A metà degli anni ’90 gli obiettivi di Lisbona avevano fissato il raggiungimento del tasso di occupazione femminile in Italia al 60% entro il 2010. Il traguardo sembrava a portata di mano. Nei fatti questo obiettivo è rimasto sulla carta. Oggi lavora meno di una donna su due, e i 20 punti di distanza con la media europea sono rimasti tali.
Con la pandemia l’occupazione femminile è crollata, a dicembre il tasso è sceso al 48,6%, e sono andati un fumo 100mila posti di lavoro, quasi tutte donne
Eppure negli anni non sono mancati gli studi che evidenziavano come il 60% di occupazione femminile equivalesse a 7 punti di Pil in più. Tutto questo dimostra che troppo spesso agli euforici annunci della politica, non corrispondono fatti concreti e che tutto finisce rapidamente nel dimenticatoio. Ora però, l’occasione offerta con il Recovery plan non può essere sprecata perché è l’ultima, concreta occasione che abbiamo per raggiungere obiettivi e quindi non va doppiamente sprecata. La parola chiave è investimenti e ancora investimenti, che sono mancati in tutti questi anni persi tra bonus e lavoretti poveri e precari. Solo così si creano nuovi posti di lavoro, e ogni progetto del Recovery plan deve generare nuovi posti di lavoro per donne e giovani, con valutazioni di impatto riguardo la quantità e la qualità dell’occupazione determinata da ogni singolo progetto.Bisogna affrontare il grande tema del partime involontario imposto dalle aziende, che ha visto si crescere l’occupazione femminile, impoverendo però le donne con stipendi e pensioni ridotti: per questo è arrivato il momento di mettere al centro la formazione permanente e la flessibilità al servizio della persona e non della sola azienda.
È necessario anche un grande processo di regolarizzazione del lavoro in nero, sommerso, irregolare, che riguarda circa 3.500.000 persone di cui la stragrande maggioranza donne
Si può e si deve fare, con politiche di sostegno e di agevolazione fiscale e contributiva a piccole imprese, ad aziende familiari come bar e ristoranti e molte di quelle attività nell’agricoltura. I timidi passi in avanti nell’ultima legislazione non sono stati sufficienti dato che restiamo inchiodati al primo posto in Europa per lavoro nero e evasione fiscale contributiva. Sappiamo anche che l’insieme di queste misture e gli investimenti da soli non bastano senza un nuovo welfare, che consenta alle donne con figli di lavorare senza dover scegliere tra famiglia e lavoro. Un welfare non più disegnato su un modello di famiglia anni ’60 e che recuperi i tagli forsennati dal 2008 in avanti, ora che l’alibi della crisi non c’è più.
è il momento in cui finalmente le donne non vengano più considerate sostitutive di uno stato sociale smantellato
che tanto ha fatto risparmiare le casse dello stato, ma che ci ha fatto allontanare dall’Europa e ha aumentato a dismisura le disuguaglianze tra uomini e donne, tra quelle che hanno figli e quelle che non ne hanno, tra Nord e Sud d’Italia. Che ha ridotto all’osso la natalità e aumentato la povertà per donne e bambini. È questo il momento per invertire la tendenza, per investire sulle persone, per costruire nuovi modelli, per tornare a crescere, per far tornare le donne libere di lavorare e, se vogliono, di avere figli. Per ripartire con fiducia e speranza. Un altro fallimento non è lecito.