La nostra società ha un serio problema di accettazione di vecchiaia, malattia e morte. La vecchiaia va combattuta e ostacolata con grande decisione, a partire dalla definizione “anti age” dei cosmetici rivolti a consumatrici e consumatori senior. È una contraddizione in termini, perché il cosmetico ha la funzione di esaltare le caratteristiche sane di pelle, tessuti, capelli, unghie. La definizione corretta dovrebbe quindi essere “pro-age”, così come ci sono prodotti “per” pelli sensibili o grasse ecc. Altri che riportano termini come protezione, equilibrio, oppure anti-inquinamento.
l’età come l’inquinamento: un nemico esterno che dobbiamo combattere. Ma la mia età è la mia storia, sono io, perché dovrei ostacolarla?
Vecchiaia e malattia
La malattia, specie se grave, non è permessa, è segno di debolezza e cedimento. Esiste una implicita colpevolizzazione di chi ammala: ha mancato in prevenzione, ha scelto uno stile di vita insano, non ha riconosciuto in tempo le avvisaglie. Di alcune malattie viene negata l’esistenza: sono quelle i cui sintomi non sono visibili all’esterno, come endometriosi e fibromialgia, ad esempio. In questi casi i commenti saranno che basta non lamentarsi, che la volontà di stare bene è più forte di ogni cosa, insomma le varie rivisitazioni moderne del concetto di isteria, una delle giustificazioni meglio riuscite in epoca contemporanea per misoginia e maschilismo.
Vecchiaia e malattia sono porte aperte per la morte, espressione della vita che ha sempre atterrito l’essere umano. I primitivi consideravano la morte contagiosa, quindi un pericolo sociale, e l’attribuivano sempre ad una causa violenta esterna alla persona deceduta. Werner Fuchs in “Le immagini della morte nella società moderna” parte appunto dallo studio di rituali e credenze arcaiche per arrivare a quelle attuali, dove il prolungamento della vita media ha di fatto allungato un periodo, la vecchiaia, in cui l’uscita dal mondo produttivo priva le persone della dimensione sociale, della loro visibilità, aumentando i ricoveri in case per anziani dall’impostazione sanitaria e non relazionale. Dunque la vecchiaia viene medicalizzata, considerandola alla stregua di una malattia.
Su morte e malattia lascia il segno una società incapace di accettarle come parte integrante della vita anche nella scelta del linguaggio: difficilmente si dice che una persona è morta. Preferiamo suggerire che non ci sia più, sia passata a miglior vita, trapassata, volata in cielo, sia mancata all’affetto dei suoi cari. Anche gli animali d’affezione vanno su un misterioso ponte o nell’arcobaleno. La malattia che non riusciamo a sconfiggere, il cancro, è un brutto male, una lunga malattia, il nemico invisibile.
La guerriera contro i mali quotidiani
Ed ecco tornare la guerriera: quella che combatterà senza tregua per sconfiggere i nemici della società, malattia, vecchiaia o morte. La guerriera sarà impavida, non si lamenterà e non avrà cedimenti. Al massimo soffrirà in silenzio, nascondendo le lacrime. Perché? Perché fornire scuse all’incapacità della nostra collettività di occuparsi della vulnerabilità?
Chi sta male ha diritto di riconoscere in sé ed esprimere paura, sofferenza, disperazione, senso di impotenza
Non solo, ognunə reagisce in base alle proprie caratteristiche e alla propria storia. Sicuramente è un esempio incoraggiante chi trova la forza di reagire, ma chi non riesce o non può indossare l’armatura da super eroina non può subire anche il senso di inadeguatezza verso le aspettative sociali che sono, in fondo, che se la cavi da sé.
Il tranello del multitasking
È un po’ come il maschilismo benevolo di chi sostiene che le donne – anzi! – sono migliori degli uomini, perché sono più brave in tutto e sanno fare tante cose contemporaneamente. Non sarà che a loro viene chiesto di ricoprire più ruoli, che ce lo si aspetta?
