“Mio figlio denuncia gli abusi del padre ma nessuno gli crede”

A tre anni e mezzo i primi riferiti di violenza del bambino e un tampone anale che verifica lo stato delle cose: malgrado questo le denunce vengono archiviate e il minore è costretto da tribunale civile a incontrare il padre di cui lui ha paura




22 Agosto 2019, mio figlio di 3 anni e mezzo mi racconta e mima gli abusi sessuali subiti dal padre. La prima denuncia parte dall’ospedale, scatta il Codice rosso. La notizia di reato è a carico di ignoti, anche se mio figlio ha raccontato tutto all’infermiera, specificando come l’autore di quegli atti fosse il padre, violenze avvenute in casa.

Una storia di denunce inascoltate

Eppure, nonostante un tampone anale che riporta tracce di abuso e nonostante una perizia neuro-psichiatrica in cui si verifica che mio figlio non è un bimbo condizionato in quanto io, come madre, non ho mai avuto intenti vendicativi verso nessuno, la Procura archivia il caso.

Ho denunciato personalmente i fatti per altre 3 volte, specificando in questo caso, che l’autore del reato di abusi sessuali su mio figlio fosse proprio il padre e non ignoti

Una denuncia è andata persa, scomparsa dai fascicoli anche se risulta telematicamente la trasmissione alla Procura. Un’altra è stata archiviata. L’ultima è stata ricevuta e accolta, senza che nessuno però abbia mai mosso nel frattempo.

Il ribaltamento di responsabilità

Sono stata sentita innumerevoli volte dai carabinieri che mi ammonivano per le accuse “infamanti” che muovevo al padre di mio figlio. Io, unica testimone consapevole del vissuto tragico di mio figlio, sono stata accusata di calunnia e infamia da subito. Alla fine, dopo la quarta denuncia, vengo finalmente convocata in procura e qui, come spesso accade, la situazione si ribalta e vengo attaccata io, come se fossi la causa, il carnefice, come se l’abusante fossi io che denuncio.

“Signora da quanto tempo tiene lontano il bimbo dal padre e dai nonni paterni? E perché lo sta facendo?” chiede il Procuratore

“Le dico per l’ennesima volta che mio figlio ha raccontato di essere stato abusato dal padre – rispondo cercando di stare calma – e che i carabinieri mi hanno invitato a non informare nessuno per preservare le indagini in corso”. Non solo, ma i parenti dell’uomo che ha abusato mio figlio sono la sua prima rete di protezione. “Signora, ma lo dice lei che suo figlio è stato abusato”, mi viene risposto. “No! L’ha detto mio figlio!”, rispondo io. Certo, la voce di mio figlio che cosa conta? Non lo considerano neanche quello che dice lui, che cerca di far arrivare per chiedere aiuto, non esiste, non conta, e la mia voce è quella di una bugiarda che vuole mettere nei guai un padre di famiglia.

Un mare di omertà totale
I personaggi istituzionali coinvolti nella nostra vicenda non ascoltano, insabbiano, occultano, rivittimizzano, ignorando leggi e convenzioni che tutelano le vittime di violenza. Come se non esistessero, come se non fossero mai state approvate. Ed è così che nel 2021 un padre può abusare i figli senza che nessuno intervenga malgrado le denunce, i certificati, le continue richieste: un abuso sessuale non è vero, non si dice, non è possibile, è un tabù. Così continuano a ripetermi:

“Forse il bambino lo ha inventato”, “Signora è sicura di aver capito bene?”

Durante la prima udienza nella causa di separazione, il giudice ha esordito minacciandomi di mettere mio figlio in casa famiglia se non mi fossi messa d’accordo col padre e questo nonostante le segnalazioni di abusi sessuali ai danni di mio figlio da parte sua.

Rifiuto qualsiasi accordo. Rispondo al giudice che non posso lasciarmi terrorizzare dalle sue parole perché mio figlio si merita di avere giustizia

Ma il modo più comune per portare una madre al crollo, è costringerla a scegliere tra l’amore per il figlio e la paura che qualcos’altro possa fare ancora più male se non si piega alle regole di una comunità che non ascolta, una istituzione che non protegge ma anzi espone le vittime che stanno chiedendo aiuto. Regole di una cultura crudele e sconsiderata, una cultura malata.

La mannaia della Consulenza tecnica d’ufficio

A questo punto il giudice chiede una Consulenza tecnica d’ufficio per valutare le competenze genitoriali e lo stato psichico delle parti. Nell’ultimo incontro individuale con mio figlio la Ctu lo informa di volerlo far incontrare con il padre:

mio figlio si rifiuta e motiva la sua risposta, raccontando gli abusi subiti, non vuole vedere un padre che gli ha fatto certe cose

Ma lo psicologo della Ctu ignora la sua volontà e non dà ascolto alla testimonianza di mio figlio perché vuole procedere a ogni costo. La mia Consulente di parte e il mio avvocato si oppongono, ed è qui che la Ctu sferra il suo attacco frontale accusandomi di aver ostacolato tutto il percorso periziale e abbracciando la richiesta della controparte di nominare un curatore che garantisca la realizzazione dell’incontro padre-figlio. Per me un colpo al cuore, per mio figlio una condanna senza appello.

Sono tutte false accuse

Il professionista di cui il giudice si avvale per la Ctu, ignora la voce di mio figlio decretando la falsità del suo racconto solo perché il penale ha archiviato la prima denuncia di abusi, senza quindi tener conto né delle successive né dei certificati, né della volontà di un bambino che ha paura.

Quando poi compare un nuovo giudice in udienza la cosa si complica ancora di più, perché anche lui esordisce minacciandomi, più o meno come il primo, di mettere mio figlio in casa famiglia se non trovo un accordo con il mio ex

E questo senza aver preso visione di tutta la memoria e i documenti che abbiamo depositato, né aver ascoltato direttamente il minore, malgrado il grave sospetto di abusi sessuali. Ma io non mi faccio prendere dallo sconforto e rispondo che se mio figlio alla sola vista di una persona lontanamente somigliante al padre, scappa, urla, piange e si rannicchia su se stesso. “Io non lo porto mio figlio a morire, signor giudice”, è la mia risposta. Il giudice si riserva di rispondere, noi stiamo cercando di sopravvivere nel terrore

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