La dura prigione come metafora della vera condizione femminile

Perché la serie "Orange Is the New Black" disegna i reali rapporti di forza tra uomini e donne nella società

Eleonora Degrassi
Eleonora Degrassi
Critica cinematografica e televisiva, esperta di genere nell’immaginario visuale



“Sorvegliare e punire”, s’intitola così uno dei testi più importanti di Michel Foucault, e non ci sono altri due infiniti più sensati per descrivere la condizione a cui sono costrette le detenute di Litchfield, le protagoniste della serie “Orange is the New Black” (2013-2019), composta da sette stagioni, ideata da Jenji Kohan e tratta dalle memorie di Piper Kerman (“Orange Is the New Black: My New Year in a Women’s Prison”, 2010). Perché Piper, protagonista della serie, e le altre sue compagne di prigione vengono appunto sorvegliate e punite dai loro carcerieri in queste quattro mura. Appare evidente fin da subito che

Orange non è soltanto un racconto di prigione, un dramedy che rappresenta la comunità carceraria, fragile, instabile, perché è anche e soprattutto una narrazione al femminile fatta da donne

E tutto sta proprio in quel titolo foucaultiano attraverso cui si comprende la natura metaforica del testo seriale. Le detenute sono donne normali e la loro esistenza, mettendo tra parentesi le tute arancioni e i reati commessi, diventa metafora della vita di ciascuna di noi, delle storture, delle gioie, dei drammi e delle violenze subite.

Sembra quasi paradossale, eppure ciò che avviene dentro, in carcere, ha le stesse funzioni, vive degli stessi sistemi del fuori. Le carcerate sono oggettivizzate in quanto organi sessuali (“fighette” o “fighe”, come vengono chiamate in continuazione), desiderate non in quanto donne ma in quanto “pura fica”: concetto che ricorda al maschio che lui è tale. Le donne devono accettare le regole imposte, subire ogni tipo di prevaricazione, farsi toccare per le perquisizioni. Anche quelle che ricoprono ruoli di “potere” omologhi agli uomini non sono esenti da uno stato d’inferiorità, sono meno considerate dai colleghi come se su di loro pendesse una maledizione a cui non riescono a sottrarsi e quando hanno ruolo di superiore gli uomini lo patiscono, diventando insicuri.

È interessante analizzare il linguaggio che gli uomini usano e con cui dimostrano la loro superiorità, i loro pieni poteri rispetto al Secondo Sesso, prendendo in prestito Simone de Beavoir. “Stai qui, ferma e zitta”, dice l’agente Coates a Pennsatucky mentre la violenta convinto di fare ciò che anche lei desidera tanto da continuare la frase dicendo: “era questo che volevi”.

Qui gli uomini credono di avere a che fare con donne sempre “affamate”, desideranti, e di poter fare loro ciò che ritengono la norma: l’uomo diventa cacciatore e la donna l’inevitabile preda

Coates e Pennsatucky rappresentano uno schema ben preciso: lui, il cacciatore che prende la donna intesa come territorio da possedere, che vive un problema della virilità umiliata (l’uomo era stato appena ripreso dal suo capo per un ritardo) e quindi una distorta concezione di desiderio; lei tutte le donne violate che scusano il carnefice pensando di meritarsi lo stupro (“Quello che ci succede ce lo meritiamo”).

Tute, restrizioni, regole acquistano il valore di accessori di una storia più grande: si “discorsivizzano” le paure, le tensioni, i soprusi subiti dalle donne di ogni epoca, colore, religione, età. “Orange is the New Black” è teoria della femminilità, studio dell’essere donna attraverso la storia, in parte di Piper, ma soprattutto delle altre detenute, che lungo il corso delle sette stagioni, prendono il sopravvento sulla bionda protagonista, diventando magma silenzioso e arrabbiato, vivo e vitale di una mistica complessa e affascinante che va dall’analisi del rapporto con se stesse a quello con l’altro sesso, un maschio spesso nemico, carceriere appunto, inetto, codardo e ninfomane, fino ad arrivare a quello con la società e quindi con il mondo. Healy (con Piper e Red), Pornobaffo (con Daya), Bennet (con Daya) desiderano, inseminano, molestano le detenute rendendole fantocci privi di identità.

“Le donne non si ribellano” dice a una collega e compagna, un poliziotto in uno degli episodi della quarta stagione e fin da questa citazione si può ben comprendere quale sia l’opinione che il maschio ha della donna. È una questione di potere dunque che gli uomini hanno e usano per colpire chi li sminuisce, sfida, mette da parte, irride: si sentono colpiti non tanto per ciò che viene fatto loro ma perché quelle donne li svirilizzano; è quindi uno scontro fra generi, l’uno che dovrebbe essere incube e l’altro che dovrebbe essere succube. A ogni gesto femminile giudicato dal maschio fuori dalla regola corrisponde una perquisizione umiliante e denigratoria, un discorso paternalistico e sessista, una prevaricazione fisica fino ad arrivare alle violenze.

Orange mette in scena una rappresentazione della storia del femminismo, delle sue lotte, delle rinnovate consapevolezze e della scoperta della propria importanza e individualità

Un racconto di emancipazione attraverso le stazioni necessarie di una laica via crucis. Prima c’è il silenzio, il mantenimento del cosiddetto status quo perché alle donne è stato insegnato ad abbassare la testa e accettare, poi c’è la comprensione di ciò che non va e la percezione di qualcosa che brucia sotto la cenere (“Io mi rifiuto di essere invisibile”, “Voglio guadagnarmi dei soldi miei”), ed ecco la rivolta che viene sedata con la forza e stigmatizzata mettendo doppi legacci alle ribelli, per finire in una maturazione interiore e politico/sociale che rende le donne più capaci di rispondere al maschio.

È proprio durante gli scontri, le umiliazioni più aberranti e più violente che si crea quella sorellanza che è propria del movimento femminista, è proprio l’unione delle donne che nonostante le differenze sociale, razziali, generazionali fanno fronte comune e si fanno scudo l’una dell’altra. Poco importa se Red è russa e Piper americana, poco importa se Morello è italo-americana e Nicky una ricca figlia della Grande Mela: sono tutte anime di un unico Noi, solidale, che sa, prova/ha provato le stesse cose almeno una volta e proprio per questo ciascuna è pronta ad accogliere, sostenere, appoggiare l’altra.

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