Una è scura, terrigna, quasi demoniaca, l’altra chiara, silenziosa, sempre un passo indietro. Lila e Lenù sono le protagoniste de L’amica geniale, la tetralogia scritta da Elena Ferrante e portata sul piccolo schermo da Saverio Costanzo.
La seconda stagione, “Storia del nuovo cognome”, riporta lo spettatore nel Rione dove Lila (Gaia Girace) e Lenù (Margherita Mazzucco) sono nate e cresciute ed è composta da otto episodi diretti da Costanzo, tranne il 4° e il 5° ambientati a Ischia e diretti da Alice Rohrwacher (Wildside, Fandango e The Apartment con Umedia e Mowe per Rai Fiction, HBO e TIMvision, in onda su Rai 1 e disponibile su RaiPlay). Le due sono diverse e lo erano già da bambine: Lila che correva per le strade come una gatta selvatica guardando il mondo con la rabbia e il coraggio di chi non vuole soccombere, e Lenù che, bella, intelligente e brillante per inclinazione naturale, viveva in risposta a Lila. Una volta cresciute però il divario tra loro si fa più grande: la prima diventa la moglie di Stefano Carracci, mentre l’altra frequenta il liceo e dimostra di avere la stoffa per fare qualcosa di grande. Fin dalla prima stagione è apparso chiaro che
il romanzo sia un racconto di emancipazione e costruzione di sé, di donne in crescita
È una mistica della femminilità che scuote e fa innamorare il pubblico di quelle piccole donne che, nonostante tutto, riescono a trovare la propria strada in vari modi: attraverso la cultura (Lenù si trasferisce a Pisa per l’Università), la sorellanza (il narrarsi diventa un primo passo per capire e capirsi), il proprio coraggio e l’indipendenza (Lila prende le distanze dalla sua vita di moglie).
Bisogna lasciare andare, buttare giù bocconi amari, rimanere sole, essere additate come diverse, sbagliate: una lacerazione non meno grave delle sopraffazioni per chi si sta aprendo alla vita. Lenù e Lila sono lontane eppure incredibilmente vicine, e lungo questa seconda stagione sono allineate in una sorta di grado zero che le accomuna. Desiderate e “pretese” dagli uomini, costrette sulla carta a un inesorabile viaggio che ha come meta il matrimonio e i figli, tenute nelle retrovie da un maschio che dimostra la propria forza a suon di botte e divieti: sono parte di un racconto che metaforizza la storia di altre che come loro si sono battute per l’indipendenza e mostrano come nella storia femminile sia tutto in bilico, a rischio.
Violenze, umiliazioni, gabbie: sono queste le spade di Damocle che pendono sulle protagoniste e su tutte le donne di questo testo
Un corpo femminile, anche quello materno, che con il tempo si piega e s’ingrossa pressato dal maschio che lo usa e ne abusa, lo picchia e lo umilia. Lila è nella trappola di Stefano che si è trasformato da mite a violento, e Lenù si strugge per Antonio, il suo fidanzato: esistenze che si uniscono e si fondono in un’unica materia dove, grazie al sostegno reciproco, trovano il modo per rimanere a galla e decostruendo i miti della maternità (nel tentare di perdere un figlio nato dallo stupro) e della femminilità.
Costanzo racconta senza tirarsi indietro il dramma di Lila: la violenza domestica, lo stupro matrimoniale, l’aborto, la gravidanza, e lo fa in maniera diretta, con un linguaggio crudo e asciutto, usando come specchio le fragilità e il senso di inadeguatezza di Lenù. Come quando Lila, tornata dal viaggio di nozze ammaccata e piena di lividi, si fa vedere solo dalla sorella-amica Lenù: togliendosi gli occhiali da sole fa luce su quel luogo oscuro della violenza domestica che negli anni ’50-’60 rimaneva irrimediabilmente chiuso dietro le porte dietro cui avveniva. Non a caso il marito Stefano si comporta come il classico prodotto del patriarcato più retrogrado immerso nella logica del “cosa mi fai fare” e del “ti amo troppo”:
convinto che tutto ciò che c’è sotto il vestito di Lila sia di sua proprietà, ribadisce a ogni tocco, con ogni parola, con ogni bacio strappato, il suo potere, compresa la prima notte di nozze in cui la stupra senza ascoltare le sue parole e le sue lacrime
Qui gli uomini sono violenti, narcisisti, tradiscono e abbandonano, invadono il “terreno sessuale” della donna-preda di turno e lo fanno senza ritegno, compreso Nino Sarratore: l’uomo di sinistra, di pace e cultura di cui sia Lila che Lenù s’innamorano. Lila impara presto cos’è convivere con la violenza però lei è una guerriera e non retrocede, quindi sfida e dichiara guerra al marito, alla società e all’educazione ricevuta a cui queste donne non vogliono soggiacere: la prima scappa dal marito e incomincia a lavorare come operaia, mentre la seconda, dopo la laurea pubblica il suo libro, rompendo schemi e regole.
L’emancipazione per Lenù si compie attraverso lo studio, il suo lasciapassare per una vita migliore perché parlare italiano correttamente e frequentare certi ambienti, le apre la mente. Ma questo non la rende immune dal maschio: la sua prima volta, un atto doloroso ma necessario per sfidare Lila che per lei un modello, avviene con Donato Sarratore, un uomo che l’aveva già molestata una notte, tempo prima. Per questo “La storia del nuovo cognome” è il racconto di due donne forti e coraggiose che, nonostante le violenze e le sopraffazioni, riescono a costruire la propria identità uscendo dal silenzio.