#STOPVIOLENZA Per i giudici la violenza dell’uomo non esiste: la colpa è sempre della madre

Dopo il femminicidio di Giulia Tramontano incinta di 7 mesi, molti si chiedono come sarebbe andata se Impagnatiello non l'avesse uccisa. Basta affacciarsi nei tribunali per capire che sarebbe stato un calvario per lei e il bambino: il caso di una donna che ha lasciato l'ex maltrattante tenendosi la bambina e che è stata poi rivittimizzata in tre gradi di giudizio

Stopviolenza
Stopviolenza
è una task force della società civile con lo scopo di monitorare la piena applicazione della Convenzione di Istanbul nelle istituzioni per il contrasto alla violenza maschile sulle donne, alla violenza subita e/o assistita su persone di minore età e alla vittimizzazione secondaria di tali soggetti nei Tribunali e nell'ambito istituzionale.



In molti si sono chiesti cosa sarebbe successo se Giulia Tramontano incinta di 7 mesi non fosse stata uccisa dall’ex Alessandro Impagnatiello, alcuni addirittura si sono azzardati a sostenere che forse la donna ha qualche responsabilità, dato che lo voleva lasciare e dato che aveva avvertito l’uomo dicendogli: “Addio, non vedrai Thiago”.

Giulia Tramontano a Ibiza

Ebbene basta affacciarsi nei tribunali e vedere le tante, troppe storie di donne rivittimizzate che pur denunciando i maltrattamenti fisici e/o psicologici subiti, non sono credute e anzi punite da quegli stessi giudici che dovrebbero proteggerle. E per Giulia non sarebbe stato diverso: se lei fosse fuggita come tanti hanno detto (“lei doveva accorgersi del pericolo e scappare”), se lo avesse lasciato tornando dai suoi e quindi salvandosi da una morte che oggi appare certa sparendo dalla circolazione con il bambino senza neanche farglielo riconoscere, e se il padre avesse deciso di fare ricorso per riconoscere il figlio e tenerlo con sé, il suo destino sarebbe stato segnato e il bimbo sarebbe diventato un’arma di ricatto per continuare a perseguitare la donna. Sì perché la cosa più inquietante è che i maltrattamenti psicologici di lui non sarebbero stati riconosciuti (non vengono riconosciuti neanche adesso che l’ha uccisa perché lui è solo un “narcisista bugiardo” che ha ucciso senza premeditazione) e il bimbo sarebbe stato un gancio dell’uomo per continuare a perseguitare la donna con l’ausilio di quelle stesse istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla.

Cos’è la task force #STOPVIOLENZA

La task force #STOPVIOLENZA è una rete della società civile con lo scopo di monitorare l’operato dei tribunali e del governo per il contrasto reale alla violenza maschile sulle donne, alla violenza subita e/o assistita su persone di minore età e alla vittimizzazione secondaria di tali soggetti nei Tribunali, sulla base della piena applicazione della Convenzione di Istanbul e delle raccomandazioni della Commissione d’inchiesta sul femminicidio al Senato XVIII legislatura.

Le esperte e gli esperti della task force prendono in esame, volta per volta, sentenze pubbliche di tribunali sul territorio nazionale in cui si rintracciano gravi violazioni in materia di diritti umani volti a rivittimizzare donne e bambini/e

Violazioni che si riferiscono a iter giudiziari che si concludono spesso con sentenze che rivittimizzano queste donne, già vittime di violenza domestica, e i loro figli minori vittime di violenza assistita o subita (sessuale, fisica e/o psicologica). Oggi andiamo ad analizzare le sentenze che riguardano i tre gradi di giudizio sul caso di una donna che rimasta incinta ha tenuto la bambina malgrado l’ex maltrattante la intimasse di non farlo. Dopo che la minore è nata l’uomo si è ripresentato non solo per riconoscerla ma anche per imporre la sua volontà perseguitando la donna.

In 10 punti: che cosa andiamo a cercare nelle sentenze

1 – Uso spropositato di stereotipi e pregiudizi da parte dei tribunali coinvolti.

2 – Principio della bigenitorialità come primario e inderogabile anche rispetto a un padre presunto per il quale non è stata effettuata alcuna prova biologica di paternità.

3 – Mancanza di istruttoria.

4 – Mancato ascolto della minore dal giudice connesso alla mancata istruttoria.

5 – Negazione della violenza sulla donna riferite e documentate anche dal centro antiviolenza.

6 – Nessuna presa in considerazione delle allegazioni di violenza intrafamiliare nella relazione intima ripetutamente presentate ai giudici.

7 – Mancanza di visualizzazione come possibili vittime di violenza domestica della donna e della minore.

