Gli stereotipi sessisti e i pregiudizi all’interno del sistema giudiziario

Malgrado il solido sistema legislativo, le norme non vengono applicate e l'esposizione alla violenza è sempre più alto

Teresa Manente
Teresa Manente
Avvocata penalista esperta in gender violence, Responsabile dell'ufficio legale di Differenza Donna e consulente giuridica della Commissione di inchiesta parlamentare sul femminicidio e su ogni forma di violenza. Ha pubblicato "La violenza nei confronti delle donne dalla Convenzione di Istanbul al Codice Rosso" (Giappichelli)



Sono ormai oltre 30 anni che dedico il mio impegno politico e la mia attività professionale alla difesa dei diritti delle donne vittime di violenza maschile accolte e ospitate nei centri antiviolenza dell’Associazione Differenza Donna e posso di certo affermare che attualmente il nostro ordinamento integrato dalle fonti internazionali e di diritto europeo, direttamente applicabili nel nostro Paese in base all’obbligo di interpretazione conforme ai sensi dell’art.117 della Costituzione, è fornito di strumenti giuridici idonei a reprimere il fenomeno della violenza di genere contro le donne.

Le leggi

Da un sistema che legittimava fino al 1963 lo ius corrigendi del marito sulla moglie, siamo arrivati a costruire, grazie al movimento femminista, un impianto di strumenti giuridici che considerano la violenza maschile contro le donne una violazione dei diritti umani grazie anche alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa ratificata dall’Italia nel 2013, la Convenzione Cedaw delle Nazioni Unite per l’eliminazione di tutte le forme  di discriminazione delle donne ratificata dall’Italia dal 1985, e la Corte CEDU.

violenza maschile sulle donne riconosciuta in quanto una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguale tra i sessi

Così anche sul piano processuale: da un sistema che di fatto trasformava la vittima in imputata, siamo passati a riconoscere la persona offesa meritevole di attenzione e di protezione (Direttiva dell’Unione Europea 2012 sui diritti della vittima) e per ultimo la legge n.69/del 2019 (cd Legge Codice Rosso) proprio in attuazione delle leggi internazionali che ha apportato ulteriori  modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, a garanzia della tutela dei diritti e delle libertà delle donne che denunciano la violenza maschile. Oggi, ci troviamo dunque a operare in un quadro normativo nazionale di diritto sostanziale e processuale astrattamente idoneo a contrastare il fenomeno. La magistratura insieme alle FFOO non hanno più alibi. Il problema grave però è la non attuazione delle norme: come ci ha ricordato nell’ottobre 2020 la Corte di Strasburgo nelle considerazioni sulle iniziative assunte a seguito della condanna Talpis/c Italia. Si consideri anche che la Corte europea per i diritti umani, così come il Grevio (Organo di monitoraggio della Convenzione di Istanbul), nel rapporto pubblicato il 13 gennaio 2020 sull’attuazione della Convenzione di Istanbul denunciano  entrambi che

la violenza maschile nei confronti delle donne in Italia è un fenomeno ancora sommerso, non riconosciuto, spesso sottovalutato e con una risposta giudiziaria inadeguata

Gli ostacoli all’accesso alla giustizia

L’accesso alla giustizia delle donne è ostacolato dalla diffusione di stereotipi e pregiudizi sessisti che compromettono l’accertamento dei fatti in sede processuale. Per prima cosa, le donne non sono credute: nelle sentenze si legge che sono astute, bugiarde, scaltre, manipolatrici, irrazionali, volubili, non coerenti, fragili, dipendenti dall’uomo, alienanti, provocatrici. Gli stereotipi e i pregiudizi sessisti occultano i fatti di violenza e portano i magistrati ad adottare un comportamento che conduce a una discriminazione contro le donne, fino a comportare persino l’impunità del crimine così  come emerge dai risultati del progetto di ricerca STEP 2020 condotto dall’Università della Tuscia in collaborazione con l’Associazione Differenza Donna, finanziato dal Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che si è basata sull’analisi di 228 sentenze penali tra il 2014 e il 2020, riguardanti casi di maltrattamenti, violenza sessuale, stalking.

