La Madonna con il bambino è stata per secoli il soggetto preferito dei pittori occidentali, sia che fossero di eterea bellezza come quelle di Leonardo o Raffaello, che infatti sono diventate il canone rappresentativo di quel tipo di soggetto nei secoli a venire, oppure altere e austere come quelle dei pittori nordici: la Madonna rappresenta un’ideale irraggiungibile di perfetta e appagata maternità.
La maternità
Come modello sociale simbolico, certamente figlio di una cultura patriarcale e sessista, la maternità in generale è stata rappresentata come il punto apicale della vita di una donna. Gli artisti di ogni epoca hanno dipinto migliaia di donne composte che tengono fra le braccia i loro bambini circondate da quell’alone di semi-santità necessario per polarizzare la loro rappresentazione e quindi per elevarle a Madonne o, al contrario, come il lussurioso e carnale simbolo del peccato. Ci voleva un’artista donna di straordinario talento pittorico come Jenny Saville per rivoluzionare questa obsoleta tradizione iconografica che con lei è diventata, finalmente, realistica e viva che rimane in mostra a Firenze fino al 20 febbraio tra Palazzo Vecchio, museo Novecento, museo dell’Opera del Duomo, museo degli Innocenti e museo di Casa Buonarroti. Un progetto espositivo ideato e curato da Sergio Risaliti, Direttore del Museo Novecento, in collaborazione con gli musei coinvolti.
Il mezzo usato è quello antico della pittura che grazie alla sua perizia tecnica e alla sua libertà espressiva è non più convenzionale e potentemente contemporanea. La grande tela dell’opera “The Mother” del 2011 e gli studi preparatori (Pentiment I, II, III, IV, V) trascinano lo spettatore nel vortice di quel groviglio di sentimenti opposti che vanno dal dolore, alla gioia e che fanno parte dell’esperienza della maternità e di cui si parla poco. La maternità è il corpo stravolto nei suoi confini da nove mesi di gestazione, necessari per trasformare un feto in un essere umano:
la pelle tesa allo spasimo, il seno gonfio, la mancanza di sonno, la sensazione di non appartenersi ma anche l’appagamento dell’irrazionale amore che si prova per la carne urlante della nostra carne
I bambini
I bambini nelle opere di Jenny Saville sono veri, si muovono, si divincolano dall’abbraccio materno, si succhiano il dito e i loro corpi nudi sembrano fondersi sul corpo nudo e maestoso della madre, una grande madre con le sue forme generose, ritenute imperfette dall’obbligo della perfezione. In questa poderosa pittura non ci può essere l’asetticità della levigatezza formale, non in questi corpi di carne e di sangue che premono contro altri corpi fatti della stessa materia, qui c’è la carne che avvolge altra carne, carne viva, carne rotonda e tridimensionalmente materica.
In queste prodigiose maternità non c’è quell’idea, falsa e pericolosa, della figura materna trionfale e retorica, queste maternità sono vere perché scaturiscono direttamente dalle viscere della vita e dalla materia della pittura, dall’esperienza diretta delle cose, non c’è astratta filosofia ma c’è la vita che prepotentemente pulsa in ogni sua pennellata. Quello che mi ha sempre affascinato della pittura di Jenny Saville è proprio questa sua pregnanza con la vita: è come se ogni spatolata, ogni pennellata, ogni strato di colore sia pervaso da una scintilla di prorompente energia vitale. Le sue opere, tutte, dagli schizzi a grafite alle sue grandi tele sono un inno alla vita, proprio perché sono le imperfezioni della vita stessa che permeano di verità i suoi ritratti e i suoi corpi nudi rendendoli indimenticabili.
Ode al corpo femminile imperfetto
La pittura di Jenny Saville è un’ode al corpo, al corpo femminile, un corpo con cui ancora le donne non hanno fatto pace, un corpo che non è più nascosto dalle gonne e dalle sottogonne dei secoli passati, un corpo che è stato liberato dalla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta ma che, in realtà, è forse ancor più prigioniero di prima di regole non scritte ma pervasive, crudeli e dolorose. La magrezza e la giovinezza sono il burka di noi donne occidentali, certamente emancipate, ma anche schiave consenzienti di un canone estetico irraggiungibile. Per secoli, fin dai tempi dei padri della chiesa, noi donne siamo state considerate la materia del mondo, siamo state corpo, perché solo il maschile aveva diritto di ospitare lo spirito.
Noi donne siamo state raccontate e rappresentate come ctonie, curvilinee e dionisiache come ha sottolineato la sociologa femminista americana Camille Paglia nel suo controverso saggio “Sexual Personae”, e questa nostra fisicità diversa, che per secoli non è stata la misura della perfezione apollinea, ancora ce la portiamo addosso come un fardello o come un’onta e quando la indossiamo come un trofeo dobbiamo essere comunque caute perché c’è sempre il rischio di essere percepite come oggetti e quindi prede.