8 – Valutazione diagnostica del CTU (Consulenza tecnica d’ufficio) priva di criteri scientifici in cui la madre viene stigmatizzata come ostacolante e fusionale mentre la violenza domestica viene derubricata a conflitto di coppia.

9 – Vittimizzazione secondaria nei confronti della donna punita anche a pagare le spese processuali dato che il suo caso è stato oggetto di inchiesta da parte della Commissione d’inchiesta sul femminicidio al Senato come altri e ha avuto eco sui media.

10 – Il giudizio nei due gradi si fonda su un’unica prova: la consulenza tecnica d’ufficio da cui è esclusa in via metodologica l’esame/accertamento dei fatti.

Il caso

La donna inizia una relazione con l’uomo da subito lui ha un atteggiamento prevaricatore, geloso e controllante nei confronti di lei. Il rapporto procede con una convivenza non stabile. Dopo una serie di vicende che deteriorano gravemente il rapporto tra i due, dovute a modalità comportamentali e relazionali di lui improntate a controllo e isolamento della partner, la relazione si interrompe per poi riprendere circa due anni dopo finché la donna scopre di essere incinta: una notizia che sconvolge l’uomo che non vuole assolutamente diventare padre e insiste affinché lei abortisca.

La donna riceve diverse email in cui lui le chiede di non condannarlo a una paternità non voluta

La signora decide con un atto unilaterale di portare avanti la gravidanza, ma durante un appuntamento chiarificatore avvenuto a casa di lui, l’uomo sbarra la porta d’ingresso trattenendola contro la sua volontà nell’appartamento di lui. Non solo le impedisce di uscire da quella casa ma le impone la sua volontà di volerla accompagnare in ospedale per farla abortire. Davanti al netto rifiuto di lei che passa la notte a dormire sul divano vicino la porta di casa, la signora riesce a fuggire in un momento di distrazione dell’ex, e scappa con la paura che possa succedere il peggio e per evitare di subire altre pressioni e minacce allo scopo di indurla ad abortire.

La donna porta avanti la gravidanza da sola, la bambina nasce e l’uomo non la riconosce. Dal momento della nascita della figlia, l’uomo sparisce totalmente fino a quando si fa vivo prima con sms e poi con una email in cui rappresenta alla madre le sue richieste di riconoscimento della bambina tra cui la prova del DNA, ma soprattutto il cambiamento del nome di battesimo della minore nonché l’anteposizione del suo cognome a quello della madre e altre imposizioni sul regime educativo della minore stessa.

L’iter giudiziario

A un certo punto l’uomo presenta un ricorso ex art. 250 IV comma C. C. dinanzi al Tribunale Ordinario di Venezia da cui si apre un iter giudiziario ancora in corso: con una madre che all’atto della nascita della bambina è diventata genitore legale avendola riconosciuta e che ha cresciuto da sola la minore fino a qual momento instaurando con lei il legame genitoriale, mentre il presunto padre non è stato mai validato in nessun né dal punto di vista legale, né psicologico-affettivo.

Si instaura così un procedimento che non terrà mai conto dell’accertamento biologico della paternità ma che procede con una delega all’istruttoria a due CTU, di cui una prima sarà annullata per mancato rispetto del contraddittorio, mentre la seconda CTU sarà portata a termine con un quesito che interroga il consulente sulle capacità genitoriali di entrambi, della madre accertata e del presunto padre, finalizzato a stabilire le regole dell’affido, ponendo padre e madre su un piano di parità. L’accertamento delle competenze genitoriali di un padre non confermato come tale da una prova biologica pur richiesta, costituisce il primo grave vulnus di questo procedimento in cui abbiamo rintracciato la presenza di notevoli stereotipi e pregiudizi contro la madre, unico genitore accertato e competente.

Le sentenze *

Sulla base dei criteri esposti sopra, la task force #STOPVIOLENZA ha preso in esame:

  • la Sentenza emessa dal TRIBUNALE ORDINARIO DI VENEZIA SECONDA SEZIONE CIVILE composta dai seguenti Magistrati: dott. Roberto Simone, Presidente – dott. Carlo Azzolini, Giudice – dott. Giovanni Francesco Perilongo, Giudice relatore est.;

e in ordine successivo:

  • la Sentenza successiva emessa dalla CORTE D’APPELLO DI VENEZIA SEZIONE TERZA CIVILE, composta dai seguenti Magistrati: Dott.ssa Marina Cicognani, Presidente – Dott. Massimo Coltro, Cons. relatore – Dott. Gianluca Bordon, Consigliere;
  • l’ORDINANZA emessa dalla CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: dott. Francesco Antonio Genovese, Presidente – Giulia Iofrida, Consigliera – Loredana Nazzicone, Consigliera relatrice – Massimo Faloabella, Consigliere – Maura Caprioli, Consigliere.

