Attacco? No, siamo già in piena guerra, e se il campo di battaglia è sul corpo delle donne non si può pretendere che la risposta, la difesa, sia sempre una reazione bi-partisan, perché se la guerra è sul mio corpo non puoi pretendere che stia lì a guardare che mi sbrani pezzo dopo pezzo. Di cosa parliamo? Della legge di Stato che regola l’interruzione di gravidanza, la legge 194, approvata in Italia con referendum popolare, e che ci siamo stufate di dover difendere ogni giorno.
Un diritto è un diritto, e chi opera sui diritti ha il dovere di rispettarli. E invece no, è sempre una lotta. Solo pochi mesi fa la Consulta ha respinto il ricorso per incostituzionalità sulla legge 194 da parte di un giudice tutelare di Spoleto che aveva respinto la richiesta di interrompere volontariamente la gravidanza di una giovane di 17 anni; mentre il giudice tutelare Cocilovo, attaccato pesantemente nel 2007 per il suo operato congruente con la legge 194 da un articolo scritto su “Libero” da Renato Farina (alias Dryfus), è tornato alla ribalta oggi per la condanna per omissione di controllo del direttore di quel giornale che all’epoca era Alessandro Sallusti. Un caso che adesso si concentra più sulla condanna di Sallusti che non sul contenuto stesso dell’articolo scritto da Farina e pubblicato dall’ex direttore.
Fortunatamente la rete nazionale delle giornaliste (GiULiA) ha preso posizione prendendo le distanze da quel “Siamo tutti Sallusti” pronunciato dalla Federazione nazionale stampa italiana (FNSI) all’indomani della sentenza, presentando anche un esposto all’Ordine della Lombardia contro l’ex direttore Sallusti. Ma chi, tra tutti quelli che si sono pronunciati sul caso, all’indomani della condanna di Sallusti si è preoccupato di andare a vedere cosa c’era scritto in quell’articolo? Molta informazione, tra l’FNSI, si sono resi subito disponibili a chiedere la Grazia per Sallusti al Presidente della Repubblica Napolitano, senza però condannare pubblicamente il contenuto dell’articolo, un atto che forse sarebbe stato necessario per prendere le dovute distanze da frasi come: “se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice. Quattro adulti contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (l’altra, in realtà) costretto alla follia”.
Un articolo in cui si chiedeva la pena di morte per chi aveva applicato la legge in nome di una crociata antiabortista
consumata sulla pelle di una ragazzina di 13 anni che, accompagnata dalla madre, ha osato interrompere la gravidanza così come la legge 194 prevede. Oggi a Napoli la stampa locale ha pubblicato la notizia di una donna picchiata da un radiologo che si era improvvisato anestetista durante l’intervento per una interruzione di gravidanza il 22 dicembre 2011 e che, avendo sbagliato dose, si è ritrovato la signora “alterata” e non sapendo come fare l’ha aggredita fisicamente. Come riportato da “Campania sul web”: “Dopo aver sedato la paziente senza attendere l’arrivo dell’anestesista, il medico (…), non si rende conto di aver sbagliato farmaco e dosi. La donna, invece che addormentarsi, ha cominciato ad agitarsi e urlare. Il medico, dal canto suo, ha pensato bene di prendere a schiaffi la paziente, afferrarla, stringerle i polsi, metterle le mani al collo minacciandola, dicendole che se non si calma suo figlio resterà orfano. Dopodiché la insulta, chiamandola stronza e tossicodipendente. In conseguenza di tutto ciò la donna riporta la rottura della vena brachiale destra, che era stata incannulata in precedenza.
La vicenda termina solo quando un collega dell’ospedale, accorso per le grida della donna, ferma il medico apostrofandolo: hai rotto! Che modi sono questi?”. La ricostruzione effettuata sulla base degli elementi raccolti dagli inquirenti, ha portato il gip Maurizio Conte a sospendere il medico dalla professione per due mesi, ma la cosa ancora più grave è che in sede processuale il medico in questione ha sostenuto che “non avendo la paziente reagito all’anestetico oppiaceo somministratole – si legge ancora su “Campania su web” – ha pensato che ne fosse assuefatta, e quindi tossicodipendente. Un motivo valido, secondo l’indagato, per aggredire verbalmente e fisicamente una donna”.
