Un ristorante, quattro amici, Martin (Mads Mikkelsen), Tommy (Thomas Bo Larsen), Peter (Lars Ranthe) e Nikolaj (Magnus Millang). Tutti insegnanti. Età diverse, vite differenti, uniti però dalla stanchezza del vivere, dal tedio delle loro esistenze. Parlano, scherzano, bevono qualche bicchiere come fanno solitamente quando sono insieme. Ridono di uno studio secondo cui il fisico umano manca di alcune proprietà che solo l’alcol può dare.
Servirebbe una dose “omeopatica”, curativa alcolica. Saremmo migliori, tutto sarebbe più sopportabile
La crisi dello stereotipo dell’uomo medio
Inizia da questo principio “Un altro giro”, il film di Thomas Vintenberg, padre assieme a Lars Von Trier del movimento Dogma (il suo primo film è il bellissimo “Festen”), che ha vinto il premio Oscar 2021 per il miglior film straniero. A portare sullo schermo questa tragedia dell’uomo moderno è Mads Mikkelsen che grazie al suo grande talento e al suo indiscusso carisma, è diventato il perfetto narratore di cicatrici e oscurità, di drammi profondissimi, di terribili “Frankestein” di carne e ossa dai passati misteriosi o dai presenti a volte ancora più inquietanti. Mikkelsen è il perfetto corpo per mettere in scena il cinema ossessivo del regista, con cui ha lavorato già in “Il sospetto”. in “Un altro giro” è al servizio dell’ennesima gigantesca provocazione etica, morale, psicologica, dell’intossicazione leggera, dell’alterazione volontaria del vivere nella norma.
Potrebbe essere un racconto su alcolismo e repressione, un atto d’accusa contro una borghesia che vorrebbe mostrarsi per ciò che non è, ma “Un altro giro” è qualcosa di più
È una fotografia spietata ma anche profondamente umana sullo stereotipo dell’uomo medio che va in crisi perché non si ritrova più in quel ruolo, a partire dalla sua incapacità di stare al passo con se stesso e il “proprio tempo”: un inno alla vita tra le maglie di un canto di morte e tristezza. È una ricerca che si fonda su riti tribali e dionisiaci feroci, su riti d’iniziazione, di un mondo vichingo declinato nell’oggi, che riporta alla mente il vichingo di “Valhalla Rising” (Nicolas Winding Refn) in cui Mikkelsen combatte fino allo sfinimento con ogni parte del suo corpo, perdendo pezzi di sé nella battaglia.
I quattro amici decidono: proviamo, beviamo un paio di bicchieri al giorno per colmare il deficit d’alcol con cui si nasce che ci fa stare sempre un passo indietro, implementiamo il buco nero e vediamo che cosa succede. I primi risultati sono eccezionali: Tommy, Peter, Nikolaj, Martin da fantasmi, da uomini “a metà” che riescono a fare poco, diventano professori migliori, compagni migliori, esseri umani migliori. Se basta uno 0,05 per essere più amati, apprezzati, idolatrati, figuriamoci se il tasso alcolemico aumenta, e a quel punto lo schema cade o comunque vacilla. “Un altro giro” è da una parte un racconto disperato di uomini disfatti, soli e schiacciati dalle fatiche, dalle quotidianità e dal senso di inadeguatezza che li opprime, dall’altra è un’ode all’amicizia, al superamento dei propri limiti, paradossalmente, nonostante tutto, alla vita.
Martin-Mikkelsen è un marito assente, un padre quasi inesistente non perché incapace ma perché è ormai diventato pallida immagine di sé stesso: per questo beve, per questo trova rifugio nelle bottiglie, dolce ambrosia di un maschio molto lontano dall’essere un dio
Mikkelsen e la sua lista di antieroi
Mikkelsen non ha mai avuto paura di interpretare personaggi fragili, in balia dei propri mostri. Indaga come pochi altri vizi, ossessioni, i confini più infimi dell’animo umano. È un maschio diverso, moderno anche nel suo racconto delle emozioni. Martin nei primi minuti si mostra commosso di fronte ai suoi compagni di bevute, nudo in tutta la sua più “crudele” e “misera” vulnerabilità, niente maschera da macho, niente frasi ad affetto, ma occhi lucidi e parole che si spezzano in gola. Non teme di mostrarsi meno uomo di fronte alla moglie quando si rende conto che sta per perdere tutto.
