mantenere un ordine, gente che ha subito personalmente violenze e vari abusi.
Qui arrivano donne dall’Iraq che hanno subito violenza sessuale, ma non è facile sostenerle e recuperarle, perché non tutte vengono e dicono di aver subito violenza. La vera difficoltà è individuare questi casi
noi lavoriamo attraverso centri organizzati collaborando in maniera funzionale insieme alle Ong e all’Unicef. Ma non possiamo andarle a cercare”, diceva Jolles. Una parte delle donne che fuggivano e approdavano in Siria dall’Iraq era invisibile. Alcune operatrici che lavoravano sul territorio, mi spiegavano che per queste donne non era semplice esporsi e dichiarare la propria presenza e ancor meno denunciare una violenza e che quindi, anche se molte avevano subito abusi, era davvero arduo monitorarle, e che l’unica cosa da fare per rendere più accessibile il servizio era avere “personale specializzato e interventi mirati di tipo legale, medico e psicologico con un approccio specifico di genere”.
A terminare l’enorme dipinto sconnesso di vite messe a soqquadro, era il proliferare di night club in alcuni quartieri damasceni, con un aumento spaventoso di ragazzine avviate alla prostituzione, un vademecum necessario per mantenere tutta la famiglia, tanto che lo stesso New York Times di quei giorni raccontava di “migliaia di giovani donne irachene giunte in Siria come profughe, e costrette a prostituirsi per sopravvivere”. Era il 2007 e la Risoluzione 1325 era già stata approvata da qualche anno.
Ma cos’è la 1325? Non tutti sanno che il 31 ottobre del 2000, nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York, il Consiglio di Sicurezza votò all’unanimità una Risoluzione, la 1325 appunto, che nelle tre parole “Donne, pace e sicurezza”, esprimeva tutto un mondo. Era la prima volta che la massima autorità a livello internazionale esprimeva e riconosceva la specificità del ruolo e dell’esperienza delle donne nelle situazioni di guerra e nei processi di pace.
La risoluzione chiedeva di adottare una prospettiva di genere cioè di provvedere a una risposta dei bisogni delle donne prima, durante e dopo il conflitto
ma anche di appoggiare le iniziative di pace delle donne locali e provvedere a una partecipazione diretta di quest’ultime alle trattative di pace. “In sostanza è una delle poche risoluzioni non tematiche ma trasversali – dice Luisa Del Turco, consulente esperta in cooperazione internazionale e politiche di genere – che comprende la specificità del ruolo e l’esperienza delle donne nelle situazioni di guerra e nei processi di pace, infatti quello che si chiede è sia protezione delle donne, che nei conflitti sono il campo di battaglia per eccellenza, ma anche la loro partecipazione attiva nelle missioni internazionali e ai negoziati di pace. La verità è che la 1325 è speciale, un vero spartiacque, un momento storico”. Secondo i dati diffusi dal rapporto italiano sulla 1325, curato da Actionaid e Pangea,
il 90% delle vittime in guerra sono civili, e l’80% sono donne e bambini
quindi non ci vuole una laurea in matematica per capire quanto l’impatto di una guerra sia diverso per gli uomini e per le donne, e le cifre sugli stupri subiti nel corso dei conflitti negli ultimi 20 anni parlano chiaro: 20.000-50.000 in Bosnia, 250.000-500.000 in Ruanda, 50.000-64.000 in Sierra Leone, e una media di 40 donne stuprate ogni giorno nella Repubblica Democratica del Congo. “In Ruanda – raccontava un’operatrice canadese dell’Unicef – sembrava un inferno, non riuscivamo a fermare le violenze sessuali: ogni notte c’erano stupri all’interno del campo profughi e noi non riuscivamo a mettere fine a questo disastro. La causa principale era lo stress della guerra, questi uomini non riuscivano a fermarsi, un vero incubo”. E le vittime erano sempre loro, donne che subivano violenza prima, durante e dopo il conflitto.
Le donne però non sono sempre e soltanto vittime, perché anche dopo aver subito violenze sessuali, abusi fisici e psicologici, sono capaci si rialzarsi, prendere in mano il proprio destino e quello degli altri, per cambiarlo radicalmente. “Il ruolo delle donne in Afghanistan – dice Simona Lanzoni, Project manager di Pangea – sono un esempio di partecipazione diretta ai processi di pace. Sono loro che si sono organizzate e hanno assistito e contribuito a tutte le conferenze internazionali, hanno preso la parola, si sono alzate e hanno lottato per il proprio paese. Queste donne esistono e vanno supportate. L’Afghanistan non è solo burka”. I paesi che hanno aderito alla 1325 sono tanti e tra questi c’è anche l’Italia, ma quelli che hanno effettivamente concretizzato le buone intenzioni in un Piano Nazionale d’Azione sono una ventina nel mondo tra cui Danimarca, Svezia, Norvegia, Gran Bretagna, Svizzera, Austria, Olanda, Islanda, Spagna, Finlandia, e naturalmente il Canada.
l’Unifem aveva pubblicato una valutazione con esperti indipendenti sul ruolo delle donne nei processi di costruzione della pace post conflitto
sostenendo che per migliorare le cose in tempo di guerra le NU e gli stati membri dovevano impegnarsi a includere le donne in tutti gli aspetti delle operazioni di pace e riconciliazione. In Italia si è fatto ancora troppo poco: e se si ha qualche riscontro, anche se con uno sforzo che sembra dover essere sempre triplo rispetto agli altri paesi europei, è solo grazie all’impegno di alcune donne tra cui l’on. Rosa Calipari (Pd, Commissione Difesa), che nel 2009 ha presentato e fatto votare una mozione per l’adozione di un Piano nazionale d’Azione italiano sulla 1325.