Processi: la violenza contro le donne non è conflitto di coppia

Nei tribunali non è ancora chiara la matrice discriminatoria e culturale di questi reati su cui è necessaria la formazione

Paola Di Nicola
Paola Di Nicola
Giudice al Tribunale penale di Roma, esperta su violenza contro le donne e stereotipi giudiziari, ha scritto "La giudice" (Ghena) e "La mia parola contro la sua" (HarperCollins)



Le continue modifiche che attraversano le norme in materia di violenza di genere, la quantità e multiformità dei soggetti che operano in questo ambito senza un fattivo coordinamento, il processo (civile e penale), inteso come luogo di tutela dei diritti e di ricomposizione dei conflitti, sono tutti strumenti che non garantiscono a pieno la peculiare condizione delle donne che ne sono vittime.

Il presupposto di partenza, non sempre noto all’autorità giudiziaria e alle forze di polizia, è che queste ultime sono inconsapevoli di essere portatrici di diritti. A ciò si aggiunge la necessità di dotare chi applica la legge degli strumenti culturali per leggere il fenomeno strutturale in cui si sviluppa la violenza che, fino ad oggi, è stato omesso per prediligere una dimensione individuale e soggettiva della vicenda denunciata, privandola dell’essere l’ennesima manifestazione della discriminazione femminile.

In tutto il mondo i giudici non hanno alcuna formazione ai fini di collocare il caso concreto entro la trama di fondo, strutturale e incancrenita, dei rapporti diseguali tra i sessi nel contesto in cui esso si sviluppa

Questa è la ragione per la quale la denuncia della persona offesa è troppo spesso ridimensionata e svalutata come fatto privato o conflitto di coppia, ricondotta in un ambito modesto e parcellizzato con la conseguenza che la donna percepisce l’irrilevanza o, peggio, la normalità sociale di quanto subìto, con successiva impunità sostanziale dell’autore della violenza.

È per questo che le Raccomandazioni degli organismi internazionali, le sentenze della Corte Europea per i diritti umani, della Corte di Giustizia, della Corte Inter-americana, della Corte penale internazionale, gli organismi di controllo e monitoraggio delle Convenzioni internazionali come la Commissione Cedaw o il Comitato di esperte della Convenzione di Istanbul (Grevio), le autorità legislative sovranazionali come il Parlamento Europeo, ecc. si trovano periodicamente a stigmatizzare le Autorità giudiziarie e, per esse, gli Stati per la grave sottovalutazione della portata criminale della violenza di genere e l’inadeguatezza nel contrastarla.

A ciò si aggiunge che è la struttura stessa del processo penale a rendere il percorso giudiziario altamente vittimizzante per le persone offese di questi reati

perché devono ripercorrere, in un contesto estraneo e talvolta ostile, la loro sfera intima e affettiva, che intacca la stessa identità sociale di chi li denuncia e ne determina l’isolamento. Questo è il motivo per il quale il quadro normativo sovranazionale e nazionale, fondato sulla Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (Cedaw) e sulla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione della lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), richiede a tutti coloro che operano in questo ambito, cioè forze di polizia, sanitari, assistenti sociali, consulenti tecnici, avvocati, pubblici ministeri e giudici, di dotarsi non solo di una adeguata specializzazione tecnico-giuridica, ma di un’empatia e una capacità interpretativa che parta dal dato che gli strumenti processuali non sono neutri, ma costituiscono un rischio sia per l’incolumità della donna che ne è colpita che per l’acquisizione genuina delle prove necessarie ad accertare i reati di violenza di genere.

La ritrattazione della vittima, la solitudine e lo stigma a cui è costretta a seguito della denuncia, la paura di perdere l’affidamento dei figli come talvolta avviene, ma prima ancora la totale inconsapevolezza di essere portatrice di diritti come quello di vivere libera dalla violenza, e di auto-rappresentarsi come titolare degli stessi, sono i principali scogli culturali con cui si misura tutta la filiera istituzionale, a partire dai giudici.

Questo difficile contesto processuale è preceduto dalla naturalità e tolleranza sociale della violenza maschile contro le donne che porta al ridimensionamento di ogni atto

collegato all’asimmetria dei generi in qualsiasi contesto, a partire da quello più vicino, cioè il contesto familiare, quello che non vogliamo vedere, nessuna di noi, per paura di scoprire la realtà. L’autorità giudiziaria e le forze di polizia hanno tutti gli strumenti per contrastare la violenza contro le donne, ma devono imparare a leggere le norme del codice penale con le lenti di genere altrimenti rischiano non solo di non vederne la struttura, ma di non sradicarla, come istituzionalmente compete loro.

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