Come si può avallare una informazione che non considera “abbastanza importante” quello che continua a consumarsi sul corpo delle donne?
e non parlo solo di 194, ma anche di violenza, di femmincidio, delle morti di mogli, fidanzate, ex partner, trattate sui giornali come fossero protagoniste di un action movie o romanzetti d’appendice? In Italia da tempo le Regioni amministrate dalle destre cercano di guadagnare terreno svuotando la legge sull’interruzione di gravidanza. In Lombardia la Giunta di Formigoni ha finanziato il Fondo Nasko che dà alle donne che rinunciano all’aborto un contributo di 250 euro al mese per un anno e mezzo; in Liguria il Consiglio regionale ha cercacto di copiare il modello lombardo, e lo stesso è successo in Piemonte. A Firenze e a Roma si parla ancora del cimitero per feti, a Desio (Monza), il parroco ha benedetto “i resti di bimbi mai nati, lasciati all’ospedale da mamme mancate”. Fino a pochi mesi fa la ormai famosa consigliera regionale Olimpia Tarzia, nel Lazio ha cercato in tutti i modi di spazzare via i consultori cercando di sostituirli con centri per la difesa della famiglia e con partecipazione di organizzazioni private, tentativo bloccato con fatica (ma i giornali non ne parlano di queste vittorie) dall’Assemblea Permanente delle associazioni contro la legge Tarzia.
In Veneto il Pdl (che ha avuto i voti favorevoli di Lega Nord e Unione di centro) ha presentato quest’estate una proposta per regolamentare per l’informazione sull’interruzione di gravidanza mettendo in evidenza l’informazione che cerca di “dissuadere la donna ad abortire” e in maniera specifica proponendo “informazione e forme d’aiuto alternative all’aborto, in sintonia con i dettami della legge stessa, legge che prevede ogni tentativo di dissuasione alla pratica d’interruzione volontaria della gravidanza”, una informazione che avrebbe dovuto essere concessa “nei consultori familiari, nei reparti di ginecologia e ostetricia, nelle sale d’aspetto e atri degli ospedali”.
Una proposta a cui la Giunta veneta – con la soddisfazione della consigliera regionale Laura Puppato (oggi candidata alle primarie del Pd) che aveva sottolineato in una sua dichiarazione all’Ansa, come su questa modifica fosse giustamente “stato battuto l’oscurantismo che questa proposta portava con sé”, in quanto “il tema vero che la Regione deve affrontare è occuparsi dell’origine e delle cause primarie che portano ancora oggi molte, troppe donne, a dover scegliere la via dell’aborto piuttosto che la nascita di una nuova vita” – ha sostituito con l’approvazione di un testo in cui “La Regione del Veneto promuove e garantisce nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie e nei consultori la diffusione e la divulgazione dell’informazione sui diritti dei cittadini con riferimento alle questioni etiche e della vita, riconoscendo a tutte le associazioni, di cui al comma 2, pari opportunità di comunicazione”, e in cui per quanto rigurda le associazioni, la Giunta provvederà a individuarne “con regolamento le modalità di diffusione e di divulgazione da parte delle associazioni di volontariato, iscritte nell’albo regionale o riconosciute a livello nazionale”.
Cioè una normativa che sicuramente salva le venete dalla proposta del Movimento della vita (quella presentata dal Pdl) ma che per certi aspetti rimane poco chiara: quali sono queste associazioni? cosa c’entra la “divulgazione dell’informazione sui diritti dei cittadini con riferimento alle questioni etiche e della vita” con una donna che sceglie di interrompere una gravidanza?
In Texas i dottori devono fare un’ecografia prima di interrompere la gravidanza e se la paziente si rifiuta di guardare le immagini, il medico deve “informare” la paziente di ciò che vede, mentre in New Hampshire una legge prevede che i medici distribuiscano 24 ore prima dell’interruzione di gravidanza “materiale informativo”, peccato che in questo materiale si metta in relazione l’aborto con il cancro al seno.