Si dice che le donne esagerano, si minimizzano i maltrattamenti psicologici e le violenze economiche anche quando comportano gravissime ripercussioni

di dipendenza e soggezione, che sono a volte prodromiche al femminicidio che è solo l’ultimo atto punitivo, quasi sempre programmato, di una lunga serie di violenze psicologiche, a volte fisiche e spesso prive di riscontro medico. La violenza del partner o ex partner si confonde sistematicamente con il conflitto di coppia pregiudicando non solo i diritti e la libertà delle donne ma anche i diritti dei bambini e delle bambine. Si parla di “situazioni conflittuali”  o  di “liti in famiglia”, ponendo sullo stesso piano l’uomo responsabile delle violenze e la donna che le subisce. La violenza maschile troppo spesso si legge quale “reazione” al comportamento della donna mistificando la realtà finanche giungendo a colpevolizzare la donna per non  essere stata capace di contenere gli scatti dell’uomo. Oppure si valuta come una  “situazione di tensionefra i coniugi, determinata da motivi caratteriali e non da una condotta di sopraffazione del marito sulla moglie.

Stereotipi e pregiudizi nelle sentenze

Applicare uno sconto di pena al marito che sequestra picchia e stupra la moglie perché lei è troppo disinvolta (Corte di Appello di Milano del 18 settembre 2020), significa occultare la responsabilità dell’autore dei crimini, colpevolizzare la donna, giustificare l’uomo violento che da aggressore diventa vittima. Significa mettere il marchio di approvazione dello Stato a quello stereotipo sessista per cui una donna libera e “disinvolta” può essere maltrattata stuprata sequestrata dal marito.

Stereotipi giudiziari utilizzati anche da avvocati che veicolano nella difesa i più vetusti schemi di comportamento con domande, ammesse dal o dalla giudice, e volte esclusivamente a confermare il pregiudizio che la colpa del crimine sia per forza di cose della donna

Il sostrato culturale che nelle aule giudiziarie si veicola da parte della difesa degli imputati è  quasi sempre infarcito da suggestioni sessiste: in luogo di ricorrere ad argomentazioni giuridiche, di contestare i fatti sulla base di prove, si accusa la donna di essere moglie o madre inadeguata dinanzi alla quale “l’imputato ha perso la testa”. Nei delitti di violenza sessuale dove si annidano gli stereotipi e i pregiudizi sessisti più remoti: si dice che la donna provoca, che se avesse voluto avrebbe potuto sottrarsi alla violenza, oppure che se ha accettato di bere, vuole dire che acconsentiva anche al rapporto sessuale. Partendo dal pregiudizio che la donna è mendace, si afferma che non c’è consenso solo quando vi è la prova della resistenza fisica all’aggressione sessuale e ciò anche in situazioni che escludono per la donna la possibilità di prestare un valido consenso o di opporre resistenza, come nel caso in cui la donna sia paralizzata dalla paura.

Le donne non urlano, hanno paura di morire

Ciò significa negare l’esperienza di centinaia di donne che accogliamo nei centri antiviolenza da cui emerge che la non reazione all’aggressione sessuale è una forma di auto-protezione: le donne non urlano, non reagiscono perché hanno paura di  essere uccise. Come ad esempio nel caso di violenze sessuali commesse dal partner maltrattante che si consumano in un contesto di abituale sopraffazione e di esercizio di potere e controllo, violenze sessuali in cui le donne non oppongono resistenza o non manifestano un esplicito dissenso perché hanno paura di reazioni ulteriormente violente. Un crimine questo largamente diffuso. Oppure, sulla base dello stereotipo sessista per cui le donne sono sessualmente disponibili,

si nega il crimine anche quando riportano lesioni vaginali refertate dal pronto soccorso conseguenti alla violenza sessuale denunciata

Sentenze in cui le lesioni vengono motivate quali “espressioni di un rapporto consensuale passionale particolarmente energico e svolto con foga in ragione dello stato di forte eccitazione  dell’uomo”; o ancora l’uomo ha agito “in modo energico e focoso […] con particolare esuberanza sul piano degli approcci sessuali”; arrivando ad argomentare che non si può escludere che lui abbia effettuato una energica divaricazione senza che ciò concretasse una prevaricazione della volontà della partner” (Corte d’appello di Cagliari 2017). Una sentenza questa che abbiamo portata all’attenzione del comitato Cedaw F/contro Italia 2019 e attualmente ancora in fase decisionale.

