Covid 19 e gravidanza. Violenza ostetrica nel terzo millennio

La maternità non è più un destino ma una scelta consapevole e responsabile a partire dalla gravidanza e il parto

Gabriella Pacini
Gabriella Pacini
Ostetrica, Presidente di Freedom for Birth-RAG, socia del Melograno e consulente di Bellies Abroad



La medicina ha fatto enormi passi avanti nelle ultime decadi del secolo scorso e nei primi due decenni di questo millennio e mai come oggi, nella storia dell’umanità, partorire e nascere è stato così sicuro. Un grande risultato e un incredibile successo. Tutto bene allora? Se l’obiettivo della medicina è quello di curare e mantenere in salute il maggior numero possibile di persone siamo sicuri che, malgrado i migliori risultati di salute, la scelta di ospedalizzare il percorso nascita, proprio per le caratteristiche dell’ospedale, sia stata e sia quella giusta?

Le donne che hanno una gravidanza fisiologica a termine, sono le uniche persone sane che vengono ricoverate in ospedale ed è sul senso di questa eccezione che è importante riflettere. A una prima rapida e superficiale analisi sembrerebbe effettivamente così, che l’ospedale sia il posto giusto per il parto: la mortalità e morbilità materna e neonatale si sono incredibilmente ridotte, quale migliore conferma? Ma se riflettiamo sui fattori che hanno portato a questo risultato ci accorgiamo che presumere che questo accada soltanto (o principalmente) grazie all’ospedalizzazione del parto denota una grave mancanza di consapevolezza su quelle che sono le motivazioni alla base di questo cambiamento, e tradisce il pregiudizio atavico che abbiamo nei confronti del corpo della donna in generale e della donna che diviene madre in particolare: corpo visto come macchina difettosa da correggere e che necessita sempre di assistenza ospedaliera ad alta specializzazione, sale operatorie e rianimazione.

Il Covid-19 ci ha insegnato che non essere adeguatamente preparati può costarci molto caro, quindi la preparazione e la prudenza devono sempre guidarci nella giusta scelta del luogo del parto

Ma qual è il luogo più sicuro per partorire? Cosa dicono gli studi e in base a quali parametri ha veramente senso orientarsi? Secondo l’OMS il parto negli ultimi decenni è stato medicalizzato e sottomesso a una tecnologia, chirurgica e farmacologica, molto invasiva e con costi umani e sociali elevatissimi e da anni denuncia sia i danni prodotti da questo atteggiamento che gli effetti della cosiddetta violenza ostetrica: la violenza che le donne subiscono riguardo alla loro salute sessuale e riproduttiva e che, in buona parte, viene agita proprio attraverso una medicalizzazione eccessiva e inappropriata.

Già nel 1976 il filosofo Ivan Illich ci metteva in guardia dal rischio di una cattiva gestione delle risorse sanitarie e della tecnologia e nella sua opera “Nemesi Medica” sostiene che “la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. Il livello di salute non può che calare quando la sopravvivenza viene a dipendere, oltre una certa misura, dalla regolazione eteronoma (cioè diretta da altri) dell’omeostasi dell’organismo. Oltre una certa intensità critica, la tutela istituzionale della salute equivale a una negazione sistematica della salute”. Dunque non sono il progresso, la tecnologia, le nuove opportunità e le scoperte della medicina, ad essere al centro della critica di Illich, ma la gestione e l’uso che ne facciamo. Perdonate la ripetizione ma per evitare fraintendimenti è importante soffermarsi su questo punto:

non sono il progresso e la tecnologia a essere al centro dell’analisi di Illich ma anche e soprattutto l’uso che ne facciamo

In linea con le affermazioni di Illich, anche se con quasi 40 anni di ritardo, la definizione stessa di salute è stata modificata. Infatti la definizione di salute dell’OMS del 1948 indicava la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale, psicologico, emotivo e sociale”. Questa definizione, oltre ad essere un traguardo impossibile da raggiungere, ha portato negli anni ad un eccesso di medicalizzazione e problemi di natura etica. Nel 2011 è stata presentata una nuova definizione di salute come “la capacità di adattamento e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”. Questa definizione pone l’accento sulla capacità della persona, come prima risorsa, e ha dunque aperto la strada a nuovi dibattiti e riflessioni.