Dopo attento esame la task force #STOPVIOLENZA ha rintracciato in esse gravi criticità in materia di violazione di diritti e vittimizzazione secondaria di donne e minori relativamente ai seguenti fatti. Nello specifico la task force ravvisa le seguenti criticità.

SENTENZA TRIBUNALE ORDINARIO

Premessa

I fatti come presentati dal tribunale: “Con ricorso proposto il signor (…) ha convenuto in Giudizio la signora (…) al fine di veder riconosciuta a norma dell’art. 250 co. 4 c.c. la paternità della minore. (…)  Il signore ha pertanto chiesto che il Tribunale riconosca la paternità sulla minore, con sentenza che tenga luogo del consenso mancante, ed assuma le conseguenti statuizioni in ordine all’affidamento, alla collocazione ed al concorso al mantenimento della minore. (…)  La resistente ha negato di aver mai manifestato l’intenzione di abortire, ancorché il signore l’avesse scongiurata in tal senso, ed ha lamentato il totale disinteresse di quest’ultimo per l’andamento della gravidanza. Dopo la nascita della minore, il sig. aveva mostrato un atteggiamento prepotente e aggressivo (…)”.

“La resistente ha pertanto chiesto il rigetto del riconoscimento, in quanto contrario all’interesse della minore, stante il comportamento violento e ossessivo dell’uomo”

In diritto: “Il diritto del genitore al riconoscimento del figlio non si pone in rapporto di contrapposizione con l’interesse del minore, ma anzi concorre a definirlo, in quanto incide sul diritto del figlio ad una piena genitorialità, sia in relazione alla propria identità personale, sia in relazione al fondamentale apporto alla crescita psicofisica derivante della presenza dei genitori (Cass. Civ., Sez. I, 14/02/2019 – ud. 28/01/2019, n. 4526; Tribunale di Monza, 18/12/2019, n. 2787). E in tale ottica dev’essere letto l’art. 250 c.c. ove statuisce, per un verso, che “il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento” e, per altro verso, che “il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio”.

Stereotipi e pregiudizi

Il tema decidendi quindi nella causa è l’interesse della figlia a essere riconosciuta dal padre a partire però dalla pretermissione di un dato di fatto che non ha avuto alcuno spazio nella causa: è il padre biologico colui che ha avanzato la richiesta del riconoscimento? La madre afferma di non esserne certa e ha chiesto la prova del DNA, dopo che la stessa richiesta era stata inizialmente posta anche dal padre, per poi scomparire dalla scena giudiziale. Allora su quale base è stata condotta la causa? Questa domanda è rimasta assolutamente sospesa e senza risposta nel primo grado e nei successivi gradi di giudizio (Appello e Cassazione).

Ciò che emerge in questa causa è l’incombere su di essa di un grave pregiudizio e stereotipo: l’interesse di un minore è avere un padre comunque, anche senza accertamento del rapporto biologico di filiazione

Ciò costituisce anche una discriminazione della figura genitoriale materna giudicata di serie B e di valore inferiore alla figura genitoriale paterna: la madre in se stessa, indipendentemente dalle sue capacità genitoriali è comunque considerata insufficiente alla crescita come monogenitore, per cui necessita di essere sempre accompagnata dall’altro genitore nonostante non ne sia stata accertata la paternità biologica né quella psicologica (senza contare che la donna ha avanzato allegazioni di violenza domestica).

Prima di entrare nello specifico ribadiamo il concetto che un giudizio di paternità per sentenza senza la base di un accertamento biologico costituisce un grave vulnus per la tutela del minore, a ciò si aggiunge il danno che proviene dalla testimonianza materna riguardo l’uomo come di un ex partner comunque violento e aggressivo. Nulla della violenza è transitato nell’accertamento di fatto impropriamente delegato al CTU e quindi non transitato nella decisione del tribunale come ostacolo all’attribuzione di paternità o quanto meno ostacolo a una piena genitorialità ovvero a una frequentazione libera e paritaria della minore con il presunto padre.

Il principio della bigenitorialità come primario e inderogabile

Anche in questo caso trapela che il principio della bigenitorialità si afferma anche oltre ogni dubbio conseguente al mancato accertamento biologico di paternità. Nel corso del giudizio la CTU afferma come centrale la bigenitorialità come diritto prioritario del minore, sia dal punto di vista psicologico che normativo, e che ciascun genitore deve tenere lontano il conflitto della coppia promuovendo cooperazione e disponibilità.

