Processi e pratica femminista: l’avvocata, i centri antiviolenza e l’affidamento tra donne

"La violenza nei confronti delle donne dalla Convenzione di Istanbul al Codice Rosso", il libro che spiega cos'è cambiato

Teresa Manente
Teresa Manente
Avvocata penalista esperta in gender violence, Responsabile dell'ufficio legale di Differenza Donna e consulente giuridica della Commissione di inchiesta parlamentare sul femminicidio e su ogni forma di violenza. Ha pubblicato "La violenza nei confronti delle donne dalla Convenzione di Istanbul al Codice Rosso" (Giappichelli)



La questione dei diritti e delle libertà delle donne è intrinsecamente legata al tema della violenza. È un assunto che ha fatto eco in tutta la comunità internazionale nella sua drammatica verità a partire dalla Raccomandazione generale n. 19 del Comitato CEDAW (Onu, ndr) che ha affermato per la prima volta l’equazione tra violenza e discriminazione:

“La definizione di discriminazione comprende la violenza di genere, vale a dire, la violenza che è diretta contro le donne in quanto donne, o che colpisce le donne in maniera sproporzionatA”

Il ruolo dell’avvocata che assiste una sopravvissuta

Come avvocata penalista assisto nel processo penale donne che hanno avuto nella loro vita esperienza di violenza maschile. Questa scelta non è stata per nulla facile, sia sul piano politico sia su quello professionale. Sul piano professionale, presentarsi in un’aula di tribunale come avvocata della parte civile, venticinque anni fa, era una sfida continua: prevaleva infatti la cultura giudiziaria per la quale la vittima del reato, e quindi la sua rappresentante, è da considerarsi solo un’appendice della pubblica accusa, un intralcio alla giustizia penale. Sul piano politico, nell’ambito del movimento femminista rappresentare e difendere le donne che decidono di denunciare:

usare il diritto penale come strumento di difesa dei loro diritti lesi dalla violenza di genere, mi ha collocato in una posizione di continua resistenza

Prendere in mano i codici con competenza tecnica e responsabilità politica, termini nei quali intendo la pratica femminista del processo, ha consentito e consente a mio avviso di apportare una critica permanente alla struttura portante del sistema giuridico, ancora fortemente androcentrico a livello di diritto positivo così come sul piano dell’argomentazione e interpretazione, ma anche di “fare” diritto a partire dall’esperienza delle singole donne, operando un controllo socio-politico sul sistema processuale, i suoi attori (magistratura, avvocatura, polizia giudiziaria e dei soggetti ausiliari quali consulenti tecnici o assistenti sociali) e le prassi prodotte.

In cosa si traduce la pratica femminista del processo?

Per cominciare ad abitare il processo penale da femminista è stato necessario sostituire alla cornice usuale di esercizio della professione connotata da individualismo e protagonismo, concorrenza e logiche di mercato, una “trama di rapporti significativi che toglie dall’isolamento e dall’omolo­gazione al modello maschile le donne che operano nel campo del diritto” .

Fondamentale per la costruzione della relazione con le donne che richiedono di essere rappresentate, è un incontro fondato sulla narrazione dell’esperienza del vissuto della violenza

Così come della partecipazione processuale, confronto mai duale, ma sempre collettivo, ciò per rimarcare la politicità pure delle strategie difensive da dispiegare. L’affidamento della donna parte in causa alla donna-avvocata così inteso è stato individuato già nel volume “Non credere di avere dei diritti”, come modalità della relazione che sovverte i criteri con cui i professionisti sono scelti e si confrontano tra loro: andando oltre i titoli professionali, l’affida­mento tra donne rimanda infatti a competenze più profonde che chiamano in causa il “valore dell’esperienza femminile in un campo dove non era tenuta in conto”.

Inoltre, alla logica della subalternità del cliente al professionista in ragione delle sue competenze tecniche, si sostituisce quella definita dal riconoscimento di reciproca autorevolezza determinata dal valore dell’esperienza, dell’una che agisce nel processo per conto dell’altra che ha vissuto la violenza.

Lo strumento per la pratica processuale femminista parte dalle relazione tra donne, è la presa di parola delle donne parti in causa

Sia delle avvocate, nella forma scritta degli atti difensivi sia nell’oralità, e sia delle operatrici dei centri antiviolenza in quanto testimoni “esperte”.

La parola delle donne

Del silenzio delle donne che hanno fatto esperienza di violenza maschile si è già detto e scritto molto, ma non è inutile riprendere il tema dal punto di vista della sua importanza nella formazione della nostra cultura giuridica: arrivare a nominare la violenza nelle sue molteplici sfaccettature e portarla nei tribunali come “manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”, è l’esito di un lungo percorso collettivo (condotto nello spazio del centro antiviolenza) volto a restituire a ciascuna donna il valore dell’atto di prendere parola sulla propria vita e veicolare la ratio dell’attività valutativa del giudicante, che ancora può trasmettere nel dispositivo processuale antichi pregiudizi sessisti divenuti parametro legale di valutazione della testimonianza delle donne.

Da questa forma di partecipazione deriva la pratica attuale dei centri antiviolenza che non lasciano mai sole le donne quando sono chiamate a comparire in aula

Tina Lagostena Bassi

In particolare in vista della testimonianza in sede penale, ma anche nelle udienze di separazione o dinanzi al Tribunale per i minorenni, le donne sono accompagnate oltre che dalla loro avvocata anche dalle operatrici dei centri antiviolenza in funzione sussidiaria rispetto alle lacune strutturali e organizzative degli uffici giudiziari. Anche poco prima di entrare in aula per testimoniare, le donne corrono il rischio di essere intimidite dall’imputato o dai suoi familiari.

Le operatrici dei centri antiviolenza

Le operatrici dei centri antiviolenza sono presentate all’autorità giudiziaria come testimoni dirette della condizione psicofisica delle donne al momento in cui si sono rivolte al centro antiviolenza sia indirette, cioè depositarie della narrazione della donna della situazione di violenza vissuta. Le dichiarazioni così rese concorrono a supportare la testimonianza della donna parte lesa.

Dieci anni fa la difesa degli imputati non lasciava neppure lo spazio fisico per la parte civile nel banco dei difensori: ricordo che prendere la parola significava togliere il microfono alle altre parti

Esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa (previsti dal codice di procedura penale del 1989) coincideva con una sfida a una tradizione processuale che vedeva l’avvocata di parte civile un soggetto “fuori luogo” cui si confaceva una presenza silente, argomentando in termini di legittimazione processuale limitata e di “buon comportamento”. La pratica femminista del processo ha prodotto diritto giurisprudenziale prossimo all’esperienza delle donne che decidono di adire l’autorità giudiziaria per difendere la loro libertà e riequilibrare il rapporto di forza costruito dalla violenza.

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Estratto dal libro La violenza nei confronti delle donne dalla Convenzione di Istanbul al Codice Rosso”, Teresa Manente (a cura di), Prefazione di Fabio Roia 

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