«Nell’era della globalizzazione e dei diritti umani più di 6.500 bambini e donne yazidi sono stati fatti prigionieri, venduti e abusati. Nonostante i nostri appelli, il destino di oltre 3.000 donne comprate e stuprate ogni giorno dall’Isis, è ancora sconosciuto. È inconcepibile che i leader di 195 paesi in tutto il mondo non si siano mobilitati per liberare queste ragazze, che se fossero un accordo commerciale, un giacimento petrolifero, o un carico di armi, sicuramente non sarebbe stato risparmiato nessuno sforzo pur di liberarle».
È con queste parole che Nadia Murad, la ragazza yazida rapita, venduta, stuprata e torturata dall’Isis 4 anni fa, ha ringraziato per aver ricevuto il Nobel per la pace in ex-equo con il ginecologo Denis Mukwege, che nel suo ospedale a Bukavu ha curato più di 50mila pazienti devastate dagli stupri di guerra nella Repubblica Democratica del Congo in cui milioni di donne hanno subito inaudite violenze e sevizie da parte di tutte le forze combattenti. Un premio per due attivisti che, secondo il comitato norvegese,
«hanno contribuito a dare visibilità alla violenza sessuale in tempo di guerra»
Nadia aveva vent’anni quando il Daesh prese Kocho, piccolo centro del Sinjar nel nord dell’Iraq, e ha visto sterminare la sua famiglia in una mattinata: «Guardavamo fuori – racconta – sparavano agli uomini e li decapitavano, e altri li portavano via in autobus. Sei dei miei fratelli sono morti così». Ed è da quel 3 agosto 2014 che la sua vita è cambiata per sempre: «Mi sento vecchia – dice – è come se nelle loro mani ogni parte di me fosse cambiata, ogni millimetro del mio corpo è diventato vecchio».
Nominata nel 2016 ambasciatrice Onu per i sopravvissuti al traffico di esseri umani, Murad ha fondato la Nadia’s initiative, una ong per le vittime di violenza e per il popolo yazida, e ha pubblicato un libro dal titolo “L’ultima ragazza”, con l’auspicio che sia lei l’ultima ragazza al mondo con una storia del genere. Un libro in cui racconta tutto: «Il mercato degli schiavi apriva di notte – si legge – e potevamo sentire il trambusto al piano di sotto dove i militanti dell’Isis si organizzavano. Quando il primo uomo entrò nella stanza, tutte le ragazze iniziarono a urlare. Camminavano fissandoci mentre noi gridavamo. Per prima cosa andavano verso le ragazze più belle, chiedendo l’età ed esaminando capelli e bocche.
“Sono vergini, giusto?” Chiedevano alla guardia. Poi ci toccavano passando le mani sui seni e sulle gambe, come se fossimo animali
Ho urlato e urlato, scacciando via le mani che si allungavano per toccarmi. Altre ragazze arrotolavano i loro corpi in palle sul pavimento o si gettavano verso le loro sorelle per cercare di proteggerle. Mentre ero distesa lì, uno di loro si fermò davanti a me. “Tu! La ragazza con la giacca rosa! Alzati!” I suoi occhi sembravano infossati nella carne del suo grosso viso che era quasi interamente coperto di peli.
Non sembrava un uomo ma un mostro, e puzzava di uova marce e acqua di colonia
Ma rapire, stuprare e ridurre a schiave sessuali queste ragazze per il Daesh non è un’idea improvvisata e non è solo un bottino, perché lo stupro di guerra, che colpisce tutte le donne nei conflitti, non è sempre lo stesso. Così come è stato in Congo e nella ex Jugoslavia, questo tipo di stupro organizzato e sistematico è un’arma di distruzione di massa, che si infrange sulle donne ma colpisce tutta la comunità prima e dopo la guerra, distruggendo il tessuto sociale e provocando crimini contro l’umanità, consumati sulla pelle della popolazione femminile. «Lo Stato islamico – dice Murad – ha pianificato tutto questo: come entrare nelle nostre case, cosa rende una ragazza più o meno preziosa, perché i militanti dell’Isis meritano una sabaya (schiava del sesso, ndr) come incentivo». Nadia è stata comprata e rivenduta molte volte, su di lei ci sono le cicatrici delle torture e le bruciature delle sigarette spente sulla sua carne nuda, e
quando ha tentato di scappare lanciandosi dal secondo piano, è stata ripresa e sottoposta a stupro di gruppo
Un giorno però uno dei suoi «proprietari» si è dimenticato di chiudere a chiave la casa dove era segregata ed è riuscita a scappare bussando a tutte le porte di Mosul finché una famiglia l’ha accolta e l’ha aiutata a fuggire con i documenti della figlia, per raggiungere i campi profughi del Kurdistan, e poi la Germania, dove vive tutt’ora. Oggi, anche se l’Iraq è stato liberato, il Daesh non è stato annientato e Murad vorrebbe vedere a processo i suoi aguzzini. «La situazione degli yazidi nelle prigioni dell’Isis non è cambiata – ha detto a Oslo durante la cerimonia per il Nobel – e gli autori dei crimini del genocidio non sono stati consegnati alla giustizia»: un impegno che rappresenterebbe invece «l’unico premio al mondo in grado di restituirci dignità», in quanto «se non verrà fatta giustizia questo genocidio contro di noi e contro altre comunità, si ripeterà».