Brutte, sporche e cattive ma quando serve non ci sono mai: stereotipi contro le femministe

Un movimento che ha portato alla conquista di diritti oggi irrinunciabili e che contribuisce al progresso della civiltà, e che ancora oggi viene stigmatizzato attraverso pregiudizi: come il patriarcato scredita le donne che si battono per tutte

Judith Pinnock
Judith Pinnock
Psicologa e psicoterapeuta italo inglese, è esperta di linguaggi e comunicazione di genere. Ha scritto "A Tavola con Platone" e "Bella CostituZIOne" (Ferrari Sinibaldi).



Alcuni fatti di cronaca escono da quegli schemi che consentono di sfruttare la violenza e la discriminazione contro le donne per cavalcare temi politici. Si tratta in genere di temi che conducono ad altri pregiudizi ed esclusioni. In questi casi c’è sempre qualcuno o qualcuna che grida a gran voce: “e le femministe dove sono? Perché non dicono nulla?” Naturalmente è avvenuto anche per il caso recentissimo della giovane pakistana Saman, uccisa perché rifiutava il matrimonio forzato, e i sottintesi rendono necessario smascherare un’altra mistica, quella del femminismo.

Come dovrebbe essere una femminista?

Comincio dalle aspettative. Come dovrebbe essere una femminista? Per lo più dolce, sorridente, accomodante, comprensiva ma, sopra ogni cosa, accudente. L’ideale è quella donna che inizia a parlare asserendo “sia chiaro, non sono femminista, penso che il fatto di cronaca sia un po’ triste, ma purtroppo oggi il mondo va così”.  Altre asserzioni molto accettate: la violenza è sempre negativa da qualunque parte venga (sottintende che anche le donne sono violente), la mamma è sempre la mamma ma anche i papà sono importanti (cerchiobottista), ma i genitori dove sono? (evoluzione del se l’è cercata, cioè la vittima se l’è cercata ma per colpa dei genitori assenti).

L’importante, in ogni caso, è che la femminista sia soprattutto femminile, quindi niente toni accesi, no radicalismi, sì profilo basso

Se si segue questo schema otterremo l’approvazione di molte donne e di molti uomini, i quali potranno anche replicare spiegandoci meglio e dettagliatamente come dobbiamo condurre le nostre lotte. Se facciamo altrimenti, la reazione che scateneremo sarà: “ecco, ci mancava la solita femminista”, o meglio come mi è stato detto di recente, “sei troppo femminista”, che equivale a dire “sei troppo essere umano” o “vuoi esistere troppo”. Si tratta insomma di un gioco di equilibri, e di ricordare il dilemma morettiano del mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? E potremmo anche noi optare per la strategica conclusione “Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Femminista, parla con noi dai!” E io: “Parlate, parlate, vi raggiungo dopo”.

L’accusa di non fare mai abbastanza

Entrando nello specifico delle lotte, l’accusa, in genere fatta da altre donne, è che non facciamo abbastanza o non diciamo abbastanza. Qui nasce una grande perplessità. Nelle piazze, nei discorsi, nelle centinaia di iniziative che costruiamo con grande generosità e grande fatica, dove sono quelle che chiedono dove siamo? Sarà un problema di gps farlocco che non ci fa geolocalizzare? O sarà che chi ci accusa vorrebbe in realtà chiedere a se stessa perché non c’era, perché non ha detto, perché non ha fatto. La partecipazione è difficile, è faticosa, lo sappiamo.

Negli anni ’70 andavamo nelle periferie con un megafono, gridavamo i nostri slogan e, quando le donne casalinghe si affacciavano incuriosite alle finestre, gridavamo “scendi giù! Vieni a parlare con noi!”. Alcune scendevano, si riconoscevano sorelle, parlavamo soprattutto di sessualità, di come non ci fosse solo quella imposta dai mariti secondo i loro bisogni ma anche la nostra.

