Marco* è un ragazzino che non ce la faceva più e che dopo essere stato trattenuto quattro anni in una casa famiglia a più di 400 chilometri da casa sua, dove era stato portato e rinchiuso senza alcuna spiegazione, è scappato tornando dalla madre a piedi e con mezzi di fortuna. Quando Marco è stato prelevato a 12 anni dalla scuola media, aveva addosso un paio di calzoncini e una maglietta, e nessuno gli aveva permesso di prendere qualche vestito prima di essere caricato in macchina e portato via.
Bambini sottratti
Sua madre, che era all’oscuro di tutto fino a quando non si è resa conto quella mattina stessa di cosa stava succedendo, non sapeva che la struttura dove aveva portato suo figlio per problemi di obesità, aveva attenzionato i servizi sociali che a loro volta si erano rivolti al tribunale dei minori dove si era deciso di allontanare il ragazzino da casa sua inaudita altera parte, presumendo un rapporto “simbiotico” con la madre.
Una donna che era stata lasciata da marito, un ladruncolo del paese che la maltrattava e la picchiava, e che viveva con un altro bambino e sua mamma in maniera dignitosa
Come se si fosse svegliata in un incubo, che da quel momento in poi sembrato infinito, Maria fatica non poco per rimettere insieme i pezzi e per capire chi, come e perché suo figlio era stato prelevato in quel modo, in quanto il tribunale aveva deciso senza mai convocarla né ascoltarla ma basandosi esclusivamente sul rapporto fatto dallo psicologo del centro e poi dai servizi sociali che a loro volta avevano tracciato un profilo di un bambino disturbato, che in realtà era solo vittima di bullismo a scuola.
Marco: la terapia di psicofarmaci e il ritorno a casa a piedi
Una mamma che non ha visto suo figlio per nove mesi e anche quando le hanno permesso di incontrarlo, era sempre sotto stretto controllo degli operatori del centro. Marco, che era stato sottoposto a una terapia di psicofarmaci, non tornava mai a casa.
«Non c’era né Natale né Pasqua per me, neanche un compleanno ho potuto passare a casa
Mi tenevano chiuso anche a Ferragosto e quando vedevo i miei amici andare a casa per le feste, io stavo malissimo – dice con la voce rotta- . Io chiedevo continuamente di parlare con il giudice, perché non capivo come mai mi trattavano così, io non avevo fatto niente. E loro me lo negavano sempre. Ed è per questo che a un certo punto ho deciso di scappare a costo di tornare a casa mia a piedi: non ce la facevo più, stavo diventando matto. E quando finalmente ho parlato con il giudice è venuto fuori che si erano dimenticati di me, che non avevano più fatto una verifica in quanto i servizi e gli operatori non avevano mai fornito delle relazioni aggiornate su di me, regalandomi altri due anni all’interno della struttura».
Storie di violenza istituzionale
Quella di Marco e Maria è però solo una delle tante storie di “Crimini invisibili”: l’inchiesta in 11 puntate su cui ho lavorato per anni e che viene pubblicata ogni settimana (dal 23 novembre in poi) su Donnexdiritti.com, il web journal che dirigo da quasi un anno realizzato solo da professioniste donne.
Storie di violenza istituzionale che ho indagato, andando in giro per l’Italia, e che ho voluto pubblicare nei giorni della Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, perché credo che in questo momento la violenza istituzionale, la vittimizzazione secondaria delle donne in tribunale, l’occultamento dei maltrattamenti in famiglia ridotti a conflittualità di genere e degli abusi sui bambini, sia proprio il nocciolo che ci impedisce di contrastare realisticamente la violenza di genere e il femminicidio che si consumano nella stragrande maggioranza proprio in famiglia.
Quando ho cominciato a pensare a “Crimini invisibili” già sapevo a cosa sarei andata incontro, dato che me ne occupo da tempo sia come giornalista che come esperta di diritti umani
Sapevo che dare voce alle donne e ai bambini che hanno attraversato il muro oscuro e infinito della violenza istituzionale, sarebbe stato un forte investimento non solo di tempo ma anche di emozioni molto forti, quelle che ti scuotono e non ti fanno dormire la notte. Donne che sono sopravvissute sia alle violenze di un marito maltrattante e abusante, ma soprattutto alla violenza di quelle istituzioni che non solo non hanno recepito la ricerca di protezione di queste donne, ma che le hanno esposte insieme ai loro figli, occultando volontariamente i riferiti di violenza domestica, responsabilizzando le stesse per “essersela cercata”, addebitando a loro il rifiuto di un minore spaventato e vittima di abusi o violenza assistita, e mettendo sullo stesso piano il partner violento e la sopravvissuta che cerca di separarsi da un contesto maltrattante, obbligando alla mediazione familiare che in questi casi è anche vietata dalla Convenzione di Istanbul. Sono storie con titoli emblematici: “Braccati”, “La vendetta”, “Figli strappati”, “La cruda verità”, “Senza pietà”, “Fuga per la libertà”, “Vivere nella paura”, perché sono le parole che loro stesse usano quando raccontano quello che è successo.
