Perché il doppio standard e il principio di legalità saltano quando a delinquere ci sono le donne

Quando il femminile non corrisponde all'immaginario a lei riservato dal maschile, la punizione è sempre esemplare

Ilaria Boiano
Ilaria Boiano
Avvocata ufficio legale Differenza Donna e dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. ha pubblicato, tra gli altri, "Femminismo e processo penale" (Ediesse)



Le rappresentazioni delle donne nella nostra società rimangono molto limitate: alle donne proposte come oggetto sessuale si contrappone l’immaginario della donna accudente e madre “in essenza”. Uscire da questo dualismo significa deviare dalla norma, una deviazione che per il sentire comune sembra ancora meritare una pena (anche solo sociale) più afflittiva: se le donne non accettano passivamente il ruolo di oggetto sessuale, ma si pongono come soggetto attivo e desiderante, allora si presume che vadano in giro in uno stato di consenso costante all’attività  sessuale e dunque la loro parola diviene “non attendibile”.

Anche rifiutare la maternità o modificarne l’articolazione tradizionale comporta una stigmatizzazione delle donne

che provano a reinventarsi. L’idealizzazione della maternità ha cominciato ad essere scalfita da quando le donne non sacrificano più la propria dimensione esistenziale, e la propria vita nei casi di violenza maschile, sull’altare della “sacra famiglia” da tenere unita, ma scelgono di percorrere la strada della libertà e della realizzazione personale: la punizione sociale per aver rotto i vincoli familiari è la rappresentazione come ex moglie avida e vendicativa o “madre alienante”. Se poi le donne sono pure straniere e per di più senza risorse, perché tali non sono considerati il coraggio e la determinazione che hanno consentito la fuga da persecuzioni e violenze e la realizzazione del progetto migratorio, il diritto alla piena realizzazione personale, anche attraverso la maternità, è fortemente compromesso da strutture sociali che, in luogo di “rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della personalità” (articolo 3 Costituzione italiana), ne producono di nuovi e spesso insormontabili che negano i più basilari diritti, compreso il diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8 CEDU).

La prevalenza di queste narrazioni ci parla di una società ancora refrattaria al principio di uguaglianza sul piano sostanziale e formale

Infine, la deviazione diviene socialmente intollerabile se le donne commettono reati: alla rappresentazione di uomini colti da raptus o criminali“per professione”, si contrappone l’immaginario di donne criminali promiscue, fredde dal cuore spietato, soggetti ‘doppiamente devianti’ dal comportamento innaturale perché non solo hanno infranto la legge, ma hanno anche trasceso le norme sociali e le aspettative connesse ad un comportamento femminile accettabile. Ancora la legge non è uguale per tutte: dalla lettura di recenti sentenze in materia di violenza sessuale, ma anche dei provvedimenti in materia di responsabilità genitoriale  sempre di più ratifica delle conclusioni dei “professionisti della genitorialità”, con buona pace dei principi di terzietà e imparzialità della funzione giurisdizionale, emerge immediatamente come il senso comune intriso di convincimenti ingiustificati e
narrazioni discriminatorie che ruotano intorno al sesso e ai ruoli di genere guidi anche il ragionamento giuridico con esiti in palese violazione dei diritti fondamentali.

Diviene secondario così verificare se quanto stabilito dalla legge, sia a livello sostanziale sia a livello procedurale, caso per caso sia stato rispettato. Dinanzi alla vicenda del figlio di Martina Levato, per il quale, come è noto, è stato disposto l’allontanamento immediato dalla madre al momento della nascita ed è stato aperto un procedimento di adottabilità dinanzi al Tribunale per i minori di Milano a seguito di ricorso del PM, questione da considerare in uno Stato di diritto, prima di ogni considerazione, per altro intrisa di retorica, sull’importanza del primo contatto madre-figlio o della forza “rieducativa” dell’esercizio della maternità per una donna condannata, ancora non in via definitiva, per reati gravi, è se le autorità hanno agito nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della donna in stato di privazione della libertà personale, cioè nelle mani dello Stato.

Oggetto di vaglio dovrà essere quindi l’apparato motivazionale dei provvedimenti delle autorità al fine di assicurare, insieme all’interesse e benessere del bambino, che qualsiasi decisione assunta non sia fondata su pregiudizi e rappresentazioni discriminatorie.In particolare, ciò che ha destato più perplessità nella vicenda per esempio di Marina Levato, almeno in base alle informazioni rese note dai media, è l’immediato allontanamento del neonato dalla madre dopo il parto: giustificato con la finalità di tutelare il benessere psicofisico del minore, ritenuto a rischio in caso di allontanamento successivo, tale atto appare di fatto un arbitrio commesso ai danni di una donna privata della libertà personale, atto per di più eseguito prima ancora dell’avvenuta notifica del provvedimento di allontanamento alla diretta interessata, che ha provocato sofferenza e dolore di tale gravità da configurare un trattamento inumano e degradante vietato dall’articolo 3 Cedu.

Il “superiore interesse” del minore, anziché prevalere, finisce per cedere il passo alla pretesa punitiva dello Stato

pretesa punitiva che si è manifestata al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge e in modo esacerbato perché l’interessata dal provvedimento ha violato non solo la legge, ma una norma sociale di genere: Marina Levato è doppiamente colpevole per il delitto commesso perché donna e dunque ancora più esemplare deve essere la reazione pubblica.
Dato di fatto, che conferma la natura discriminatoria per motivi di genere dell’allontanamento del neonato da sua madre, è che la medesima solerzia delle autorità a disporre l’allontanamento dal genitore non si rileva quando sono le donne a segnalare comportamenti pregiudizievoli dei padri ai danni dei figli minori: in questi casi, l’argomentazione con la quale si giustifica la mancata adozione di misure di protezione dei minori è che gli eventuali comportamenti violenti commessi nei confronti di terzi (magari proprio della ex compagna madre del proprio figlio) non può essere di per sé ritenuto indice di inadeguatezza genitoriale.
In definitiva, nel nostro ordinamento il principio di legalità è minacciato da un doppio parametro di valutazione che guida l’applicazione della legge in direzione discriminatoria delle donne. E questo non è solo un problema nostro, di noi donne, ma riguarda la società tutta: quando vacilla il principio di legalità, è a rischio la libertà di tutti e tutte.

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