Femminismo nell’arte e le spine della violenza domestica

La grammatica di Silvia Giambrone negli oggetti di uso comune rivisitati nella metafora dell'angoscia esistenziale

Paola Ugolini
Paola Ugolini
Critica d’arte Exibart, Screening Curator CortoArteCircuito, comitato scientifico AlbumArte



Che rapporti ci sono fra Arte e Femminismo? In realtà il femminismo non si è mai interessato all’arte ma, al contrario, dalla metà degli anni Sessanta molte artiste europee, nordamericane e sudamericane hanno inglobato nella loro pratica alcuni aspetti della militanza femminista. In quel momento di incredibile fermento culturale in cui per molte attiviste la vita è diventata un tutt’uno con la politica, le artiste cominciano a dar voce e visibilità alla loro condizione di emarginate della Storia dell’arte utilizzando nuovi mezzi espressivi come la performance, la danza, la fotografia, il video e la parola.

Il corpo, come limite e sconfinamento, diventa così lo strumento espressivo privilegiato per molte artiste di quegli anni

Cosa è rimasto oggi di quelle ricerche nella pratica delle artiste nate dopo la metà degli anni Settanta? A questa domanda può rispondere in maniera abbastanza esauriente il lavoro di Silvia Giambrone (Agrigento, 1981) che esplora il corpo come soggetto da un punto di vista non convenzionale, ovvero quello dell’abuso e della violenza domestica. Utilizzando diversi mezzi espressivi fra cui il video, la performance, la fotografia, il ricamo e la scultura l’artista prende ispirazione dalla propria vita, non cerca risposte ma pone molte domande e le interessa indagare l’assuefazione alla violenza, intesa come parte malata di un rituale famigliare apparentemente immutabile, qualcosa di così interno al tessuto della vita da non essere più riconosciuto come tale. Il suo lavoro è una sorta di trattato di archeologia domestica, uno scavare all’interno dei rapporti, uno svelarne i fragili equilibri; è una sottolineatura ruvida del sopruso, talvolta esteticamente disturbante o al contrario appagante nonostante la sua manifesta spigolosità.

L’artista obbliga così gli spettatori a una riflessione sui rapporti e sugli squilibri di potere che avvelenano le relazioni umane

Le sue opere sono feroci incursioni nel nostro privato e rendono ancora più evidente come la violenza, parafrasando Hannah Arendt in La banalità del male, sia spesso quasi banale nella sua superficiale malvagità. Questo insistere sulla violenza di genere, quindi su una violenza sessista e sessuata, è lo strumento di lotta scelto da questa artista anche per tenere alta l’attenzione su quel bieco fenomeno culturale, figlio del patriarcato, che partendo dal sopruso verbale ha la sua punta dell’iceberg in quella mattanza di donne che in Italia la stampa ha battezzato “femminicidio” (mogli, fidanzate e figlie uccise dai loro mariti, fidanzati, padri).

Le sue opere sono un potente dispositivo per riflettere sia sull’addomesticamento alla violenza che sul tabù che circonda questa pulsione, sulla capacità di poter assoggettare gli altri usando una grammatica affettiva e relazionale socialmente accettata a cui siamo talmente assuefatti da non riuscire più a riconoscerla come tale. Come accade con le cose che ci circondano quotidianamente, dopo un pò non le notiamo più, non ci facciamo più caso. Nei suoi lavori gli oggetti di uso comune acquistano un significato sinistro e si caricano di angoscia esistenziale.

Battlefield

“Battlefield” (2017) è un tappeto persiano, tipico oggetto decorativo di una casa borghese, che però ha al suo centro una bruciatura circolare, riempita di fiori secchi e cenere, che ricorda più la desolata devastazione di un campo di battaglia che il confortante simbolo di un caldo benessere. L’opera “Senza titolo con spine” (2017) rappresenta due scheletri di sedie da salotto unite da una forma di plastica globulare al cui interno è germinata una selva di rami di acacia da cui spuntano lunghe spine acuminate.

Una rappresentazione plastica delle tensioni domestiche che diventano sia il collante della relazione che parte del vissuto famigliare, ridefinendo con la loro pervasività anche gli spazi fisici

“Le stesse relazioni hanno dinamiche di potere interne, forme di soggiogamento che divengono codici e strutture, agite e concesse, tanto dalla vittima quanto dal carnefice. Mi interessa come la violenza leghi e costruisca nelle relazioni ponti di una solidità difficilmente raggiunta da dinamiche più sane e considero l’ambiente domestico luogo d’elezione per abituarsi a questi equilibri così ambigui. Nello spazio domestico, tanto concreto quanto psichico, ciò che dovrebbe essere affidabile e familiare si trasforma nel luogo dove mettere in atto una educazione che può sconfinare perfino nella coercizione” (Silvia Giambrone, intervista di Lori Adragna su Artribune).

I suoi ricami sono la rappresentazione visiva della “Molecola dell’eroina”, un’operazione che ci fornisce una doppia lettura di un lavoro di arte applicata tipicamente femminile

Qui il riferimento eroico è alla donna, a quella housewife che in Italia ha ancora totalmente sulle spalle tuttoil peso della vita domestica e l’accudimento della prole, che abbandona il lavoro dopo il primo figlio per mancanza di politiche di welfare, che non ha raggiunto la parità salariale e i cui diritti vengono costantemente messi in discussione. Tutte le opere di Silvia Giambrone sono realizzate in modo da creare un corto circuito visivo che permette agli oggetti di uso comune di diventare sinistri elementi di offesa. C’è quindi il preciso intento di portare alla luce il potenziale tetro, violento e crudo degli oggetti, perfettamente incarnato dalle serie dei “Frames” o dei “Mirrors” (2019), specchi e cornici di legno dorato che racchiudono dolorosi grovigli di spine di acacia, o dalla camera da letto miniaturizzata che diventa l’icona delle false famigliarità che costituiscono l’intimità di coppia.

“Per mezzo della scultura voglio rendere gli oggetti quello che già sono: ricettacoli di identità, ‘cose‘ che si caricano di proiezioni e significati che raccontano la vita di chi li usa, i luoghi che li ospitano, le relazioni che testimoniano. Sono intrigata da questi oggetti carichi di decorazioni perché mi sembrano raccontare, attraverso una precisa eredità estetica che appartiene alla nostra cultura, una sorta di ideologia delle relazioni, di quello che le relazioni dovrebbero essere, immerse in un territorio fiabesco, tradito dalla grande differenza tra l’immagine di una relazione e quello che la relazione poi rivela di sé. Per scoprirne gli aspetti più autentici bisogna cercare in ciò che di sé è sfuggito all’addomesticamento” (Silvia Giambrone, intervista di Lori Adragna su Artribune).

La donna, secondo Carla Lonzi, teorica di “Rivolta Femminile” (Roma, 1970), è stata privata dell’arte dall’egoismo narcisista dell’uomo e della società patriarcale-maschilista

Tuttavia le donne negli ultimi quarant’anni si sono riappropriate di quel campo che, come molti altri, fino a quel momento era stato loro precluso. Il Femminismo, sia come movimento politico che come incubatore di creatività, è quindi ancora un motore fondamentale per l’evoluzione dell’Arte femminile, molta strada è stata fatta ma la parità fra i generi è ancora molto lontana dall’essere realizzata.

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Nelle foto le opere “Senza titolo con spine” (foto di copertina), “Battlefield”, “Molecola dell’eroina, “Camera da letto miniaturizzata”, “Frames e Mirrors” di Silvia Giambrone

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