“Il corpo è mio” ma in realtà sono sempre gli altri che decidono

Mentre negli Usa entrano in vigore leggi antiabortiste dopo la cancellazione della Roe, il Parlamento Europeo approva la risoluzione che inserisce i diritti riproduttivi nei Diritti umani. Eppure in alcuni paesi della Ue è impossibile interrompere una gravidanza e i diritti delle donne sono sempre più in bilico, anche in Italia (come dimostra la sentenza di Torino)

Eleonora Forenza
Eleonora Forenza
Politica e attivista italiana, deputata al Parlamento europeo dal 2014 al 2019, è nel gruppo GUE/NGL, fa parte del direttivo dell'International Gramsci Society. Nella sua attività di ricerca si è occupata prevalentemente di studi gramsciani, teorie femministe e storia delle donne.



Il 13 luglio è arrivata la notizia della istituzione negli Usa di una task-force guidata dalla viceprocuratrice generale Vanita Gupta volta a vigilare sugli effetti della decisione della Corte suprema che ha ribaltato la sentenza del 1973 Roe vs Wade. Nel frattempo in Lousiana, deve intervenire un tribunale a bloccare il divieto di interruzione volontaria di gravidanza.

“Fine della citazione. Ripeti la frase”

Joe Biden

E proprio mentre viene firmato un ordine esecutivo della Casa Bianca che avrebbe dovuto riparare gli effetti della sentenza di giugno (ma che in realtà è davvero molto morbido), Joe Biden si rende protagonista dell’ennesima gaffe internazionale, leggendo i prompt del gobbo elettronico: “End of quote. Repeat the line” (Fine della citazione. Ripeti la frase), rendendo ancora più grottesco quanto sta avvenendo negli Usa. Infatti, se il pronunciamento della Corte suprema è una eredità del trumpismo, la mancanza di una legge federale che garantisca la salute sessuale e riproduttiva e l’autodeterminazione delle donne è una responsabilità bipartisan delle amministrazioni statunitensi che si sono succedute almeno negli ultimi cinquant’anni.

I giudici della Corte Suprema americana

E mentre la retorica suprematista dei “valori occidentali” diventa drammaticamente sempre più trasversale e pervade tutta la governance euroatlantica, la sentenza della Corte suprema svela quanto siano sempre più fragili le “democrazie occidentali” e quanto poco consolidati al loro interno siano i diritti sociali, politici e civili. Così il presunto “faro delle democrazie occidentali”, autoproclamato esportatore di democrazia e liberatore delle donne afgane, è un Paese in cui vige la pena di morte, in cui è sempre più dilatata la possibilità di girare armati, in cui vive un quarto della popolazione carceraria mondiale, e in cui viene profondamente rimessa in discussione la libertà e l’autodeterminazione delle donne.

In tutto il mondo, ovviamente a partire dagli Stati Uniti, le donne si sono mobilitate contro questo ulteriore e gravissimo segno di regressione

Parlamento europeo: i diritti riproduttivi sono diritti umani

Anche in Italia, il 7 e l’8 luglio tantissime reti femministe – dalla Marcia mondiale delle donne a Non una di meno – hanno riempito le piazze, mettendo ancora una volta in luce quanto le conquiste del movimento femminista siano non solo costantemente sotto attacco, ma troppo spesso garantite solo sulla carta. Basti pensare a quanto l’obiezione di coscienza incida ancora sulla esigibilità reale di un diritto garantito dalla legge.

E così dobbiamo ripeterlo ancora una volta e all’infinito: “Il corpo è mio”

Anche il Parlamento europeo è intervenuto il 7 luglio 2022, con una Risoluzione sulla Decisione della Corte suprema statunitense di abolire il diritto all’aborto negli Stati Uniti e necessità di tutelare il diritto all’aborto e la salute delle donne nell’UE. Una risoluzione non legislativa e, dunque, non vincolante, ma importante e forte, con cui il Parlamento europeo “condanna fermamente, ancora una volta, la regressione in materia di salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti a livello mondiale, anche negli Stati Uniti e in alcuni Stati membri dell’UE; rammenta che la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti sono diritti umani fondamentali che dovrebbero essere tutelati e rafforzati, e non possono essere in alcun modo indeboliti o revocati”. Su questa base, la Risoluzione “propone di inserire il diritto all’aborto nella Carta”, chiede che venga inserito il “diritto all’aborto sicuro e legale” nella Carta dei diritti fondamentali e ripropone il tema della revisione dei trattati.