In queste pagine vedremo come quello che abbiamo scelto di fare con le nuove possibilità offerte dal progresso e dalla tecnologia abbiano di fatto trasformato l’evento parto e la nascita, ed è sul senso di questo cambiamento che si vuole riflettere. È significativo che, malgrado l’importanza di queste tematiche, sia la riproduzione che la nascita e la maternità, continuino a essere considerati prevalentemente temi da e di donne, come se fossero temi che riguardano solo le donne che scelgono di diventare madri.

In realtà il tema della nascita riguarda tutti e tutte noi, perché tutti noi siamo nati e il modo in cui siamo venuti al mondo può avere un’influenza sulla nostra salute fisica e psicologica

È stato un parto facile e stimolante o al contrario difficile che ha messo a dura prova la nostra capacità di adattamento post natale? Siamo stati separati giorni e giorni da nostra madre o abbiamo potuto sperimentare un contatto prolungato e precoce con il suo corpo? Dopo la nascita siamo stati in un ambiente che permetteva un efficace rilascio di ossitocina ed endorfine, che permettono di utilizzare i riflessi neonatali in modo ottimale all’avvio di un buon allattamento, o al contrario un ambiente difficile, con conseguente rilascio di adrenalina e altri ormoni dello stress e quindi maggiori difficoltà?

Il cervello dei neonati è molto plastico e adattabile ma la secrezione ormonale può portare a privilegiare l’attivazione di alcune connessioni neuronali, e non altre, di alcuni tratti del DNA, e non altri, producendo un cambiamento su quello che noi saremo, come persone. Quindi variazioni epigenetiche. E l’epigenetica è una branca della genetica che si occupa dello studio delle modificazioni dell’espressione genica senza però alterare la sequenza del DNA, dunque studia quale parte del DNA verrà espressa e quale rimarrà silente, rendendoci persone diverse da quello che saremmo state in contatto con un altro ambiente. Dunque l’ambiente che ci circonda ha una importanza fondamentale. Ma il parto ci riguarda anche una seconda volta perché tutti e tutte siamo nati da una donna e l’esperienza che questa donna ha fatto del parto può avere un’influenza sia su di lei come persona sia sul suo modo di essere madre, perché il parto è un evento che molte donne considerano trasformativo e fondante, e quindi ha effetto anche sul senso di competenza e realizzazione personale.

Si è sentita compresa, supportata, assistita con tenerezza e amore al momento del parto o è stata svalutata, sminuita e disprezzata nelle sue fragilità e insicurezze?

E subito dopo la nascita ha potuto occuparsi di noi in un ambiente che l’ha sostenuta, quando e se ne aveva bisogno, confermandola nelle sue competenze oppure è stata sottolineata la sua mancanza di esperienza mettendo in dubbio le sue capacità come madre? Per questi e altri motivi il modo in cui una donna partorisce riguarda tutti noi, uomini e donne, ed è significativo che, malgrado questo, le rivendicazioni e le riflessioni, eccetto rari casi, provengano ancora oggi esclusivamente da donne, donne che hanno partorito in particolare.

Anche il mio percorso non è stato differente e anch’io, come tante altre donne, ho cominciato a interessarmi al tema solo dopo la nascita del mio primo figlio. Sono ostetrica dalla fine degli anni ’90 e ho assistito parti in tanti luoghi diversi: il grande policlinico universitario, la clinica convenzionata, la clinica privata. Ho assistito parti e accolto nascite anche in luoghi particolari per l’Italia dei giorni nostri, che non prevedono la presenza del medico, come la Casa Maternità (molto diffuse in Germania, Olanda e Regno Unito) e il parto a domicilio: così comune in Italia fino agli ’50 è ora una scelta che poche coppie fanno anche se in crescita grazie al rimborso parziale da parte di alcune Regioni.