Tante non sapevano neanche di possedere una clitoride, di poter provare piacere. Il primo tassello di una rivoluzione. I tempi sono cambiati, oggi un megafono sarebbe anacronistico, ma non è cambiata la capacità del patriarcato di cancellare la nostra esistenza

Il lavoro sotterraneo delle femministe

Qual è allora il lavoro delle femministe? Chiediamoci piuttosto dove è. È spesso sotterraneo, nascosto, nello sforzo enorme di tenere insieme la lotta e il rispetto per altre donne. Conosco uomini della politica che non hanno pudore nel farsi fotografare davanti al cancello di una fabbrica, sullo sfondo le operaie e gli operai in agitazione, anche se hanno ampiamente contribuito a promulgare leggi e contratti iniqui. Le femministe che sostengono donne vittime di abusi e violenze non le mettono in piazza, non fanno selfie, non usano le storie delle altre per farle diventare la propria storia. Giorgio Gaber in suo testo estremamente efficace diceva del resto: “La parola io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno. È un bisogno esagerato e un po’ morboso, è l’immagine struggente del Narciso”.

Sappiatelo: ci sono donne che hanno messo a disposizione di altre la propria competenza professionale anteponendo l’interesse di quelle donne al proprio, esponendosi, rischiando in prima persona

Avvocate, giornaliste, psicologhe, giusto per citare i profili più ovvi, che hanno ricevuto a loro volta minacce anche gravi proprio per essersi esposte. Che hanno avuto paura per sé e per i propri familiari ma che hanno continuato a dedicarsi a ciò che ritenevano necessario per le altre, sapendo che sarebbe stato a vantaggio di tutte. Ma perché tante donne sentono la necessità di premettere al proprio discorso di non essere mai state femministe? Rientra nella tendenza, che ho descritto in un altro articolo, di chiedere scusa anticipatamente per lo spazio pubblico che ci si prenderà.

Il femminismo non è il contrario di maschilismo

Rientra anche nel tentativo di mettere a tacere qualsiasi dibattito politico di chi sostiene che le posizioni opposte sono identiche: comunismo e fascismo hanno fatto danni allo stesso modo, così come maschilismo e femminismo sono sbagliati perché agli estremi. Peccato che il femminismo non sia affatto il contrario del maschilismo: il secondo si basa sulla “naturale” differenza che rende gli uomini adatti al logos e al comando, le donne alla cura e alla riproduzione, con tutti gli stereotipi che questa visione binaria comporta. Il femminismo invece pensa che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini. Questo fermandosi a una definizione grossolana del movimento, che dai suoi inizi è stato capace di grandi evoluzioni e approfondimenti, grazie alla costante opera di riflessione su di sé di quelle femministe che chissà dove sono e cosa fanno.

Donne che danno fastidio

Ma le femministe danno fastidio, con un lungo filo rosso che va da quando le si definiva frigide, mascoline, tutte peli e niente sesso, fino ad arrivare alle accuse più recenti di grammarnazi o nazifemministe per la pretesa di essere nominate e di veder riconosciuta la nostra esistenza. La presa di coscienza femminista implica di assumere una posizione molto scomoda, chi lo è lo sa. Il privato non può prendere strade diverse rispetto al politico, quindi le nostre scelte personali che riguardano le relazioni, i ruoli lavorativi, le decisioni della nostra vita non possono che essere coerenti con quella strada che faticosamente liberiamo da detriti e ostacoli.

Le femministe vivono scomode e devono provocare scomodità. Il patriarcato ha un’abilità enorme nell’appropriarsi dei nostri simboli, delle nostre azioni, e trasformarle in nuovi detriti di cui disseminare quella strada percorsa

Dobbiamo essere molto vigili. Per esempio, è stato necessario ideare simboli della lotta contro la violenza, ma se oggi alle inaugurazioni delle panchine rosse sono presenti i sindaci forse dobbiamo abbandonare quel simbolo e cercarne subito un altro che dia fastidio, che trasgredisca, che renda scomodo agli uomini quel loro camminare sicuri su strade ampie e ben lastricate.

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