Violenza sulle donne: perché i giudici italiani vengono condannati a livello internazionale?

La Corte europea per i diritti umani bolla l'Italia per aver violato l'art.8 in un giudizio per stupro ma le sentenze da verificare nei tribunali sono ancora tante: le norme non sono attuate in quanto esiste una spinta reazionaria

Teresa Manente
Teresa Manente
Avvocata penalista esperta in gender violence, Responsabile dell'ufficio legale di Differenza Donna e consulente giuridica della Commissione di inchiesta parlamentare sul femminicidio e su ogni forma di violenza. Ha pubblicato "La violenza nei confronti delle donne dalla Convenzione di Istanbul al Codice Rosso" (Giappichelli)



La Corte europea per i diritti umani il 27 maggio 2021 è di nuovo intervenuta a condannare l’Italia per l’inadeguatezza della risposta che lo Stato italiano offre alle donne che denunciano violenza sessuale, pronunciandosi a seguito di ricorso presentato dalle avvocate Sara Menichetti e Titti Carrano in rappresentanza di una giovane donna che ha denunciato non solo una violenza sessuale di gruppo a Firenze, ma anche la violenza istituzionale dei giudici che in secondo grado hanno assolto gli imputati con una motivazione incentrata su stereotipi e pregiudizi sessisti, con una valutazione soggettiva delle sue abitudini sessuali e delle sue scelte intime e personali, e non sulla base di prove oggettive.

Perché i giudici italiani sono stati condannati

I giudici fiorentini, secondo la Corte EDU, hanno stigmatizzato la vita personale, familiare e sessuale della giovane donna, ponendo alla base delle loro decisioni stereotipi e pregiudizi sessisti, con una sistematica violazione del suo diritto alla riservatezza nel contesto del processo, che si è tenuto in pubblico e ha ricevuto un’ampia copertura mediatica.

La Corte EDU ha ritenuto i passaggi della sentenza della Corte d’appello di Firenze che si riferivano alla vita personale della ricorrente in violazione dell’articolo 8 CEDU con argomenti non utili per valutare la credibilità della donna

Una questione che avrebbe potuto essere esaminata alla luce delle numerose risultanze oggettive del procedimento, né sono stati decisivi per la risoluzione del caso. Ancora, secondo la Corte EDU, i diritti e gli interessi della ricorrente ai sensi dell’articolo 8 CEDU non sono stati adeguatamente protetti alla luce del contenuto della sentenza della Corte d’appello di Firenze, sottolineando come la redazione della sentenza costituisca una parte integrante del procedimento penale della massima importanza, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico in cui, anche in questa fase, è necessario evitare la vittimizzazione secondaria.

Il codice penale e le norme europee

Le norme del codice di procedura penale sin dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66 contro la violenza sessuale prevedono dei correttivi richiesti a gran voce proprio dal movimento delle donne.

Donne che nei processi per violenza sessuale venivano messe sotto accusa per le loro abitudini e la loro vita sessuale, per il loro vestiario e la condotta “licenziosa”

Elementi che, secondo il pregiudizio diffuso, sarebbe da ritenersi una provocazione dell’aggressione sessuale, così come documentato dallo storico film “Processo per stupro” del 1979 di Loredana Rotondo. I filtri del codice di rito sono stati integrati negli ultimi anni dal Diritto internazionale (Convenzione di Istanbul), e dal Diritto dell’Unione europea (Direttiva 2012/29/UE), ma l’esperienza della ricorrente che a Firenze ha denunciato di aver subito uno stupro di gruppo conferma la validità di quanto scriveva Lia Cigarini alla vigilia dell’approvazione della legge 66/1996 sulla violenza sessuale, ovvero che per quanto si possa scrivere una legge buona:

“La macchina della giustizia è tutta un’altra cosa: in tribunale, in un processo si riproducono rapporti di forza determinati e sfavorevoli alle donne”, e ciò a causa della cultura della stupro che ancora predomina nella nostra società

La vittimizzazione secondaria: i casi in sospeso

Molte, troppe donne sono però lasciate ancora in balia di molteplici forme della cosiddetta vittimizzazione secondaria, cioè collegata alle regole procedurali, ma anche alle prassi e al trattamento discriminatorio loro riservato sin dalla presentazione della denuncia e poi lungo tutto l’iter giudiziario. Per avere la misura concreta dell’impatto degli stereotipi sessisti sull’accesso alla giustizia delle donne in Italia è significativo il caso F.c. Italia introdotto dinanzi al Comitato CEDAW (Comitato che monitora l’attuazione della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) nel 2018 da chi scrive e dall’avvocata Ilaria Boiano, e attualmente in attesa di decisione (Comitato CEDAW, F.c. Italia, caso n.148/2019).

