Parafrasando il filosofo Baruch Spinoza, la guerra non è solo assenza di pace. Richiede una disposizione al conflitto, alla brama di possesso, al senso di supremazia sull’altro. Credo che il rifiuto della guerra non si basi solo sulla paura delle sue conseguenze, dirette e indirette, ma sul disgusto verso tutto ciò che la rende possibile. Una guerra, infatti, non è un incidente, un evento naturale, ma il risultato di precise scelte e ambizioni che richiedono tempo ed energia affinché si crei il giusto insieme di circostanze che la rendano possibile. È un atto volontario (quindi dipendente dalla volontà) premeditato, organizzato. È uno dei fenomeni distintivi del patriarcato, si fonda e utilizza mistificazioni manipolatorie, stereotipi e pregiudizi per “ghermire e nel buio incatenare”. Le scelte lessicali ci aiutano a smascherarli.
Le “guerre umanitarie”
Molte guerre contemporanee si fondano sulla mistificazione dell’eroe buono e salvifico che “esporta democrazia” per salvare popoli altrimenti destinati a vedere usurpata la propria sovranità. Il termine “missione di guerra” diviene così “missione di pace”, i nomi che designano gli interventi sono “enduring freedom” e “peacekeeping”, ma i documenti che li descrivono sono infarciti di termini come sorvegliare, prevenire, contenere, garantire la sicurezza, e le missioni sono sotto il comando di generali, non di diplomatici. Sono scelte chiare, come lo è stata, nel caso della pandemia in Italia, quella si assegnarne la gestione a un generale, uno, oltretutto, che non ha mai perso occasione di mostrarsi in completo apparato militare, dalle tute mimetiche ai metri quadrati di medaglie, come è stato ben evidenziato da Michela Murgia (e che per questo è stata anche aspramente criticata).
così sotto la denominazione di “aiuti” da destinare al paese in cui esportare il modello di democrazia, rientrano anche le forniture di armi
L’uso delle parole per far accettare le armi
Qualche giorno fa “Il Sole 24ore” riportava questa dichiarazione di un funzionario europeo, riferita all’uso della European Peace Facility (ma guarda, di nuovo la parola pace per parlare di guerra): “Questo strumento verrà utilizzato per acquistare materiale militare e umanitario da inviare in Ucraina. È necessaria l’unanimità. I paesi membri neutrali daranno il loro consenso attraverso una astensione costruttiva”. La scelta delle parole non è affatto casuale. Unanimità, consenso, costruttivo: parole di pace, appunto, per raccontare come l’Europa entra in guerra.
Chi manda aiuti militari in Ucraina
Infatti, per raccontare un po’ di numeri, ecco chi e come sta armando l’Ucraina: primi, non ci stupiamo, gli USA dove l’amministrazione Biden ha deliberato la spedizione di armi per un valore di 200 milioni di dollari; dalla Germania arriveranno 1.000 armi anticarro e 500 missili terra-aria di classe “Stinger”; da Londra 2.000 missili anticarro; dalla Francia molti armamenti annunciati da Macron, senza specificare; dai Paesi Bassi 200 missili antiaerei Stinger oltre a pistole, munizioni e sistemi radar; dalla Repubblica Ceca armi per un valore di 7,6 milioni di euro, tra cui mitragliatrici, pistole, fucili d’assalto e munizioni; dalla Danimarca 2.000 giubbotti antiproiettile e 700 borse mediche.
Dal Belgio 2.000 mitragliatrici e 3.800 tonnellate di olio combustibile; da Estonia e Lettonia missili anticarro e antiaerei; dalla Lituania maschere antigas, passamontagna e imbarcazioni per un valore di 1,8 milioni di euro. L’Italia ha annunciato l’invio di 3.400 soldati per rafforzare il fianco est della Nato e ha annunciato lo stanziamento di 12 milioni di euro per la fornitura di equipaggiamento bellico a Kiev. E l’elenco si aggiorna giorno dopo giorno.
