C’erano una volta gli Oscar. Era il lontano 1929 quando si è tenuta la prima edizione degli Academy Awards. L’ Olimpo dei migliori, l’Eldorado del Cinema. Certo, se sei un uomo. Per le donne invece tutto è più complesso, come nella vita così nel lavoro, nell’industria cinematografica e ancor di più negli Academy. Quest’anno però la sorpresa: ci sono voluti più di 90 anni ma alla fine qualcosa sta cambiando anche per gli Oscar dove quest’anno le donne fanno incetta di premi a partire da Chloè Zhao premiata come miglior film e anche come regia, Frances McDormand come miglior attrice e produttrice, e Emeral Fennell come miglior sceneggiatura.
L’Oscar fallocentrico
Un Premio, quello più ambito, che è stato e che ancora è per molti versi, fallocentrico e fallocratico, in quanto attua da sempre una malcelata misoginia discriminatoria ai danni delle donne, in tutti i settori del cinema, determinando una struttura dura a morire: una ragnatela sistemica da cui fino ad ora sembrava difficile liberarsi. Per far capire quanto ancora ci sia da fare per la libertà creativa e immaginifica delle donne, affinché il loro non sia un ruolo secondario ma di prima linea, in campo produttivo e direttivo, basta ricordare che
dal 1929 al 2020 le nomination agli Oscar sono state oltre diecimila e, come riportato da un’inchiesta del Guardian, solo il 14% delle candidature ha riguardato le donne
Un numero sconvolgente e disturbante se esplicitiamo il dato, dicendo che le donne nominate agli Oscar sono poco più di 1.400. Può bastare? No, se ci si concentra solo sulle nomination come Miglior Regista i numeri sono ancora più drammatici: su 449 nomination, le donne sono 5. Fino a questi ultimi Oscar l’unica ad aver vinto la statuetta per il Miglior Film è stata Kathryn Bigelow, solo nel 2010, con “The Hurt Locker”.
Il cinema e il potere
Se ci si interroga sul motivo per cui ci sia posto per un numero esiguo di donne la risposta è perché le donne nei ruoli di potere sono molto meno degli uomini. Una donna ai vertici è una spina nel fianco, è difficile da accettare, una che sceglie, organizza, è per un uomo insopportabile: essere registe, produttrici vuol dire farsi sentire, essere sceneggiatrice vuol dire raccontare una storia senza intermediari.
Scrivere da uomini ruoli femminili tipici significa decidere il confine dentro cui la donna agisce, vuol dire costruire un sistema di valori che lei rappresenterà anche fuori dallo schermo penetrando profondamente il tessuto sociale: perché il cinema è senz’altro un’arma importante
C’è però anche un’altra ragione che segna in maniera incisiva il percorso delle donne ed è quella economica: per fare un film servono soldi, ma se le donne vengono pagate molto meno di un uomo per svolgere il proprio lavoro questo inciderà inevitabilmente nel progetto.
2021: la vittoria delle donne
Detto tutto questo è quindi una vera e propria rivoluzione quella degli Oscar 2021 in cui ci sono state finalmente molte donne che in ogni ruolo hanno fatto sentire la propria voce. Registe, produttrici, sceneggiatrici, montatrici e attrici, ciascuna a proprio modo ha compiuto un vero e proprio cambio di rotta, una sorta di Hollywood anno zero. Un atto che ha avuto inizio con le premiazioni del 2018 in cui qualcosa stava già cambiando a causa dell’uragano piombato su Harvey Weinstein – il 5 ottobre 2017, un primo articolo era comparso sul New York Times – con il suo bagaglio terrificante e vigliacco di molestie e stupri in cambio di lavoro.
Ma quell’Oscar 2018 ha segnato solo il primo passo di una ribellione femminile che non si è fermata ma che è continuata fino a oggi
Il cinema aveva raccontato una donna diversa, mostrata sotto altre spoglie: madri spezzate ma non sconfitte (“Tre Manifesti a Ebbing”, “Missouri”), giovani pronte a darsi un altro nome per trovare sé stesse (“Lady Bird”), campionesse di pattinaggio che rompono vecchi schemi (“Tonya”).