La possibilità di vedere partorire migliaia di donne in questi diversi scenari è stata un vantaggio e un privilegio e ha cambiato radicalmente la mia visione del parto e, mentre il mio percorso di formazione da ostetrica è iniziato in un policlinico universitario dove sono stati i rigidi protocolli a dettare tempi e modalità della nascita e dove l’assistenza è connotata da una medicalizzazione aggressiva e spersonalizzante, a casa potevo sperimentare la potenza del parto non disciplinato e non subordinato alla volontà di noi operatori, ma nel quale al contrario era sempre la donna a dettare tempi e modalità. Tutto nel rispetto della salute di madre e neonato. Quello che sperimentavo e vedevo in ospedale può essere riassunto in poche righe: in ospedale non c’era nessuna possibilità di scelta e le routine erano sempre le stesse.

Quindi tutte le donne, sia che ce ne fosse bisogno che no, ricevevano appena arrivate in accettazione uno sgradevole clistere di acqua saponata, la rasatura dei peli pubici, subito un ago cannula da tenere al braccio per tutta la durata del travaglio e del parto

Venivano sottoposte a fastidiose visite vaginali, anche più volte in un’ora, e non mancava mai la rottura artificiale delle membrane con l’amniotomo (un uncino di plastica), e a seguire veniva somministrata un’endovena di ossitocina che aveva lo scopo di ridurre i tempi aumentando la frequenza e l’intensità delle contrazioni. Il monitoraggio cardiotocografico doveva essere tenuto per tutta la durata del travaglio e del parto, ma se la valutazione del battito cardiaco fetale ci rassicura sulla buona salute del feto, al tempo stesso impedisce di muoversi alla donna, che è collegata alla macchina con un filo di un metro e tenere il monitoraggio attaccato per tutta la durata del travaglio, se non c’è una chiara indicazione di tipo medico, è contrario alle raccomandazioni dell’OMS.

Il parto ovviamente avveniva in posizione sdraiata a gambe aperte (spesso in una stanza piena di persone), una decisa spinta sulla pancia accompagnava l’espulsione del feto, e per finire un’ampia, inutile e dannosa mutilazione genitale: l’episiotomia (incisione del perineo di circa 4 cm). Dopo la nascita il cordone ombelicale veniva tagliato immediatamente e il neonato veniva portato in osservazione per varie ore al nido. Unico conforto, dove c’era, l’epidurale. Quello che mi colpiva in particolare era che il dolore e la sofferenza in quei luoghi fossero dati per scontati. Erano nell’aria proprio come questo virus che ci sta piegando, e trattavamo le donne come oggetti in nostro potere, quasi l’ospedale fosse uno spazio in cui la libertà personale e il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo venissero temporaneamente meno, in nome della presunta maggiore sicurezza per la salute del feto. Come se i diritti della madre e il diritto del feto siano in contrapposizione, in una relazione avversariale in cui, all’aumentare dei diritti da una parte, invariabilmente e fatalmente, diminuiscono dall’altra. E in cui siamo noi medici e ostetriche a decidere sul loro corpo.

L’assistenza nelle cliniche private e convenzionate non era molto differente, più o meno ricalcava le stesse pratiche, con la magra consolazione di un po’ di maquillage: espressioni verbali più gentili, meno durezza, ma in sostanza il percorso era lo stesso. Nel parto a casa, e nelle case maternità, con le sue grandi possibilità e i suoi grandi limiti, ho potuto imparare moltissimo e trovare finalmente la risposta a tanti interrogativi. Ad esempio mi ero sempre chiesta come fosse possibile che il parto vaginale, così detto naturale, potesse essere così facile per gli animali e così difficile per gli esseri umani, e nel parto a casa finalmente potevo vedere cosa accade in un ambiente in cui il corpo della donna non viene condizionato, dominato, ma può esprimersi spontaneamente. Con mia sorpresa ho assistito alla nascita di neonati che molto difficilmente sarebbero nati senza l’aiuto di un chirurgo.