Afferma la CTU, come riportato nella sentenza al par. 26: “Una maggiore presenza affettiva della figura paterna può favorire il processo di individuazione e di fisiologica costruzione identitaria nello sviluppo psico-affettivo della minore”, chiarendo come “sia nell’interesse della minore, e del suo fisiologico sviluppo psichico, un ingresso nella sua vita della figura paterna su un piano paritario con quella materna, che preveda tempi di permanenza presso i due genitori ben definiti e rispettati, anche se differenziati in funzione delle esigenze lavorative di ciascuno, ma garantiti, e non soggetti a decisioni arbitrarie dell’uno o dell’altro”. Il padre in questo caso non è rappresentato solo come figura genitoriale di cura e educazione ma anche come indefettibile presenza per garantirne il normale sviluppo fisiologico di un bambino: una determinazione che non ha alcun avallo dalla comunità scientifica, in quanto l’assenza di un padre, sempre possibile per una serie diversa di fattori, non è individuata come causa di patologia o malfunzionamento sociale.

Diversamente la comunità scientifica valuta come negativi sui minori gli effetti della violenza domestica e assistita su cui ci si sarebbe aspettati una maggiore considerazione da parte della CTU e del tribunale

In sintesi il principio della bigenitorialità deve recedere di fronte ad altri criteri di valutazione che riguardano la salute e la sicurezza del minore, soprattutto in caso di violenza della coppia madre-bambino, come prescritto dall’art. 31 della Convenzione di Istanbul, e secondo anche quanto affermato dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio al senato sulla vittimizzazione secondaria, come ribadito dalla Riforma Cartabia (capo III sez. I, D.Lgs. 149/22).

Mancanza di istruttoria da parte del giudice

Il giudice delega alla CTU di una non ben precisata istruttoria, cui si fa riferimento in ogni grado di giudizio, riportando come base del rigetto dei ricorsi della madre esclusivamente le risultanze della consulenza tecnica come prova unica ed esclusiva del diritto/competenza della genitorialità paterna.

Mancato ascolto del minore dal giudice connesso alla mancata istruttoria

Sull’intendimento del giudice di primo grado per quanto riguarda l’istruttoria affidata alla CTU, il cui operato era stato messo in discussione dalla madre da vari punti di vista, così si esprime il tribunale: “Chiarita l’ampiezza dell’attività istruttoria del CTU, prive di pregio appaiono le contestazioni di parte resistente circa il mancato ascolto della minore”.

Il CTU è chiamato in causa su ogni tipo di contestazione procedurale sollevata dalla signora e sull’ascolto della minore il tribunale lo ha ritenuto superfluo in quanto ha ritenuto sufficienti le osservazioni del CTU sulle interazioni della bambina con la madre e il presunto padre, che riportano l’interpretazione soggettiva del tecnico transitata attraverso la sua esperienza osservazionale, senza un ascolto della minore sul tipo di rapporti intrattenuti nella vita quotidiana con madre e presunto padre. Dice il tribunale: “Prive di pregio appaiono le contestazioni di parte resistente circa il mancato ascolto della minore (…) stante l’evidente immaturità affettiva e psicologica della bambina”. Immaturità della bambina, o incapacità di discernimento non rilevate invece nella specifica osservazione del CTU per il quale invece l’unico impedimento a ascoltare la minore è il rapporto fusionale con la madre.

anche se tale relazione fusionale non ha alcuna valenza patologica, in quanto, come osserva la Ctu, la bambina si è sempre riferita esclusivamente alla madre essendo stato il presunto padre assente

Di chi eventualmente la responsabilità di essere stato genitore unico? Non certo della madre che ha condotto la gravidanza contro la volontà del presunto candidato padre.

La negazione delle condotte violente

In aggiunta nessun elemento probatorio è stato raccolto dal CTU, e quindi anche dal tribunale, sulle condotte violente del presunto padre sia all’epoca della gravidanza (quando chiedeva con messaggi ritorsivi alla madre di abortire per non renderlo il più infelice degli uomini visto che aborriva l’idea di una paternità non voluta), sia dopo nelle condotte di stalking sulla madre, sia negli stessi incontri con la bambina che dava chiari segni di disagio rilevate anche dalle dichiarazioni della stessa preside della scuola frequentata dalla minore per cui la bambina piangeva disperatamente perché non voleva andare con il padre all’uscita della scuola quando lui la andava a prendere.