Dà corpo a una mascolinità che rompe schemi e stereotipi, non è l’eroe classico, è un antieroe con cui lo spettatore empatizza
Per esistere Martin deve bere e solo nella sospensione alcolica riesce a sorridere, a essere felice, padre e marito, un eroe disperato che barcolla tra i corridoi della sua scuola. Si rende conto troppo tardi di aver vissuto da zombie, di aver perso molto, dimenticandosi quanto fosse bello vivere, ed è proprio grazie a questo assurdo e folle viaggio nell’alcol che si risveglia dal torpore, tornando a provare emozioni, a vibrare di dolore, di rassegnazione, che è pronto a danzare e a liberarsi forse definitivamente da quella prigione in cui si era costretto negli ultimi anni. Un Martin che potrebbe essere fratello, amico, figlio del Tonny della trilogia “Pusher” (Refn), uomo svirilizzato, depotenziato, ai margini. Uno che si droga perché non è capace di avere un rapporto maturo col padre, che per sentirsi uomo è costretto a usare uno slang da capo banda e un’amante che è un oggetto da usare per il proprio piacere.
Il bel tenebroso che ribalta lo stereotipo
L’uomo di celluloide di Mikkelsen abita lo schermo e si sente in tutta la sua carnalità: il volto e i lineamenti forti, gli zigomi alti di uomo deciso, il corpo atletico, frutto degli anni da ginnasta e danzatore che gli conferiscono un aspetto elegante e un portamento fiero. Lui incarna ormai e sempre di più l’antieroe, o meglio il cattivo con l’anima che, anche se dannata, presenta le tante sfaccettature dell’essere che trasforma anche il personaggio più terribile in un uomo che ha il sapore di una umanità perduta ancora vagamente presente nel suo dna. Un profilo che in “Casinò Royale” (Martin Campbell) gli fa vestire i panni del malvagio Le Chiffre, nemico di Bond (Daniel Craig), un uomo spietato e senza scrupoli con un bagaglio però intrinsecamente fragile.
Una filmografia in cui i suoi “personaggi cattivi” non sono “infrangibili” ma in trasformazione costante:uomini soggetti a cambiamenti incontrollabili che passano dal tossicodipendente al serial killer, fino ai protagonisti delle saghe più famose. Come il Galen Erso di “Rouge One: A Star Wars Story” (Gareth Edwards) ma anche il Kaecelius di “Doctor Strange” (Scott Derrickson), tratto dai fumetti della Marvel. Emblema di questa capacità trasformativa che rende anche il più terrificante e crudele degli assassini in un uomo capace di sentire, non privo di fascino, è il suo Hannibal Lecter, personaggio principale della serie tv “Hannibal”.
Un ruolo che gli ha dato la possibilità di entrare in un immaginario di genere, trasformando quello stesso immaginario attraverso l’interpretazione di quel personaggio stesso
Due facce della stessa medaglia
L’Hannibal di Mads Mikkelsen è un dandy crudele, un killer che disprezza maleducazione e volgarità: è l’antieroe con tutte le caratteristiche dell’eroe (bello, elegante, razionale, intelligente, affascinante, colto), contrapposto all’eroe della serie, Will Graham che invece appare debole, fragile, insicuro. Eppure la capacità che l’eroe ha di calarsi nei panni dell’antieroe, quando ricostruisce le diverse scene dei complessi delitti, fa riflettere sul fatto che si tratti in fondo di due facce della stessa medaglia. Dato che senza l’antieroe, l’eroe si sgretola, non esiste, sparisce.
Ed è per questo che tra i due si instaura un rapporto speciale, intenso, omoerotico: due moderni Achille e Patroclo. Lecter è un cannibale che si ciba delle carni di altri da lui uccisi e considerati scarti, impadronendosi così della loro essenza e trasformando se stesso in una versione sempre più evoluta, tesa al divino. Vive la sua bestialità in modo normale e sublima la carne umana cucinandola con ricette gourmet riposte gelosamente in uno schedario. Nella sua ordinatissima cucina, Lecter si muove come un raffinato chef riponendo e congelando cuori, intestini, fegati, polmoni e anche gambe umane di chi ha ucciso in modi del tutto imprevedibile, creando piccoli capolavori che offre agli ignari ospiti.
Un ruolo in cui Mikkelsen mette la giusta dose di mistero, sensualità, imprevedibilità grazie al suo aspetto algido dietro il quale può celarsi qualsiasi sentimento
I prossimi “cattivissimi” film
Un ruolo interpretato così intensamente da essere richiesto nel cast del terzo capitolo di “Animali fantastici e dove trovarli” (nelle sale il 15 luglio 2022) dove interpreta il cattivo per eccellenza: il potente e carismatico mago Gellert Grindelwald, amico e antagonista di un giovane Silente (Jude Law), sostituendo Johnny Depp (licenziato da Warner Bros. per le accuse di violenza domestica della ex moglie Amber Heard). Ma non basta, perché Mikkelsen sarà anche in “Indiana Jones 5” dove sarà ovviamente un cattivissimo ex-scienziato nazista nell’ambito della “Operation Paperclip”: un programma segretissimo con cui gli Stati Uniti reclutarono menti naziste dopo la II Guerra Mondiale per contribuire al programma Apollo. Il film, girato da James Mangold e la cui uscita è prevista per il29 luglio 2022, si svolgerà negli anni ’60 sullo sfondo della corsa spaziale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica per raggiungere la Luna.