Oscar a una donna come miglior film e miglior regia
Qui però c’è qualcosa che va oltre, che travalica gli argini e inonda ogni cosa, che punta ad un cinema molto più aperto e libero, che punta a eliminare quei macigni sessisti e razziali. Pensiamo alle minoranze nere qui rappresentate tra le nomination dalla regista Regina King di “Quella notte a Miami…”, e alla meravigliosa Viola Davis in “Ma Rainey’s Black Bottom”. Ma ci sono anche le minoranze asiatiche e qui entra in gioco la vittoriosa Chloè Zhao, sconosciuta ai più finora nonostante il suo precedente lavoro, “The Rider – il sogno di un cowboy”, sia stato presentato a Cannes.
Lei è la prima asiatica, e la seconda donna in assoluto, a vincere un Oscar per la miglior regia e per il miglior film e lo ha vinto con “Nomadland”: un racconto silenzioso, intensissimo e commovente su chi ha perso il lavoro nella Grande recessione
Nata a Pechino e cresciuta tra Londra, Los Angeles e il Massachusetts, Chloè Zhao, nome d’arte di Ting Zhao, o Zhao Ting, porta in scena un mondo lontano dal dio denaro e dalle metropoli, scegliendo come simbolo di questo viaggio la straordinaria Frances McDormand, che qui è anche produttrice, l’antidiva per eccellenza. Qui è Fern, una sessantenne che ha perso il marito, e non solo, e sceglie di partire, viaggiando nel cuore d’America sul suo furgone, vivendo da nomade e portando con sé solo la vecchia giacca del marito.
Zhao, che si presenta alla premiazione con scarpe da ginnastica e trecce, dà il ruolo, non a caso, a McDormand interprete di storie atipiche proprio come lei, narratrici di donne di rottura e per questo vince il suo terzo premio, dopo “Fargo” e “Tre manifesti” per la miglior interpretazione femminile. Le due sembrano metà complementari di un percorso comune di ricerca di una identità profonda e unica che va al di là di ogni tipo di stilema e cliché.
Gli altri Oscar al femminile
Non sono però le uniche perché è una valanga di premi al femminile, tra cui molte collaborazioni miste, e tra tutte c’è Emeral Fennell, regista, autrice e, insieme a Margot Robbie, produttrice di “Una donna promettente”, viene premiata per la miglior sceneggiatura originale.
Si racconta il qui e ora con un’opera tagliente, scioccante, una sorta di “rape and revenge” moderno: una pietra miliare per le “scritture” future, stimolando una riflessione sulla cultura dello stupro
Fennell con la sua protagonista Carey Mulligan portano avanti un progetto potente che mette in campo tutti i pregiudizi sistemici che ruotano intorno alla donna, al suo corpo, a ciò che può e non può fare per una società giudicante. Cassandra, la protagonista, potrebbe essere una “promettente” – studiava medicina – ma a causa di un dramma lascia l’università e organizza una punizione “chirurgica” nei confronti di tutti gli uomini: si finge ubriaca per essere adescata proprio in quanto priva di controllo e a questo punto mette in atto la vendetta. Una storia che in un’epoca come questa rappresenta la forza, il coraggio, il femminismo e la ribellione tanto da essere divisiva, ma è proprio questa la forza di un “testo” rosa, carino ma estremamente cinico, che solo una donna consapevole delle ferite sue e delle altre donne, può scrivere.
Una premiazione come questa, lontana da legacci sessisti, machisti, scevra da miti della minoranza e della sudditanza, in cui primeggiano donne con un pensiero, una storia, un’identità fa da spartiacque. Non si può tornare indietro. Questa premiazione è un grande passo non solo per tutte quelle registe, produttrici, sceneggiatrici, attrici con un mondo da raccontare ma anche per le spettatrici che in quei luoghi di celluloide si trovano e troveranno motivazioni per compiere le loro piccole e grandi rivoluzioni.