Un collegio che, non prendendo in considerazioni tali testimonianze, ha disposto di far proseguire, potenziandoli, gli incontri tra padre e figlia senza filtro

Afferma il tribunale, riguardo delle allegazioni di violenza: “Né infine possono assumere alcuna rilevanza, anche solo a fini probatori, le video-registrazioni di cui la signora ha chiesto a più riprese il deposito. Come si avrà modo di chiarire (infra §25), il CTU ha evidenziato la sussistenza di un improprio rapporto fusionale tra e la figlia, «che rende ragione delle difficoltà evolutive della bambina nel suo processo di separazione-individuazione, da più parti rilevato». Sono pertanto palesemente inconferenti i riferimenti alla disciplina nazionale e sovranazionale in materia di violenza sulle donne e violenza domestica”. Non sono state quindi considerate le allegazioni sulla violenza che riguardavano dirimente questione circa la salute e la sicurezza della minore, ovvero se tali condotte, al di là del valore penale, alla luce dell’accertamento condotto propriamente dal giudice costituissero un pregiudizio per l’interesse superiore del minore.

Che tale obiettivo compreso nell’accertamento giudiziario proprio del procedimento civile (capo III sez. I, D.Lgs. 149/22, art. 473- bis. 44) non sia stato perseguito risulta evidente dal fatto che la documentazione in forma di allegazione non è stata esaminata dal giudice. E se alla CTU non spetta ricostruire la verità storica dei fatti, ma solo esprimere pareri clinici sulla scorta dei dati raccolti e osservati, senza dubbio è il giudice che deve accertare i fatti su disamina attraverso i normali mezzi di prova (Cass. n. 10055/10; Cass. N. 6919/2016) e non attraverso pareri clinici basati su interpretazioni del tecnico circa l’osservazione in vitro di una relazione al di fuori degli accadimenti quotidiani.

Dobbiamo concludere che nessun accertamento è stato fatto dei fatti di violenza riferiti e documentati e che la bambina non è stata messa in sicurezza ma esposta alla possibile violenza diretta e/o assistita che deve essere presa in considerazione e accertata anche se solo ipotetica

E se il decreto di primo grado non riporta i contenuti di violenza denunciati dalla madre, è la Corte di Appello che riversa nella sua relazione i contenuti di violenza denunciati dalla madre, salvo poi, come vedremo, considerarli tutti inconferenti per la valutazione della genitorialità, dove l’unica parola che vale è solo quella del CTU che ha decretato, al di fuori dei fatti e degli accadimenti, la competenza genitoriale di un padre ancora presunto.

La madre e la bambina non assunte come vittime di violenza né credute

Altro aspetto da rilevare è che il racconto dettagliato e approfondito della storia della relazione da parte della madre rispetto al racconto generico e non puntuale dell’ex-partner, non riesce a essere considerato affidabile anche se non vengono mai mossi rilievi alla madre sulla non veridicità delle sue accuse da parte del tribunale. Non viene spiegato in sentenza perché una donna, integrata socialmente, con un lavoro, che non presenta devianze psichiche né mai le ha presentate, dovrebbe mentire su se stessa e la figlia.

Il motivo implicito nell’accusa di essere “fusionale” è un pregiudizio frutto di un costrutto ascientifico come l’aLIENAZIONE PARENTALE PER PUNIRE LA MADRE CHE DENUNCIA

La madre è il primo genitore di tutela, in quasi tutte le situazioni e soprattutto nei primi anni di vita di un bambino per fattori insieme biologici e psicologici. Le sue affermazioni sul malessere della bambina al rientro dalle visite al padre, non possono essere considerate prive di fondamento senza che su questo ci si pronunci ovvero si valuti un profilo della madre di inattendibilità. La risposta del consulente rinvia ad aspetti di inosservanza del codice deontologico che prevede che se nell’ascolto, a qualsiasi titolo, di un minore, emergano comportamenti subiti di maltrattamento, anche solo riferiti dallo stesso minore, i fatti vanno sottoposti all’AG che decide della loro rilevanza penale. Nella risposta il CTU afferma che non essendo i consulenti del civile abilitati all’ascolto del minore rispetto a fatti-reato, in quanto di esclusivo interesse del penale, se emergono fatti di questo genere, vanno solo espunti dal contesto, ritenendo, come in questo caso, che la minore non sarebbe in grado di sostenere un’accusa del genere e decidendo di non procedere a trasmettere la notizia. E così ha fatto.

Valutazione ascientifica di madre malevola e violenza come conflitto

Le dichiarazioni della madre e della bambina non sono state quindi inglobate nel contesto dell’analisi del disagio e ciò che rimane è la valutazione diagnostica tipica del contesto PAS (Sindrome di alienazione parentale): madre fusionale, ostativa, malevola per cui le difficoltà della minore vengono attribuite solo alla madre che non riesce a cancellare il passato conflittuale con l’ex partner esponendo la bambina a una conflittualità di coppia e questo senza indagare in nessun modo e in maniera oggettiva le ragioni del disagio della minore in sé per sé, viste le testimonianze anche delle insegnanti della scuola.