Il caso di una donna che ha denunciato uno stupro da parte di un carabiniere dell’ufficio dove lei aveva sporto denuncia per maltrattamenti da parte dell’ex marito

La donna ha riferito che con la scusa di dover fare indagini a seguito della denuncia, l’agente è entrato in casa e l’ha costretta a subire atti sessuali. Traumatizzata e impaurita, la donna, dopo la violenza e l’allontanamento dell’uomo da casa, ha chiesto aiuto ad alcune amiche e poi si è rivolta al pronto soccorso ginecologico. Ma aveva paura di presentare denuncia, dal momento che l’uomo sin dall’aggressione continuava a molestarla e a minacciarla telefonicamente e di persona di ritorsioni ai suoi danni in caso di denuncia. Nonostante ciò, la donna si è determinata a presentare denuncia a causa della perdurante persecuzione subita dall’aggressore.

Ricorso alla Cedaw su un carabiniere denunciato per stupro

In primo grado l’uomo viene condannato a sei anni di reclusione, ma in secondo grado la Corte di appello ribalta la sentenza, assolvendo l’agente sulla base di motivazioni intrise di stereotipi e pregiudizi sessisti. In particolare la Corte di appello di Cagliari  parte dal presupposto che la donna avesse falsamente denunciato l’agente per vendicarsi dell’uomo che non avrebbe voluto, a dire della Corte, continuare la relazione con lei.

Il ragionamento della Corte è il seguente: la donna, percependo il disinteresse dell’uomo nei suoi confronti avrebbe maturato la consapevolezza di essere stata, usando le parole dei giudici di secondo grado, “un semplice oggetto di piacere usa e getta

Di conseguenza la donna, secondo i giudici, avrebbe a quel punto formulato le accuse di violenza sessuale in modo tale da poter, da un lato, accedere alla visita ginecologica d’urgenza “senza rovinarsi la reputazione” e dall’altro vendicarsi del carabiniere “che aveva abusato del suo cedimento alla passione erotica in un frangente della sua vita in cui lei era particolarmente turbata”. Il Comitato Onu è stato chiamato così a valutare la coerenza e conformità dell’operato delle autorità italiane con gli obblighi derivanti dalla CEDAW, su un processo di vittimizzazione secondaria da parte dello Stato italiano in quanto la donna è stata discriminata dalle autorità pubbliche, compreso il sistema giudiziario.

La pronuncia assolutoria, infatti, è censurata quale esito di una violazione degli obblighi positivi dello Stato parte ai sensi degli articoli 2 (b) (c), (d), (f), 5 (a), 15 (1) della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. In generale, si chiede al Comitato CEDAW di raccomandare all’Italia una riforma dei reati contro la libertà sessuale incentrando le fattispecie sul consenso e adottando azioni sistematiche di riforma finalizzate a modificare la cultura giudiziaria.

misure di sensibilizzazione per tutto il personale del sistema giudiziario e per chi studia legge, al fine di eliminare gli stereotipi di genere in tutti i settori del sistema, smascherando i pregiudizi sessisti

Caso Tuccia: attiviste denunciate per diffamazione

Non si può ignorare che pure il legittimo diritto di critica delle attiviste femministe alle prassi discriminatorie nei confronti delle donne è sempre di più esposto ad attacchi, e criminalizzazione. Tra i molti casi che si sono registrati nella storia recente del nostro ordinamento, ricordo il processo penale nei confronti dell’ex militare Francesco Tuccia, condannato definitivamente a sette anni e otto mesi di detenzione per violenza sessuale ai danni di una giovane studente ridotta quasi in fin di vita.

Secondo quanto documentato dalle attiviste che hanno presenziato alle udienze del processo, ogni grado del giudizio ha esposto la giovane donna a nuove e ulteriori umiliazioni. Le attiviste che hanno osato criticare pubblicamente questa azione discriminatoria, sono ora in attesa del giudizio di appello avverso la sentenza che le ha condannate per diffamazione.

dai casi concreti emerge che l’adesione agli atti internazionali sui diritti delle donne non è motivata da un’autentica condivisione per il progetto di cambiamento culturale e sociale necessario

Anzi, alla refrattarietà degli operatori alla concreta implementazione delle norme, si aggiunge una forte spinta reazionaria, alimentata dalla diffusa attitudine a giustificare gli autori di violenza con le più disparate motivazioni, arrivando così ad alimentare una narrazione pubblica che ancora condona la violenza sessista. Un rafforzamento che agisce a livello simbolico, con prassi discriminatorie che rendono alle donne difficile non solo ottenere giustizia, ma anche avere il coraggio di chiederla.

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