“La separazione dei figli dai genitori minaccia il legame di attaccamento, formando un’ulteriore radice di paura e mancanza di sicurezza. Questo legame affettivo profondo e duraturo tra un bambino e il caregiver inizia nell’infanzia ed è fondamentale per il senso intrinseco di sicurezza e protezione del bambino”. Queste parole sono tratte da un articolo di Laura C.N. Wood dal titolo “Impact of punitive immigration policies, parent-child separation and child detention on the mental health and development of children”, pubblicato nel 2018 da una rivista scientifica di pediatria in cui ci si riferisce ai bambini immigrati negli USA e separati dai loro genitori. Autrice che prosegue affermando:
“Dal punto di vista neurologico, le relazioni di attaccamento guidano lo sviluppo del cervello fondamentale per la successiva maturazione fisica, emotiva, sociale e cognitiva”
L’analogia tra questa condizione e quella dei bambini separati dal genitore protettivo, di solito la madre, e rinchiusi nelle comunità per la cosiddetta terapia della minaccia (resettaggio, deprogrammazione, secondo le indicazioni della teoria nazista dell’alienazione parentale) può sembrare forzata. Ma a ben rifletterci è adeguata, perché in entrambi i casi il bambino viene staccato contro la sua volontà dalle figure di attaccamento, entrambi i genitori nel caso dei bambini immigrati, dalla madre, nella grande maggioranza dei casi, nel caso dell’alienazione parentale.
Si dirà: ma il padre? Non conta proprio nulla?
No, assolutamente, il padre è importante nello sviluppo del bambino, ma quando egli stesso rappresenta una figura di attaccamento. Se il bambino rifiuta la relazione con il padre questo significa che il padre non ha saputo porsi nei confronti di suo figlio come figura di attaccamento, non ha saputo creare tra se stesso e suo figlio un sano legame di attaccamento. Già intravedo le obiezioni: ma deve fare tutto il padre, la madre non deve fare nulla?
No, la madre non può fare nulla per favorire il legame di attaccamento tra il figlio e il padre, perché è il bambino che sceglie con chi stabilire i propri legami di attaccamento
Il bambino, come qualsiasi essere vivente, è predisposto geneticamente, biologicamente, a stabilire legami di attaccamento con gli adulti che si prendono cura di lui, che gli danno sicurezza e fiducia: ricordiamo tutti l’esperimento di Konrad Lorenz (L’anello di Re Salomone). Se proprio non si è convinti di questa tesi si consulti la letteratura in materia. L’analogia ci sta tutta, quindi. Purtroppo se non ci sono studi sulla condizione psico-fisica dei bambini rinchiusi in comunità per la terapia della minaccia è perché, contrariamente ai bambini immigrati imprigionati, la visita in queste comunità è vietata e nessuno, né parlamentari né altri, possono visitare questi bambini e accertarsi delle loro condizioni di salute.
La reazione dei bambini: dalla disperazione alla paura senza risoluzione
Inoltre l’articolo di Laura C.N. Wood prosegue chiarendo che i bambini tendono a rispondere alla separazione dal loro caregiver in tre fasi fluide. In primo luogo, i bambini entrano in una fase acuta di protesta caratterizzata da paura, angoscia, pianto e ricerca urgente del loro caregiver che può durare da poche ore a giorni. Man mano che la durata della separazione continua, i bambini entrano in una fase di disperazione durante la quale il pianto si indebolisce, il movimento diminuisce e i bambini rifiutano l’approccio di adulti alternativi. Con l’assenza prolungata dei genitori, i bambini possono diventare passivamente accondiscendenti con il personale di cura, dando l’impressione di essersi “sistemati” nel loro nuovo ambiente.
In modo preoccupante, questo può significare che il bambino si è distaccato dai genitori e ora vive in uno stato che viene da lui percepito come paura senza risoluzione
In un altro studio, intitolato “No Place for a Child” e condotto da Heaven Crawley e Trine Lester con Save the Children, si riporta che l’impatto maggiormente negativo è sulla salute mentale. “I bambini – afferma il report – possono soffrire di deterioramento della salute mentale, depressione, cambiamenti nel comportamento e confusione mentale”. Tali problemi possono avere conseguenze a lungo termine. E a tale proposito sono riportati anche problemi sulla salute fisica quali il rifiuto di alimentarsi e non essere in grado di dormire, sfiducia verso gli operatori.
Il Disturbo da stress post-traumatico: il caso di una bambina rinchiusa in comunità
Il denominatore comune di tali condizioni è la comparsa di un Disturbo da stress post-traumatico (codice DSM-5 e ICD-X F43.1), una condizione psicopatologica particolarmente grave con potenziali conseguenze negative a livello emotivo e comportamentale. Un caso emblematico della sofferenza che viene causata a questi bambini è quello da me seguito come consulente tecnico di parte in qualità di medico psichiatra.
La bambina, dell’età di circa 7 anni, venne rinchiusa in comunità alla fine del 2011 e le valutazioni fatte dai neuropsichiatri infantili incaricati dal Tribunale sono devastanti
Nel corso del 2012 alla bambina che, sino al momento di venire collocata in comunità contro la sua volontà, veniva descritta come portatrice soltanto di un non ben definito disturbo del linguaggio, oggi si riscontrano: “Vissuti di profonda sofferenza, attinenti a stati di confusione e colpa, riferibili ai recenti eventi della vita ”, “aspetti di un Sé fragile, ancora bisognoso di cure primarie, molto regredito rispetto alla sua età, di cui le difficoltà linguistiche sembrano anche essere espressione” (valutazione di aprile 2012, cioè a distanza di circa 4 mesi dal collocamento coatto in comunità). E infine: “disregolazione affettiva compatibile con una grave e prolungata trascuratezza dei bisogni psicologici della minore nell’ambito delle relazioni di attaccamento” (valutazione di poco successiva alla precedente). Sino a giungere alla valutazione di settembre 2012 dove il neuropsichiatra infantile scrive:
“Da quanto riscontrato, emergono in lei i tratti di un disturbo di personalità borderline, ma sono anche presenti rilevanti nuclei di scissione. A mio avviso la prognosi è purtroppo molto negativa”
“La bambina ha comunque delle valide potenzialità, oltre ad essere intelligente ha delle buone capacità riflessive e la voglia di essere aiutata. È urgente e necessario che questo avvenga prima che si cristallizzi uno stato patologico di maggiore gravità”. Quest’ultima valutazione giunge dopo circa dieci mesi dal suo allontanamento dalla madre e collocamento in comunità. Riporto infine un dato epidemiologico psichiatrico: l’istituzionalizzazione nell’infanzia e la separazione precoce dai genitori sono un sicuro fattore di rischio per la schizofrenia in età adulta (il riferimento è il Trattato Italiano di Psichiatria, di Cassano e Pancheri, secondo volume, pag. 1.524).