In sintesi il risultato abnorme di questa sentenza è

  • non aver preso atto delle allegazioni di violenza;
  • non aver ascoltato la bambina, né direttamente né indirettamente attraverso il perito che ha denegato che tale compito potesse essere a lui demandato, per l’età della bambina e soprattutto relativamente ai contenuti espressi di maltrattamento, di competenza penale e non del procedimento civile;
  • essersi mostrata aderente a stereotipi e pregiudizi sul fatto che una bambina non può avere uno sviluppo normale senza l’apporto di una figura paterna, e ancor più attribuendo la paternità, sempre incerta, a un uomo senza la contro prova dell’esame del DNA, sulla base del pregiudizio che avere un padre comunque esso sia, è sempre meglio che non averlo;
  • non aver espletato direttamente l’istruttoria, secondo anche le regole del procedimento civile ribadite della cassazione (Cass. n. 10055, del 27.4.2010) e di fatto aver affidato tale compito al CTU che ha comunque esplicitato i limiti del proprio operato che non poteva spingersi a valutazione fatti estranei alla sua diretta osservazione clinica;
  • effetto di questa istruttoria atipica, affidata di fatto a un perito dell’area psicologica/psichiatrica privata della possibilità di accertare i fatti di violenza riferiti secondo le regole del civile, ha esposto la bambina a possibili condotte di maltrattamento, così come erano state messe in evidenza dalla madre e dagli insegnanti sulla base del riferito della minore.

Conclusione

La certezza del CTU circa una specifica causa del disagio della bambina, derivata solo da una interpretazione soggettiva carica di pregiudizi sulla maternità e priva di qualsiasi analisi di contesto, ha sicuramente determinato e/o cooperato alla cattiva impostazione della sentenza finale.

Questa alla fine non ha considerato l’interesse superiore della minore a non essere messa in situazioni rischiose, anche se dubbie

Stessa situazione si è profilata anche nella successiva sentenza di appello, dove tutte le doglianze della madre, pur riportate con dovizia di particolari del tipo di violenze lamentate per sé e la bambina, sono state considerate prive di fondamento. Il problema è che non sono state indicate fonti di prove alternative, se non quella costituita da un parere psicologico espresso in una diagnosi che imputava alla madre la causa di disagio della bambina.

SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO

La Corte di appello, diversamente dal tribunale di primo grado esplicita tutte le condotte maltrattanti riferite alla madre da parte del signore prima e dopo la nascita della bambina. Sono riportate quindi le seguenti vicende allegate di cui la madre si era lamentata che non fossero state prese in considerazione nel primo grado.

Afferma la Corte di appello come incipit. “Nel merito, dopo un analitico ed approfondito esame di tutte le risultanze istruttorie, ha ritenuto corretta la decisione del primo giudice circa il riconoscimento della minore, in quanto non vi è prova del preteso carattere violento e prevaricatore del padre, essendo, viceversa, risultato che entrambi i genitori siano in grado di accudire positivamente la bambina”. La Corte poi passa a esaminare in modo dettagliato tutte le doglianze della ricorrente, dando così la possibilità prendere visione di tutte le condotte del partner, salvo che ogni volta, con un refrain monotono, la Corte riterrà che ogni condotta lamentata dalla madre non sia suscettibile di essere qualificata come violenza perché su questa vince il giudizio della CTU. Un giudizio dato in mancanza di una valutazione di quali siano i requisiti giudiziari richiesti per definire una condotta violenta e soprattutto quali siano i requisiti per cui una determinata condotta possa esser considerata pregiudizievole per la minore.

Messaggi prima della gravidanza analizzati dalla Corte

Sono analizzati alcuni di questi messaggi di cui riportiamo stralci, sia all’epoca della gravidanza che dopo. In particolare: “messaggi inviati dall’uomo per convincerla ad interrompere la gravidanza affermando in forza degli stessi la presenza di comportamenti manipolativi e di condizionamento, la sussistenza di ricatti, minacce di suicidio e accuse”:

“Io adesso ti imploro come un condannato al morte implora il boia. Io ti supplico di non lasciare cadere questa scure sulla mia vita. Io ti imploro di non destabilizzarla in maniera così violenta ed irreparabile. Ti supplico di non condannarmi alla infelicità”;

“Tu mi stai minacciando di mettere al mondo un figlio mio se io non lo volessi? Ma vuoi farmi suicidare questa notte seduta stante? oppure dato che mi hai sequestrato lo spermatozoo adesso è tuo?”;

“Mi metto di fronte a te in ginocchio, supplicante. Non trafiggermi. Non affondare la tua lama nel mio corpo. Non condannarmi a morte. Perché questo è quello che succederebbe: io ne morirei in un modo o nell’altro”;

“Ti prego. Ti prego. Sono disperato. Salvaci tutti” e altri ancora con lo stesso tono drammatico e parossistico di sentirsi minacciato dalla nascita di un figlio”.