La donna non è creduta

Ancora la donna è diabolica, astuta: nel caso in cui ho assistito una ragazza minorenne stuprata da un suo coetaneo, la strategia difensiva dell’imputato era volta a sostenere che la ragazza mentiva per vendicarsi del fatto che lui l’aveva rifiutata. Un pregiudizio che nasce dallo stereotipo che una donna esiste solo se riconosciuta dallo sguardo di un uomo. Un pregiudizio molto diffuso è anche quello delle querele strumentali proposte nel corso della separazione o dei giudizi di affidamento, e questo malgrado dall’esperienza dei centri antiviolenza emerga che le donne denunciano proprio in fase di separazione per tutelare la propria incolumità e quella dei figli, lo fanno perché l’uomo maltrattante non accetta la ribellione della donna e dinanzi alla sua scelta di libertà di chiudere la relazione, la punisce aggravando la sua condotta violenta arrivando persino ad uccidere.

L’uomo maltrattante di regola continua ad  esercitare potere e controllo anche in occasione delle visite genitoriali ai figli

Ma le donne non sono credute: nelle sentenze civili, negli gli atti dei servizi sociali e nelle consulenze tecniche disposte dai giudici civili, si nega la violenza del partner e si legge di relazioni conflittuali, di violenza relazionale, ma non si riconosce la situazione di   prevaricazione e di controllo esercitata dall’uomo: condotta questa in alcun modo compatibile con l’esercizio della genitorialità intesa come responsabilità. Nonostante la Convenzione di Istanbul imponga di prendere in dovuta considerazione la violenza assistita subita dai bambini/e “al momento di determinare i diritti del padre di visita ai figli”, nella realtà l’uomo violento raramente è invitato a prendere consapevolezza della gravità della propria condotta e del riverbero di quest’ultima sulla vita dei figli.

I bambini ospitati nelle case rifugio con le madri, sono traumatizzati per aver assistito alle violenze in casa del padre contro la madre

I figli e la stigmatizzazione delle donne nelle Ctu

Eppure le donne non sono credute anche quando rappresentano le paure dei figli a incontrare il padre, tanto da venir stigmatizzate dai o dalle consulenti tecniche come “troppo protettive”, “malevoli”, “ non amicale” ,“non cooperative” con l’altro genitore, “ostili”, “paranoiche”, “simbiotiche”, o addirittura “alienanti”.  Sul punto tengo a evidenziare che i Consulenti tecnici nominati dal giudice civile in sede di separazione o di affidamento dei figli minorenni hanno solo una funzione di ausilio al giudicante, come prevede il codice, ma nei fatti sono ormai fonte prevalente della valutazione dell’Autorità giudiziaria Civile e spesso si esprimono in contrasto con i provvedimenti emessi in sede penale a tutela delle donne. E attualmente la Commissione di inchiesta al Senato sul Femminicidio, presieduta dall’Onorevole Valeria Valente, sta analizzando tali problematiche denunciate dalle avvocate dei Centri antiviolenza.

Nei centri antiviolenza assistiamo donne che pur avendo ottenuto dal giudice penale una misura cautelare specifica a tutela della propria integrità quale l’ordine di allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente da lei frequentati, sono poi obbligate, in sede di consulenza tecnica, a incontrare l’uomo per lo svolgimento della stessa. Troppo spesso i consulenti tecnici d’ufficio pongono i genitori sullo stesso piano e l invitano a intraprendere percorsi di mediazione, in contrasto con i principi della Convenzione di Istanbul e con la direttiva n.29 /2012 UE,  che invita le Autorità Statali a ridurre il contatto tra autore del reato e vittima, dando prevalenza all’obiettivo di recupero della figura paterna e sottovalutandone la pericolosità anche per i  figli/e.

sottovalutazione che espone le donne a vittimizzazione secondaria durante tutto l’iter giudiziario civile e penale: cosa vietata dalla Convenzione di Istanbul

L’obbligo di sradicare e prevenire gli stereotipi sessisti tra gli operatori del diritto è sancito dalla raccomandazione generale n.33 sull’accesso alla giustizia delle donne del 2015, dall’art.5 della Cedaw, dall’art 12 della Convenzione di Istanbul. Eliminare gli stereotipi e i pregiudizi di genere nel sistema giudiziario è un passo cruciale per garantire il diritto alla non discriminazione e all’uguaglianza tra uomini e donne, il diritto a un processo equo, all’uguaglianza davanti alla legge (artt 2,3,111  Cost). La questione della violenza maschile contro le donne è una questione di ordine sociale e politico con radici storiche e culturali, e perciò modificabili solo grazie all’impegno collettivo di tutti/e per una riforma sociale che potrà giovare alla collettività, contribuendo a riscrivere la grammatica delle dinamiche processuali, ma anche e soprattutto delle relazioni tra i sessi.

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