Anna: mio figlio toccato dal padre nelle parti intime
Come Anna che in “Braccati”, prima puntata di questa inchiesta, racconta di come combatte da quasi 10 anni per tutelare suo figlio da quando lui stesso le ha riferito di abusi del padre: «Noi eravamo già separati e il bambino andava a trovare il padre nella casa in cui si era trasferito, finché una sera mio figlio mi dice che non ci vuole andare più. Io gli chiedo il perché e lui mi dice che il padre lo ha toccato nelle parti intime.
Mi dà i baci sulla bocca, ma non sono baci belli mamma, non sono baci belli. Mi dice, raccontando altri particolari. Io volevo morire – spiega Anna –, e ho subito chiamato la mia avvocata. Poi ho anche denunciato, ma non sono stata ascoltata, ed è stato lì che ho cominciato a capire in cosa ero capitata, dato che non solo non c’è stata indagine, ma il tribunale ha deciso di affidare mio figlio al padre con affido esclusivo perché ero io che sobillavo mio figlio a rifiutarlo senza alcuna ragione vera».
Roberto però si ammala, viene ricoverato per mesi in ospedale, e quando esce porta su di sé i postumi di questa malattia che potrebbe sempre ripresentarsi
Ma questo ai giudici, agli psicologi, agli assistenti sociali, ai tutori, curatori che vengono via via nominati in questa intricata e triste vicenda, non importa, perché il bambino deve essere portato in casa famiglia, anche davanti a un rischio di salute, perché qui gli sarà imposta la ripresa del rapporto paterno, tagliando fuori completamente quello con la madre che lo ha accudito e cresciuto, e che Roberto considera sua principale figura di riferimento, dato che è la madre.
Paternità mancata
Una maternità che soccombe davanti a una mancata paternità che per ragioni prettamente culturali ha comunque un valore diverso: più forte e credibile, anche se l’uomo è descritto come maltrattante e abusante, magari con denunce o un procedimento in penale pendente.
Così i riferiti di paura e angoscia, i racconti di violenza e abusi, si perdono, non contano, non vengono approfonditi ma archiviati, e anzi è la mamma a essere considerata “simbiotica”, “alienante”, “invischiante”, e quindi la colpa è sua, è lei a essere pericolosa, è da lei che il bambino va allontanato anche con la forza, se necessario, perché quello che lei racconta sono tutte bugie, false accuse. «A me la giudice ha chiesto di ritirare la denuncia che avevo fatto, altrimenti mi metteva il bambino in casa famiglia – continua Anna – e poi, dopo che l’ho ritirate sotto minaccia, hanno detto che le accuse di violenza non erano vere perché avevo ritrattato. Al che mi sono chiesta: ma cos’è questo? Un circo impazzito?».
No, è un falso abuso indotto, come spiega un’altra mamma
Il ruolo dei Ctu (consulenti d’ufficio)
Claudia mi dice che la storia dei consulenti tecnici d’ufficio che compilano i rapporti su cui poi viene deciso, quasi sempre, l’allontanamento del bambino dalla madre che in realtà sta chiedendo aiuto, è un copione già scritto e ormai è dilagante nei tribunali italiani. «Qui – racconta – viene nominato un perito, un consulente tecnico d’ufficio che valuta la genitorialità dei genitori in cui non c’è istruttoria ma solo un parere dello psicologo su cui il giudice poi si basa per decidere. Nel mio caso mi è stato detto prima di raccontare solo un episodio di violenza domestica dicendo che non c’era bisogno di raccontare tutto, e poi alla fine lo stesso mi ha detto: ”Sì, va bene, ma è successo una volta sola”. E questo perché la conclusione deve essere per forza che la colpa è tua, sei tu che vuoi distruggere la figura paterna mentre invece la donna, di solito, non solo non vuole togliere il padre ma vuole proteggere i figli e vuole che il padre sia aiutato a relazionarsi con i bambini».
Diagnosi di alienazione parentale, teoria rigettata da varie sentenze di Cassazione e ora anche dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, «fatta anche da assistenti sociali che non hanno nessun titolo per farla e che non possono somministrare neanche i test di personalità, come invece succede, perché possono essere somministrati solo da psicologi laureati per valutare se sei un buon genitore o meno». Da questi testi può venire fuori se sei borderline, paranoica, schizofrenica, e anche se «tu non sai che stai facendo quel tipo di test, è da lì che possono decidere che tu sarai un danno per tuo figlio. Test che spesso non sono neanche originali, quindi manipolabili».