Eccepisce la Corte a proposito di questi messaggi:”I messaggi sopra riportati, unitamente al comportamento allegato ed assunto dal padre, a giudizio della Corte, sebbene risultino forti e pressanti con asserti riferiti al suicidio del padre in caso di scelta della madre contro l’aborto, al fine di indurre la ricorrente appunto ad abortire, non possono rilevare in senso contrario al chiesto riconoscimento e alla genitorialità. In quanto gli stessi non risultano eccessivamente gravi e pregiudizievoli”. Corte che non discute però del fatto che con ogni evidenza in questi messaggi non c’è solo la richiesta di aborto ma anche l’idea di minaccia per la vita personale collegata all’evento nascita, incompatibile con qualsiasi forma di genitorialità.

Allegazioni di violenza riferite dalla madre

Per quanto riportato dalla Corte d’appello riguardo le allegazioni di violenza intrafamiliare andiamo a leggere che la madre ha rilevato: “che il tribunale ordinario non avrebbe considerato le condotte violente ed aggressive dell’uomo (sei una lurida sgualdrina, spero che tu muoia, ecc.), dolendosi della mancata valutazione dell’istanza nella quale aveva rappresentato che nei colloqui registrati madre-figlia (dei quali era stata chiesta l’autorizzazione al deposito)”. Dato che

“la bambina aveva raccontato alla madre di gravi comportamenti dell’uomo come: mi ha tirato le botte, mi ha graffiata, mi ha tirato i capelli, urla come un matto”

“L’appellante ha poi richiamato altra istanza con la quale aveva rappresentato l’aggressione verbale contro di Lei e nella quale aveva urlato davanti alla bambina: delinquente, tu sei una esaurita, tu a casa mia non devi citofonare, non ti permettere di citofonare; ha poi dedotto di aver depositato la registrazione dell’episodio in forza del quale la bambina aveva riferito (anche) alle maestre della scuola dell’infanzia che il papà le dava le botte”. Allegazioni a cui si aggiungono altre testimonianze mai prese in considerazione né valutate il primo grado in quanto il giudice non ha voluto acquisire il materiale registrato a prova di tali comportamenti.

Nè tanto meno la CTU o anche la Corte d’appello che liquida dicendo: “Le allegazioni dell’appellante mirerebbero in buona sostanza a dimostrare il carattere violento e prevaricatore di ostativo rispetto la genitorialità e parimenti ostativo rispetto il preteso riconoscimento ma il tutto non può essere condiviso. Innanzi tutto quanto sopra non ha trovato riscontro negli accertamenti svolti dal CTU”, che non ha mai però preso visione dei documenti presentati. Malgrado la signora riporti aggressioni verbali alla segretaria della scuola nel corso di una conversazione telefonica e altre offese nei suoi confronti, nonché registrazioni sul disagio della minore alla vista del padre, per la Corte sono “affermazioni che possono essere lette nell’ambito dell’acceso e grave contrasto genitoriale e della disputa processuale accesa – risultante pure dalla motivazione della sentenza di primo grado – ma non attengono direttamente alla minore e al suo interesse a essere riconosciuta dal padre”. E che l’unico problema, come dichiarato dalla CTU, è un “atteggiamento fusionale con la madre”.

Accettazione acritica della CTU basata su tesi ascientifiche

Il ricorso della madre in appello riguarda anche la lesione del contraddittorio, laddove non sarebbero state esaminate le osservazioni svolte. “L’appellante ha lamentato – dichiara la Corte – l’accettazione acritica delle conclusioni del CTU che non avrebbe esaminato il profondo malessere e il disagio della bambina nei confronti del padre: paura e rifiuto dimostrato dalla bambina anche davanti alle maestre del nido” che decrivevano come

“La consegna al padre avveniva in un periodo iniziale con forti pianti e atteggiamenti oppositivi da parte della bambina la quale ci supplicava di chiamare la mamma dicendo altresì che con il padre non voleva andare. Alla nostra richiesta di motivare le ragioni ci rispondeva sempre che non lo poteva dire perché è un segreto

La Corte eccepisce. “Il motivo è infondato. La censura giusta la quale il tribunale non avrebbe valutato e apprezzato il malessere della bambina non merita accoglimento in quanto dalla CTU e dalla pronuncia è per contro risultato, anche con apposite videoregistrazioni, un ordinario rapporto tra il padre e la minore”, aggiungendo che “Le difficoltà della bambina non derivano da una paura del padre bensì da una difficoltà a staccarsi dalla madre la quale mantiene con la figlia un rapporto fusionale”.