La divisione tradizionale dei ruoli prevede che una donna lavoratrice oltre a coltivare le competenze nel suo lavoro, sia capace di occuparsi dei lavori di cura, che sono diversificati, e che attingono a competenze diverse tra loro
C’è infatti chi teorizza che “la maternità sia un master”, concetto condivisibile ma pericoloso se alimenta quel benevolo “le donne hanno una marcia in più”. Non dobbiamo avere marce in più, se non altro perché non siamo automobili, non dobbiamo saper mascherare la sofferenza, non dobbiamo essere più forti, più capaci, più coraggiose. Rivendichiamo il diritto di essere così come siamo nel momento che viviamo. Critichiamo giustamente lo stereotipo dell’uomo che non deve chiedere mai, perché dobbiamo diventare donne che non cedono mai? Abbiamo già dei modelli in questo senso, e sono da rifiutare.
Maria Goretti vs Rosanna Benzi
La cultura italiana ci ha insegnato che un modello esemplare è Maria Goretti, che oggi definiremmo vittima di femminicidio. Esempio di castità per la chiesa, di coraggio e determinazione per Enrico Berlinguer, offerto come icona alle giovani cattoliche e alle giovani militanti comuniste.
Si trattò di un caso di pedofilia, di un tentativo di stupro e di un femminicidio premeditato. Maria Goretti è stata santificata. Un’altra donna importante, Rosanna Benzi, avrebbe davvero potuto essere considerata un modello. La sua vita trascorsa all’interno di un polmone d’acciaio ha sì riempito le cronache degli anni ’70, ma guarda caso su tutto calò la sordina quando raccontò di non aver rinunciato alla sua vita sessuale, pur resa complicata dalla simbiosi col macchinario che la teneva in vita. Rosanna Benzi oggi l’avremmo definita guerriera? Credo di sì, ed è sicuramente un modello positivo: pur vivendo immobile, guardando la vita riflessa in uno specchio, ha pubblicato libri, fondato una rivista, lanciato campagne a favore della disabilità, condotto inchieste, fatto attività politica. Un esempio di resilienza.
Il tranello della resilienza
Ci risiamo. Un altro termine di tendenza che mi fa squillare un campanello d’allarme. La resilienza è la più recente parola d’ordine nella formazione e nel coaching. Indica la capacità di affrontare e superare traumi e difficoltà. Nelle intenzioni indica una capacità migliore del resistere, perché vorrebbe dire che non solo non ci facciamo abbattere dalle avversità, ma anzi le trasformiamo a nostro favore.
Una volta mi è stato commissionato un corso sulla resilienza a persone in cassa integrazione che sarebbero poi entrate in mobilità
C’era chi aveva lavorato nella stessa ditta 25, 30 anni; chi aveva un’invalidità; persone con bassissima scolarizzazione e scarso accesso alla cultura e alle informazioni. Portarle a considerare il grave problema che le affliggeva e minacciava la loro vita come qualcosa che dovevano essere capaci di trasformare e ridefinire in positivo dal punto di vista psicologico era senz’altro utile, ma c’è un’altra visuale dalla quale considerare la cosa: quella che riporta un problema individuale ad una dimensione collettiva. È su questo che si basa il nostro vivere in società e non isolati. Il senso stesso della società è la dimensione collettiva, la condivisione, la collaborazione, la contribuzione.
Il significato originale di resilienza indica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Non siamo solo materiali, gli urti della vita a volte spezzano, non per questo valiamo di meno, non per questo la società può considerarsi esentata dall’accogliere e sostenere le persone in difficoltà
Cosa resta una volta scardinato lo stereotipo
Dobbiamo recuperare, in tutto ciò che ci succede nella vita di positivo o negativo, la fase essenziale dell’introspezione, del tacere, del silenzio. “Ozio e negozio”, dicevamo quando eravamo più saggə. L’ozio non è il padre dei vizi – una volta tanto non si accusano le madri – ma il fondamentale momento dell’elaborazione. La società dei consumi, della performance, della comunicazione, della velocità ci spinge invece ad una sorta di bulimia delle relazioni: moltissime e superficiali, a fronte di una solitudine emotiva e psicologica. La sofferenza è un’occasione di approfondimento dei legami, di pesatura delle parole, di riscoperta dell’essenziale, specialmente quando non si tratta della propria sofferenza ma di quella di chi incontriamo. Chi invece soffre in prima persona dovrebbe poter scegliere liberamente di impegnarsi in una lotta o di abbandonarsi ad un abbraccio consolatorio.