“Noi donne, in tutta la nostra vibrante e favolosa diversità, siamo testimoni della crescita delle aggressioni contro lo spirito, la mente e il corpo umano, e la continua invasione ed assalto contro la terra e le sue diverse specie. E siamo infuriate”. Questa era la frase di apertura del primo numero del trimestrale Marea del 2001, che a giugno, un mese prima del G8 di Genova, organizzò PuntoG, appuntamento internazionale di donne che aprì i forum tematici per un’altra globalizzazione, contro il neoliberismo selvaggio e inumano.
La frase era presa in prestito da un documento internazionale che portava la firma, tra le altre, della scienziata indiana femminista Vandana Shiva, madre della critica radicale alla globalizzazione neoliberista, nativa di una delle regioni del mondo maggiormente nel mirino delle multinazionali per la sua straordinaria biodiversità, la voce più complessiva del movimento mondiale a favore della condivisione universale ed equa delle risorse.
Per raccontare gli effetti perversi della globalizzazione, Vandana Shiva ha iniziato dal riso, agricoltura e monocolture della mente
(non culture, proprio “Colture”, che è anche il titolo di un suo famoso e rivoluzionario libro del 1995). Confermando che cultura, quindi sapere, e coltura, quindi cibo e modo di produrlo, sono strettamente connesse. Siamo, anche, ciò che mangiamo: si fa politica, e si vota, anche semplicemente con il carrello della spesa, come afferma spesso padre Alex Zanotelli. Vandana dunque parla con la voce dell’ecofemminismo che affonda le sue radici nell’analisi della vita quotidiana, proprio laddove l’omologazione della globalizzazione mina alle fondamenta l’autonomia di milioni di persone nel continente indiano: “Le varietà miracolo di riso introdotte in India nella Rivoluzione Verde, ad esempio – racconta Shiva nel suo “Biopirateria” (Cuen 1999) – hanno eliminato migliaia di varietà locali di riso, introducendo al loro posto le varietà standard dell’International Rice Research Institute (IRRI)”.
“Hanno distrutto la diversità dei raccolti realizzati con i metodi tradizionali – continua Shiva – e a causa dell’impoverimento della diversità i nuovi semi hanno finito per favorire la proliferazione degli insetti nocivi. Le varietà indigene sono resistenti agli insetti nocivi e alle malattie locali. Se si verifica una malattia, alcune famiglie possono esserne colpite, ma ce ne sono sempre altre in grado di sopravvivere. Quello che succede in natura si ripresenta anche nella società. Quando l’omogeneizzazione viene imposta a differenti sistemi sociali, le parti iniziano a disintegrarsi l’una dopo l’altra. La globalizzazione non ricerca affatto l’equilibrio ecologico su scala planetaria. E’ la rapina messa in opera da una classe, da una razza, e spesso da un solo genere, nonché da una singola specie su tutte le altre”.
A vent’anni da allora, i temi che ruotano intorno al rapporto tra l’umanità, la terra e le sue risorse sono ancora al centro della politica, con una urgenza senza precedenti. I movimenti ecologisti premono perché soprattutto le nuove generazioni siano sensibilizzate e alfabetizzate verso un’idea, una visione e una pratica di consumo sostenibile. L’ecofemminismo ha, fin dalla sua nascita, dato grande valore anche al cambiamento individuale come motore di quello collettivo, sostenendo che
l’oppressione subìta dalle donne e il deterioramento ambientale sono prodotti dagli stessi valori patriarcali che generano ingiustizie
Comune denominatore nella riflessione su questo tema è quindi il collegamento tra le violenze agite sulle donne (di ogni cultura e latitudine) e la rapina delle risorse del pianeta ad opera di una società patriarcale che ha indotto, utilizzando guerre e violenze, uno sviluppo insostenibile senza limiti di cui beneficia una parte molto ridotta dell’umanità, mentre la povertà aumenta dovunque. Imprenditori, banchieri, politici e dirigenti che lo hanno perseguito, e tutti quelli che ne sono stati convinti sostenitori, (generalmente maschi), si sono resi responsabili del surriscaldamento e avvelenamento della Terra: una denuncia che oggi ha il volto e il corpo dell’adolescente svedese Greta Thunberg, punto di riferimento di tante e tanti che hanno riempito le piazze in tutto il mondo. Ma anche quello inaspettato di Jane Fonda, ritratta nel grazioso istant book Le ragazze salveranno il mondo di Annalisa Corrado.
L’ecofemminismo ha dunque sollecitato le donne ad assumersi la responsabilità e il protagonismo necessari a invertire la rotta, perché ormai è chiaro che non c’è più tempo
Grazie alla secolare esperienza di cura degli esseri viventi, sostiene la visione ecofemminista, sono le donne il soggetto che può decostruire una struttura sociale modellata esclusivamente intorno ai valori del profitto e di una mascolinità egemonica e tossica. Come sempre, quando il movimento e il pensiero femminista si connette con altre filosofie e pratiche di cambiamento, i risultati sono incoraggianti. Il racconto del lungo percorso dell’ecofemminismo, sia come processo politico istituzionale che come fenomeno culturale è stato condensato nel libro L’ecofemminismo in Italia, le radici di una rivoluzione necessaria, curato da Laura Cima e Franca Marcomin, che è stato la base di un intenso seminario dal titolo “Fare pace con Terra” tenuto nel 2017 ad Altradimora.
Una rivoluzione nonviolenta, quella ecofemminista, caratterizzata dalla connessione tra pensiero e pratica, essere e fare, ideale e concretezza
Non c’è nulla di meno virtuale: la politica femminista e quella ecologista si radicano e prendono senso dal corpo, e quindi dai suoi bisogni, desideri ma anche dai limiti e dai confini. È in quell’intreccio che penso si fondi la possibilità di ridare senso alla politica mainstream, così lontana oggi dalla realtà e così pericolosamente vicina a portarci alla catastrofe.
Prima del Covid una delle immagini che più avevano reso chiaro il degrado etico rispetto al rapporto tra l’umano e il mondo naturale era stata quella, del 2015, che ritraeva lo sciagurato dentista nordamericano sorridente appoggiato al leone appena ucciso, dietro pagamento di 55 mila dollari. “Se paghi puoi”, è il messaggio, e non importa cosa compri, perché l’autorizzazione viene dal potere del denaro.
Ecco, tenere conto dell’impatto che si ha sul Pianeta, è un dovere civile, educativo e politico che va incluso nella quotidianità delle nostre relazioni. Non farlo significa essere complici: lamentarsi poi delle conseguenze, a cose fatte, è ridicolo.