Armi? Solo una questione di soldi
12 milioni di euro dall’Italia: improvvisamente quei soldi che mancano sempre, per cui si tagliano fondi alla sanità, alla scuola, non si sostiene la cultura, cioè i pilastri della nostra società, quelli che fanno dire da anni che la coperta è troppo corta, a tirarla da una parte se ne scopre un’altra, quei soldi improvvisamente appaiono. Ma inviare armi è fondamentale soprattutto a livello “morale”, in quanto, come afferma il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, questa è “Una risposta importante che dà il segno della concreta solidarietà all’Ucraina. Chi voleva dividerci è rimasto deluso. La NATO è più forte, l’Europa più unita”.
Di nuovo parole di pace, solidarietà e unione ma in una cornice minacciosa: c’è qualcuno che vuole dividerci
Ossimori
Nella passione per gli ossimori ben rappresentata dalle guerre per portare la pace non mancano le bombe intelligenti, che sembra sappiano distinguere i buoni dai cattivi ma che in realtà, per definizione, sono studiate per limitare (non eliminare del tutto) i danni collaterali. Danno collaterale è un termine pseudo tecnico che ha la funzione di spersonalizzare gli effetti della guerra, non nominando le persone che pur non essendo obiettivi dichiaratamente meritevoli di uccisione muoiono a causa di un’azione militare. Menzione speciale al fuoco “amico” che sarebbe quando si viene ammazzati da un alleato o un commilitone. Io trovo in tutto ciò una interessante similitudine con le scelte semantiche e linguistiche adottate per parlare della violenza maschile sulle donne.
Sono formule deresponsabilizzanti che minimizzano l’accaduto e empatizzano col colpevole
Il fascino virile del conflitto
Uno stereotipo vuole che le donne siano particolarmente sensibili al fascino della divisa. È abbastanza frequente che una caratteristica o un comportamento maschili vengano attribuiti al desiderio o all’aspettativa femminili. La divisa militare, ad esempio, è nata per la necessità di riconoscere i commilitoni – ed evitare il “fuoco amico” – ma si è ben presto arricchita di caratteristiche e accessori finalizzati ad aumentarne la comunicazione di forza virile, autorità, pericolosità.
Quindi copricapi che simulano un’altezza maggiore, spalline, bandoliere, disposizione di bottoni sulla giacca che hanno la funzione di aumentare la forma a V del torace in modo che sembri più possente, accessori che influenzano la rigidità dei movimenti, che però si chiama “marzialità”. E un attento studio dei colori a seconda che il militare debba suscitare più sicurezza o più paura. Una cosa è certa: il modello stereotipato cui ci si riferisce è quello maschile. Così come è tutto maschile l’immaginario che riguarda il gruppo, dalla squadra all’armata, caratterizzato dalla finalità che i componenti, spesso spersonalizzati dalla divisa stessa specialmente quando i volti sono coperti o mimetizzati, ritrovino coesione nell’appartenenza. I gruppi militari son così forti dal punto di vista relazionale ed emotivo che nel tempo si è sviluppato un linguaggio specifico tra i componenti, che non è solo quello tecnico ma anche quello gergale, che ha fatto sì che molti dei suoi termini si siano diffusi nel linguaggio comune.
Qui voglio evidenziare quelli che hanno invaso il campo sessuale
Se lo stereotipo vuole l’uomo cacciatore e la donna preda, come potrebbe il gergo militare non farla da padrone in una sessualità considerata predominio dell’uno sull’altra, con il corpo femminile che diventa terreno di conquista, e l’atto sessuale espressione di supremazia di un ruolo attivo su uno passivo?
L’atto sessuale come atto di aggressione militare
Troviamo di nuovo un’Europa unita nel definire il rapporto sessuale come “dare un colpo” in Italia, “launching the meat missile” in Gran Bretagna (lanciare un missile di carne), “planter le javelot dans la moquette” in Francia (piantare il giavellotto nella moquette), “das haus abreißen” in Austria (demolire la casa). Il pene viene chiamato clava, mazza, bastone, asta, archibugio, pistola (che spara colpi, l’ultimo colpo, non spara più) e l’organo femminile guaina, rete, tagliola, trappola. Perfino vagina, che crediamo termine anatomico, significa fodero della spada. L’elenco può far sorridere, ma non c’è alcuna allegria quando pensiamo a ciò che viene fatto alle donne prede di guerra, agli stupri etnici e a come queste violenze vengono compiute, spesso mutilando le vittime usando materialmente le armi nei loro corpi.