Affido al servizio sociale
Paola ha visto, sulla base di accuse “alienanti”, suo figlio preso per i polsi dai carabinieri e trascinato in casa del padre dove non voleva andare, per poi essere preso e rinchiuso in casa famiglia. Lei che si era allontanata dal padre del bambino dopo essere stata minacciata e picchiata: «Sono finita in ospedale cinque volte: trauma cranico, lesioni, ecchimosi sulla pancia e sul viso. Lui voleva tornare a casa e voleva che il bambino stesse già a letto a dormire mentre invece il piccolo si addormentava tardi. Così ha cominciato a svegliarlo alle sei di mattina scrollando lui, il materasso, togliendo le coperte. Io mi sono ribellata, e lui mi ha cominciato a picchiare, così l’ho denunciato».
Con due rinvii a giudizio per lesioni aggravate però, lui ha ottenuto dal tribunale l’affido al servizio sociale con collocamento presso il padre, e questo dopo quattro anni di affido esclusivo alla mamma, relazionata come una madre con cui il bambino aveva «un rapporto troppo positivo per essere vero», contro un rapporto «troppo negativo con il padre per essere reale». Da lì, dopo la perizia del consulente tecnico d’ufficio, la sentenza del giudice che colloca il bambino in casa famiglia affinché i rapporti con il padre siano ripresi immediatamente:
«Un sistema che anziché tutelare chi ha subito violenza – conclude – ha tutelato il carnefice. Ed è così che mio figlio è diventato un suo personale strumento di vendetta nei miei confronti»
Bambini e bambine: vittime senza voce
Ma i protagonisti muti di tutte queste vicende sono loro, i bambini e le bambine sulla cui pelle vengono lasciati indelebili segni questa tortura, di questo massacro, di questa mastodontica ingiustizia che non si vede sulle passerelle del 25 novembre perché troppo scabrosa, troppo inquietante, troppo scomoda. Loro che non vengono ascoltati, che guardano impotenti le loro madri disperate, che piangono quando vengono strappati con la forza da casa o a scuola, che scappano e cercano di nascondersi quando si trovano da soli davanti all’inevitabile, costretti a confrontarsi fisicamente con chi è più forte e senza una coscienza personale.
Come Andrea che è stato portato via con l’inganno nell’ospedale dove era stato portato perché si era sentito male durante il prelievo che non voleva fare, e che tra le urla sue e quelle della madre, è stato strattonato, preso in braccio con la forza mentre dimenava braccia, gambe e piedi, e portato via nei corridoi con sua madre trattenuta nella stanza. Oppure come Sara, che non se lo ricorda perché era troppo piccola, ma che è stata prelevata davanti casa mentre la mamma la stava portando al parco nel passeggino. Sottratta a sua madre accusata di essere affetta da un “disturbo” che in futuro avrebbe potuto, forse, causare la pseudo teoria ascientifica dell’alienazione parentale, e che per questo è stata privata crudelmente dell’affetto di una mamma che ha combattuto una vita per poterla rivedere e riabbracciare dopo dieci anni di allontanamento forzato.
Chiedere aiuto alle istituzioni
«Ho chiamato il padre – racconta la madre piangendo –, e lui rideva. Hai visto? Te l’avevo detto che l’avrebbero data a me perché sono ricco. Hai visto cosa succede a denunciare? Mi ripeteva al telefono. Poi l’hanno presa e se la sono portata via, non l’ho vista più». Ogni giorno, dopo questa inchiesta, io mi chiedo cosa hanno provato questi bambini quando si sono trovati da soli davanti a uomini adulti e sconosciuti che con la forza li hanno portati in un luogo sconosciuto, e si sono ritrovati in una stanza anonima, senza amici, senza affetti, sottoposti a terapia farmacologica obbligatoria, solo per aver raccontato il disagio verso un genitore che in quel momento non volevano vedere.
Cosa si porteranno dentro questi uomini e queste donne di domani, e come riescono a vivere le loro madri che per aver chiesto aiuto a quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerle, si ritrovano oggi a dover affrontare ogni giorno questo rimorso, pensando ai loro figli che non vedono e che non sanno né come stanno né cosa stanno provando, lontano dagli affetti e dal proprio ambiente in una condizione semi-carceraria, senza aver commesso nessun reato.
* i nomi nell’articolo sono tutti di fantasia, non c’è nessun riferimento reale alle storie per tutelare l’identità delle sopravvissute e dei loro figli alcuni ancora minorenni
Se sei vittima di questo sistema e vuoi far conoscere la tua storia, scrivi a [email protected]
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Inchiesta di Luisa Betti Dakli pubblicata il 30 novembre 2021 sulla 27esimaora del Corriere della sera – Le puntate dell’inchiesta “Crimini invisibili” sono state pubblicate sulla 27esimaora del Corriere della sera, e sono disponibili in inglese in questo articolo, su donnexdiritti.com nonché nelle pagine social del Network su YouTube