Ho visto vagine di donne aprirsi e richiudersi senza danno alcuno, senza tagli e senza lacerazioni. Ho visto neonati grandi, grandissimi, partoriti in piedi senza sforzo

Ho imparato che se mi rallentavo, e aspettavo senza forzare, potevo assistere parti più veloci e sicuri. Ma quanto sono cambiate le cose negli ultimi 20 anni in ospedale e come si è modificata l’assistenza alla nascita? Cosa ne è stato della stanza rosa, del parto dolce, di tutti i cambiamenti che avrebbero dovuto portarci finalmente al cosiddetto parto umanizzato? Ma l’assistenza al parto in Italia è ancora così? Si e no. A oggi alcune pratiche sono cambiate, il clistere e la depilazione non sono pratiche routinarie e alcuni centri concedono alle donne di partorire in posizioni alternative. Ma per lo più la maggior parte degli interventi è rimasta pressoché invariata in gran parte delle sale parto. E alcune pratiche sono addirittura peggiorate come l’incidenza delle induzioni e il tasso di tagli cesarei.

Questo accade perché, purtroppo, come abbiamo già ricordato, la condizione della donna nel parto è considerata un tema marginale, che merita attenzione solo quando tutto, ma proprio tutto il resto, è stato assolto. E quindi solo occasionalmente e superficialmente. Il mantra è sempre quello: l’importante è che madre e neonata/o stiano bene. Senza alcun riferimento ai danni dell’eccesso di medicalizzazione: danni a breve, medio e lungo termine. Danni non sempre facili da valutare, ma non per questo meno importanti. Della situazione attuale ci parla l’indagine campionaria recentemente pubblicata dall’Ordine della Professione Ostetrica di Roma e Provincia e condotta nel 2016 da Michele Grandolfo (epidemiologo) su un campione di 979 donne in 8 diversi centri nascita della capitale. L’indagine mette in evidenza pochi, salienti momenti dell’assistenza, e mostra che, contrariamente a quanto raccomandato dall’OMS:

su 10 donne di 3,4 donne ricevono farmaci per provocare il travaglio (parto indotto), 7 hanno il monitoraggio cardiotocagrafico attaccato per tutta la durata del travaglio, 8 partoriscono sdraiate e 4 di quelle che partoriscono il primo figlio, ricevono il taglio della vagina (episiotomia)

Anche da questi pochi dati possiamo facilmente comprendere quanto ancora oggi la situazione sia difficile e quanto non sia sostanzialmente cambiata, malgrado le recenti battaglie e rivendicazioni contro la violenza ostetrica. Spero che la grande emergenza nazionale (e mondiale) che stiamo affrontando ci costringa a rivedere il modello dell’ospedalizzazione di massa nel parto come unica e migliore soluzione, modello che fino a ora non era mai stato messo in discussione dalla medicina istituzionale e dalla grande maggioranza delle società scientifiche, ma al contrario è stato sostenuto come il solo modello possibile. E questo malgrado la presenza di forti evidenze della promozione del parto non medicalizzato come punto centrale per tutelare la salute delle madri e dei neonati. Grandi sforzi sono stati fatti da parte di associazioni femministe e gruppi di ostetriche ma si tratta di piccoli gruppi in confronto al gruppo maggioritario dominante che detiene ed esercita il potere.

Ma perché la maggior parte delle donne accetta, supinamente, questa manipolazione e oltraggio al proprio corpo?

A mio parere, il bisogno di sicurezza della donna per la sua salute e per la salute del neonato e la sua paura nel confrontarsi con un evento si naturale ma al tempo stesso nuovo e sconosciuto, sono stati la leva sulla quale fare pressione. Spesso siamo proprio noi operatori della nascita, ostetriche e ginecologi, a trattare le donne come (s)oggetti passivi incapaci di comprendere la complessità dell’evento parto. Questo atteggiamento paternalista, che nasconde una malcelata sfiducia nei confronti del corpo delle donne, è stato inconsapevolmente introiettato dalle donne stesse portandole a delegare ad altri, percepiti come più competenti, quanto più possibile. È stato messo in atto un processo di dis-empowerment attraverso il quale le donne sono state delegittimate dalle loro competenze nell’evento.