Chi ci guadagna?
È sempre molto difficile, soprattutto per chi non ha una formazione specifica, comprendere le ragioni di una guerra. Quando si studia la storia si distingue tra cause reali e cause occasionali, ma anche la storia ufficiale, si sa, è scritta dai vincitori. Però forse un metodo a disposizione possiamo averlo, se cerchiamo di capire chi si aggiudica i vantaggi di una guerra. Perché ci sono vittime e assalitori, vincitori e perdenti, e non è detto che chi si avvantaggia sia tra questi.
Rispetto alla guerra in corso in Ucraina ad esempio si prevede già un aumento dei prezzi di pasta, farina, pane e prodotti di pasticceria, dato che l’Italia ha acquistato l’anno scorso dall’Ucraina poco più di un milione di tonnellate di grano tenero (il 20% delle importazioni). Non solo, l’Ucraina fornisce mais di qualità per gli allevamenti italiani, un prodotto che già prima della guerra era rincarato fino al 50% e dopo i primi bombardamenti sta ulteriormente aumentando. La guerra quindi causerà un rialzo dei costi delle carni e del latte. Effetti simili ci saranno su molti altri prodotti, oltre a ciò che si è già registrato nel campo dei combustibili.
Contemporaneamente le quotazioni in Borsa delle aziende fabbricatrici di armi salgono vertiginosamente. Il “Fatto Quotidiano” ha pubblicato che alla Borsa di New York dall’inizio dell’anno a oggi le azioni dei principali produttori di armi e grandi appaltatori del Pentagono sono salite vertiginosamente. Tra il 3 gennaio e l’11 febbraio le azioni di Lockheed, il primo gruppo mondiale della difesa per giro d’affari, sono salite dell’11,8%. Le azioni di Raytheon Technologies, secondo gruppo americano e mondiale della difesa, hanno guadagnato il 9,5%. Le azioni Boeing il 2,14 per cento. Nello stesso periodo in Europa le azioni della britannica Bae Systems hanno guadagnato l’8,4%, la tedesca Rheinmetall il 14%, la francese Thales 11%, l’italiana Leonardo ha guadagnato il 2,2% e, più recentemente, Fincantieri ha registrato +2,9% e Leonardo +4,9%.
La guerra delle risorse
Se non ci sfugge il fatto che la vendita delle armi è il modo più veloce di rialzare una economia in un momento di forte stagnazione come quello vissuto in pandemia e che l’economia mondiale, è anche vero che la guerra delle “risorse”, che non è cominciata certo con l’Ucraina, sta cambiando i connotati a molti paesi in relazione alle sanzioni attuate verso la Russia. Così mentre la borsa di Mosca è chiusa da 5 giorni e il rublo va a picco, la borsa di Milano ieri ha chiuso a +3,15% seguita da Madrid (+2,76), Parigi (+2,32), Francoforte (+1,56), Londra (0,56). Per non parlare degli Stati Uniti che si preparano a vendere all’Europa il loro “gas liquido”, in sostituzione di quello russo, con costi di manutenzione molto più alti per l’Europa, la quale sta per lanciare bond su vasta scala per finanziare le spese per l’energia e la difesa, dirottando così tutto il denaro che invece era necessario per la ripresa post-pandemica.
Del mercato delle armi non si parla quasi mai, ma bisogna sapere che si tratta di aziende sempre floride e stabili, mai minacciate dalle varie crisi, compresa quella dovuta alla pandemia, perché nel mondo di guerre è pieno e si combatte ininterrottamente anche se non ne siamo informati in maniera così puntuale come succede per l’Ucraina adesso. L’inefficacia del capitalismo risiede nell’eccesso di produzione di beni materiali rispetto all’assorbimento da parte del mercato. Come mai i mercanti di morte non conoscono crisi? Del resto anche il patriarcato, per quanto ci sforziamo, non ha mai corso dei seri rischi, finora. Riusciamo a produrre qualche crepa, che sembra presto rimarginarsi. Alla guerra, piena di risorse e di finanziatori, riusciamo a contrapporre al massimo una guerriglia, intelligente, creativa, ma spesso disorganizzata ed estemporanea.