Il rapporto di ogni donna con il proprio corpo è uno slalom fra i divieti, fra il “devi”, “non devi” o “dovresti” o “non dovresti“
Difficile orientarsi nella giungla delle diete, della cosmesi, delle scienze della nutrizione, della chirurgia estetica, delle palestre che promettono un corpo nuovo, tonico, scattante: il grasso fa schifo ma il body-shaming non è political-correct e i disordini alimentari sono sempre più frequenti e allarmanti, si può essere anoressiche a dodici anni? La risposta è si dato che l’asticella della sessualizzazione delle minori è sempre più bassa e il corpo da pin up californiana della bambola Barbie ha permeato il nostro immaginario da quando eravamo piccole. Che rapporto possono avere oggi le ragazze con il loro corpo in un mondo sempre più virtuale? Come si può praticare l’accettazione di un sé reale se i filtri dei nostri cellulari e Photoshop permettono il raggiungimento di una perfezione estetica standardizzata? Viviamo in un mondo in cui i social media ci rimandano continuamente il diaframma luccicante di una realtà distorta per poterci permettere la disarmante verità dell’imperfezione.
La levigatezza non scuote
È difficile accettare le proprie asperità o semplicemente la propria non conformità in un mondo che ha fatto della levigatezza il suo vessillo, levigatezza che, come scrive il filosofo tedesco Byung-Chul Han in “La salvezza del bello”, “è il segno distintivo del nostro tempo, ciò che accomuna l’iPhone e la depilazione brasiliana, la levigatezza che non ferisce, la levigatezza come l’attributo della perfezione, la levigatezza che vuole solo piacere: la levigatezza non scuote mentre l’opera d’arte provoca un urto, scuote”.
Ed è proprio l’urto, lo scuotimento che invece si prova davanti alle opere di Jenny Saville ciò che ci consente di esperire un’esperienza estetica profonda e totalizzante nonostante il nostro essere in parte anestetizzati dalla continua proliferazione di immagini levigate da consumare in fretta in una sorta di eterno presente. Che cos’è che ci fa percepire un corpo come bello, ma soprattutto che cosa è bello. “Qualità come la delicatezza e l’eleganza sono considerate belle. Il corpo è elegante quando consiste di parti levigate che non mostrino ruvidezza o confusione” (Byung-Chul Han).
Il bello è un piacere positivo, il bello è dolce e liscio, il bello si esaurisce in un momento di puro piacere, come quando si mangia un bignè
Il bello e il sublime
In pieno illuminismo il filosofo inglese Edmund Burke distingue fra bello e sublime, ponendo il sublime in una categoria estetica più complessa e piena di sfumature. A differenza del bello, infatti, il sublime può non suscitare alcun immediato sentimento di piacere, è una vertigine estetica che si pone su quel crinale incerto fra meraviglia e terribilità, come quando si osserva una tempesta. Questo sentimento, troppo impressionante e troppo grande per la nostra immaginazione, di cui già parlava lo Pseudo-Longino nel suo “Peri Hypsous” (“Del sublime- Περὶ ὕψους”), un trattato di estetica databile agli inizi della seconda metà del I secolo d.C., diventa centrale nel dibattito culturale settecentesco. Il Settecento è il secolo del Sublime e di un’estetica della sensibilità che sposta dall’oggetto al soggetto il processo di fruizione di un’opera. Termini come “delizioso orrore e gioia terribile” o “piacevole orrore” riferiti ai fenomeni naturali o ai grandi cicli pittorici dei maestri rinascimentali diventano i codici verbali con cui edificare l’iconografia del Sublime.
“Il suo ingresso nella cultura coincide con il rovesciamento dei termini classicisti entro i quali era stato fino ad allora interpretato: non più connesso al gran gusto e al grande stile dell’ars dicendi o pingendi, esso può rivelare i suoi effetti solo attraverso un’intensificazione e una focalizzazione su ciò che già in Longino era adombrato, e cioè l’associarsi che nel suo raggio si verifica tra il terrore e ciò che restava del Bello” (Massimo Carboni, “Il Sublime è ora. Saggio sulle estetiche contemporanee”, Castelvecchi Editore, Roma ottobre 1993).
Le opere di Jenny Saville rientrano a pieno titolo nella categoria del “sublime” perché ci conducono su quel crinale sdrucciolevole
in cui è lecito affermare, come scriveva il poeta austriaco Rainer Maria Rilke, che “il bello non è che il terribile al suo inizio”. I suoi corpi monumentali e i suoi volti pieni di pathos sono frutto di una sofisticata filiazione diretta con la grande pittura dei geni rinascimentali ma filtrata attraverso lo studio delle complesse composizioni di Delacroix, della pittura scarnificata e mossa di Francis Bacon, dei grandi nudi distesi del Picasso degli anni Venti e delle sculture monumentali di Henry Moore.
Sono corpi reali in cui c’è piacere e sofferenza, e che rientrano in un fare arte slegata dalla cultura della compiacenza, perché quella di Jenny Saville è un’arte che ancora non è stata costretta ad entrare a forza nel corsetto del mi piace, è un’arte che può anche non fare star bene ma “l’arte che fa star bene è una contraddizione in termini. L’Arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper fare male, non deve essere compiacente, la compiacenza perpetua l’uguale, il dolore è invece lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro” (Byung-Chul Han, “La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite”, Ed. Einaudi Stile Libero extra).