Un altro aspetto che influisce in modo incisivo e decisivo sulla nostra percezione del parto, sull’idea che ne abbiamo, e quindi sulle scelte che facciamo quando dobbiamo decidere dove e come partorire, è dato dalle parole che usiamo per definirlo e descriverlo. Il parto viene spesso descritto come un evento doloroso ma sopratutto pericoloso, sia per la madre che per il bambino, e nel quale è sempre presente un rischio. Anche la gravidanza fisiologica, normale, in una donna sana, viene definita in base a questo parametro e chiamata infatti gravidanza a basso rischio. La ginecologa Anita Regalia, ex primaria dell’ospedale San Gerardo di Monza, inizia il suo libro con: “La nascita: rischi reali, pericoli percepiti”, ricordando che “ai giorni nostri”, se ci chiedessero di condensare in sole due parole i determinanti della pratica ostetrica contemporanea, potremmo identificarli nelle parole “rischio” e “morte”, e non “nascita”. Regalia prosegue citando lo psicologo Paul Slovic: “il pericolo è reale ma il rischio è socialmente costruito” e “chi controlla la definizione del rischio controlla la soluzione razionale del problema”. Questo perché

le parole che usiamo definiscono la realtà, la modificano, la trasformano, quindi attraverso la parole che usiamo per definire la gravidanza e il parto, esercitiamo un controllo sul corpo della donna che partorisce

Con questo non si vuole sostenere che il rischio insisto nell’assistenza ostetrica sia da sottovalutare ma riflettere sul fatto indiscutibile che “la definizione del rischio è un esercizio di potere” (P. Slovic) e riconoscere che a ogni potere corrisponde una responsabilità. Quindi un destino inevitabile delle donne quello di essere manipolate e oltraggiate durante il parto? Chiaramente no, non è un percorso in cui le donne sono sempre e solo (s)oggetti passivi di un sistema: come nella maggior parte delle volte è necessario avere, implicitamente o esplicitamente, il permesso e l’autorizzazione da parte della “vittima” per poter agire. Il potere che controlla e abusa dei corpi lo fa anche grazie alla nostra condiscendenza, arrendevolezza se non addirittura disponibilità. E questo permesso spesso lo concediamo perché, in cambio della richiesta di una totale delega del corpo, ci offre un falso senso di sicurezza: affidarsi all’esperto che sa e salva è, il più delle volte, una tentazione irresistibile.

Come ostetrica credo che, nel prossimo futuro, la condizione delle donne nel parto cambierà radicalmente. Sono ormai quasi 50 anni che le donne possono scegliere, se lo desiderano, di usare contraccettivi e più di 40 anni che possono scegliere di abortire: la maternità non è più un destino inevitabile ma sempre di più una scelta consapevole e responsabile.

Ora molte donne rivendicano i loro diritti e vogliono scegliere come e dove partorire, chi avere accanto, se usare l’epidurale o avere un parto in acqua

Malgrado che, come accennato prima, il tema del parto delle donne sia ancora un tema marginale, mai come adesso è stato un tema cosi diffuso e dibattuto. Il coronavirus ha cambiato alcune nostre abitudini radicalmente, forse per sempre. Ha sconvolto la nostra esistenza, ha ucciso i nostri cari, ha distrutto parte della nostra economia ed è stato il peggior flagello che ha colpito l’Europa negli ultimi 80 anni. Come previsto a suo tempo da Simone De Beauvoir, ha provocato una diminuzione dei diritti delle donne: “Non dimenticate mai che sarà sufficiente una crisi politica, economica e religiosa perché i diritti delle donne siano messi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovrete restare vigili durante tutto il corso della vostra vita”. Quindi nel giro di poco tempo, abbiamo visto donne sole in sala parto, senza il compagno, obbligate in posizioni difficili e faticose, neonati separati dalle madre senza nessun motivo di ordine medico. Donne a cui è stato impedito di abortire o che sono state comunque costrette a percorsi lunghi e difficili.

Questo è stato un primo, atteso, risultato della pandemia. Ma la pandemia, dalla quale forse stiamo lentamente riemergendo, potrebbe anche essere l’occasione per capire cosa vogliamo cambiare e quali sono le priorità e le cose a cui diamo valore nella nostra vita. Ci chiediamo se in una realtà che ci vede da una parte più fragili, perché consci di non essere più immortali e intoccabili, ma al tempo stesso forse più consapevoli di cosa ci danneggia e indebolisce, saremo finalmente in grado di uscire dal bisogno di delegare al medico taumaturgo il nostro corpo per entrare in quelle che sono le nostre reali e più profonde necessità.

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