Una risoluzione importante, dunque, approvata con 324 voti favorevoli, 38 astensioni e 155 contrari, tra cui eurodeputati della Lega, Fratelli di Italia e Forza Italia

Nella Risoluzione il Parlamento europeo prende nuovamente posizione non solo sulla situazione della Polonia, dove l’aborto è legalmente vietato, ma anche di diversi Stati Membri dell’Ue in cui il diritto all’aborto legale e sicuro non è realmente esigibile. A questo proposito si fa esplicitamente riferimento all’Italia e alle “erosioni” che sta subendo il diritto sancito dalla Legge 194. Una erosione che nella scorsa legislatura, come Deputate europee, portammo all’attenzione del Parlamento europeo attraverso una delegazione in Italia, nel dicembre 2018, della Commissione Diritti delle donne e uguaglianza di genere (FEMM), focalizzando l’attenzione anche sulle mancate applicazioni della Legge 194 e sulle conseguenze dei tagli alla sanità e dell’obiezione di coscienza.

Il doppio standard per Polonia, Ungheria e Turchia

Recep Tayyip Erdoğan

La Risoluzione approvata a luglio è certamente importante sotto il profilo simbolico (anche considerate le posizioni antiabortiste della Presidente del Parlamento europeo), ma purtroppo non cancella le contraddizioni reali che attraversano l’Ue. A partire dalla negazione del diritto di aborto in Polonia, per arrivare al “doppio standard” in materia di diritti: Polonia e Ungheria da un lato sanzionate e “sorvegliate speciali” in materia di diritti civili e Stato di diritto, dall’altro supportate e finanziate per il ruolo strategico nella guerra in Ucraina.

Ursula von der Leyen

Un doppio standard reso ancora più evidente dalle relazioni con la Turchia dove Erdogan “il dittatore”, quello che non ha previsto la sedia istituzionale a Ursula Von der Leyen, è stato finanziato con miliardi per garantire l’esternalizzazione delle frontiere ed è stato promosso a mediatore nella guerra in corso. Colui che ha voluto il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul ma che può quindi richiedere e ottenere – per concedere il lascia passare all’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia ­– un nuovo e indegno tradimento del popolo kurdo. Un tradimento consumato anche sui corpi di quelle donne che praticano la gineologia e che hanno realmente combattuto per la libertà, e non solo del loro popolo. Donne che hanno sperimentato corappresentanza e confederalismo democratico e che si ritrovano, in base “ai valori occidentali”, nella lista delle organizzazioni terroristiche.

La Convenzione di Istanbul inapplicata e la sentenza di Torino

Peraltro, con una Risoluzione del novembre 2019, il Parlamento europeo aveva nuovamente sollecitato “il Consiglio a ultimare con urgenza il processo di ratifica della Convenzione di Istanbul da parte dell’UE sulla base di un’adesione ampia e senza alcuna limitazione nonché a promuoverne la ratifica da parte di tutti gli Stati membri”, sottolineando che “le leggi restrittive in materia di aborto e la mancata esecuzione violano i diritti umani delle donne”.

Ma, come la stessa Risoluzione evidenziava, sono moltissimi i profili della Convenzione di Istanbul rimasti inapplicati e lontani da una piena attuazione, perfino tra gli Stati Membri che la hanno ratificata

Ad esempio, la necessità di evitare “traumi o una rivittimizzazione nel corso di procedimenti giudiziari”. Basti pensare alla recente e rivoltante sentenza della Corte di Appello di Torino, che – cancellando la condanna in primo grado per la violenza sessuale subita da una giovane donna nel bagno di un locale del capoluogo piemontese – afferma che la vittima avrebbe “indotto a osare” il suo aggressore lasciando socchiusa la porta del bagno in cui è avvenuta la violenza. E che l’assunzione di alcol da parte della giovane donna avrebbe praticamente inficiato la negazione di consenso. L’ennesima replica di “Processo per stupro” cinquant’anni dopo.

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