Anche rispetto al disagio della minore e che a fronte della proposta del CTU d ampliare gli incontri padre-figlia ha una disperata opposizione a recarsi presso l’abitazione del padre, documentate con audio registrazioni che avrebbero testimoniato sia la disperazione della piccola che i numerosi reiterati e corretti tentativi della madre di convincere la figlia a vedere il padre, nonché la produzione di 6 audio-registrazioni dei dialoghi madre-figlia ove la bambina aveva affermato di non voler andare dal padre perché le faceva paura con relative allegazioni del grave disagio della minore, la Corte risponde: “Si richiama al riguardo quanto sopra osservato (audioregistrazione) rilevandosi per di più che tale verifica parallela, al di fuori del contraddittorio, non comprovata da diversa allegazione e prova, riferita ad una piccola esaminata in sede peritale e che vive in modo esclusivo con la madre, non risulta dirimente”.

In sintesi il risultato abnorme di questa sentenza è

  • la negazione della violenza sulla madre e che la violenza sulla madre non abbia effetti sulla bambina;
  • la trasformazione della violenza in conflitto di coppia, con la giustificazione di ogni comportamento violento indicato dalla madre (insulti, offese e quant’altro) sulla base della conflittualità di coppia;
  • la negazione delle possibili violenze sulla minore espungendo come infondate o inconferenti le prove, non solo presentate dalla madre ma anche dalle maestre e dalla preside, dimenticando che in ambito civilistico vige l’interesse principale del minore e non quello del presunto autore, e che in un contesto di dubbio occorrono precauzioni, come quelle richieste dalla madre di provvedere a visite protette padre- figlia;
  • la mancanza di un’istruttoria che comprenda l’accertamento dei fatti da parte del giudice e non delegata al consulente in quanto non tocca a lui tale incombenza;
  • l’adesione a teorie ascientifiche come la Pas (Sindrome di alienazione parentale e costrutti affini come la madre malevola) che fanno risalire il rifiuto del minore verso il padre al rapporto con la madre (fusionale o in altro modo denominato);
  • l’adesione a pregiudizi e stereotipi sulle madri ostative e di contro la tutela giudiziaria dei padri sottovalutando le loro responsabilità nelle condotte violente e amplificando i loro diritti che si estendono anche a riconoscimenti di paternità non suffragati da prove biologiche.

Conclusioni

La Corte di appello non ha fatto altro che certificare che l’unica istruttoria è stata condotta dal CTU per cui l’unico motivo per cui si rigettano le prove presentate dalla madre è il giudizio irrevocabile del CTU in cui si afferma che la paura della bambina verso il padre è determinata dal rapporto fusionale con la madre (alias alienazione parentale).

Null’altro troviamo in questa sentenza a fronte di dettagliate situazioni di violenza riportate dai messaggi e dalle video registrazioni fornite dalla madre

La Corte ripete come un refrain che, nonostante tutte le dichiarazioni della bambina alla madre e alle maestre, il rapporto tra il presunto padre e la minore è normale, e anzi per impedire il rapporto fusionale della bambina con la madre (trattato questo rapporto come patologico) occorre inserire al più presto il terzo elemento della famiglia, ovvero un padre.

ORDINANZA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Nel 2022 i giudici di Cassazione confermano il giudizio di Appello disconoscendo completamente la violenza intrafamiliare cui concedono una ventina di righe nelle 18 pagine di sentenza in cui rigettano l’ipotesi argomentata di incostituzionalità dell’articolo 250 cc. La Corte di Cassazione perde così un’occasione per esprimere una posizione giuridica e giurisprudenziale evolutiva in grado di realizzare gli intenti della Convenzione di Istanbul, sposando invece anche in terzo grado le risultanze di due consulenze tecniche d’ufficio basate sul costrutto ascientifico dell’alienazione parentale e affini (madre fusionale, ostativa, ecc.). La Suprema Corte rinuncia anche in questo caso a indagare l’aperta violazione di legge sui cui si basano le due precedenti pronunce, sabotando così l’impianto normativo introdotto contro la violenza di genere nelle relazioni di intimità: in questo modo, l’accertamento del pregiudizio derivante dal riconoscimento tardivo di paternità ha pagato il prezzo della diffusa sottovalutazione della gravità della violenza nei confronti delle donne esponendo madre e figlia a un’ulteriore vittimizzazione secondaria.

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* Le sentenze e l’ordinanza della Cassazione sono pubbliche e in questa sede sono state depurate dei dati sensibili nel rispetto della privacy della persona di minore età coinvolta

 

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