Il contenzioso sulla Casa delle donne a Roma: tutti i numeri

In una intervista su Sky Tg24 la sindaca Raggi parla del debito reclamato verso il Consorzio del Buon Pastore

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



Alla fine è arrivata forte e chiara la risposta che la Casa internazionale delle donne di Roma ha dato pubblicamente alla sindaca Virginia Raggi con una Conferenza stampa che si è svolta ieri a via della Lungara 19 con le avvocate Giuliana Aliberti e Maria Rosaria Russo Valentini, che si stanno occupando del ricorso al Tar fatto il 29 ottobre dal Consorzio della Casa contro la procedura di sfratto del comune di Roma.

Il casus belli è stata l’intervista che Raggi ha rilasciato a Sky Tg24 una settimana fa dove si è lamentata di non aver avuto solidarietà femminile quanto “Libero” l’ha titolata “Patata bollente” – dimenticandosi che quel giornale è stato sanzionato dall’Ordine dei giornalisti grazie alle segnalazioni di giornaliste donne – e poi ha parlato di femminismo dicendo che lei quegli anni non li ha vissuti ma che ha lottato “per avere gli stessi diritti” e “non per avere privilegi”, riferendosi alla Casa internazionale delle donne di Roma alla quale la giunta capitolina il 3 agosto ha revocato la concessione dei locali del Buon pastore, aggiungendo che quel consorzio “continua a non voler pagare neanche una piccola quota peraltro ulteriormente scontata” del canone d’affitto:

un debito che ammonterebbe a 830mila euro, anche se secondo lei sono “molto di più”

Virginia Raggi

Poi, davanti a una sconcerta Maria Latella che la intervistava, Raggi aveva concluso con un “Vogliamo trovare una transazione? Un accordo? Facciamolo”, ma “non c’è stato nulla”, “pretendono di continuare a non pagare”. Parole che hanno sorpreso anche le donne che quella Casa l’hanno messa su, e che da mesi cercano di concludere una transazione equa con la sindaca la quale, incontrata a maggio, aveva detto loro che mai avrebbe usato la clausola di cacciare le donne dalla Casa, come invece ha poi fatto con la revoca del 3 agosto. “Noi abbiamo depositato il ricorso al Tar e contestualmente abbiamo chiesto ufficialmente al comune di Roma di riceverci e invitarci a pagare quello che è giusto”, chiarisce l’avvocata Russo Valentini. Ma qual è il giusto? Per il Comune di Roma la Casa è morosa perché in 15 anni ha accumulato un debito su un canone d’affitto di 90mila euro l’anno

che arriva mensilmente scontato per gentile concessione, e che il consorzio non è riuscito a pagare interamente ma solo al 45% per una cifra totale di 600 mila euro: un pagamento parziale (e non nullo come dice la prima cittadina romana) a cui mancano all’appello 4.000 euro al mese per un totale di 830 mila euro, compresi gli interessi. Un debito che la giunta capitolina vuole incassare pena lo sfratto, senza mettere in conto i servizi e le attività per la cittadinanza svolte in questi anni dalla Casa, compresa la manutenzione e la ristrutturazione del Buon Pastore che è uno stabile del ‘600 tenuto fino a oggi come un gioiello e che altrimenti sarebbe andato in malora come è successo con palazzo Nardini di via del Governo Vecchio (occupato dal movimento femminista e sgomberato nel 1984).

Un immobile ben conservato che il Comune di Roma si ritrova in ottimo stato senza aver mai speso un soldo

salvo quei 4.000 euro mensili non pagati dal consorzio il quale ha però erogato alla cittadinanza servizi che, secondo lo stesso comune, ammonterebbero a un valore di circa 700mila euro l’anno (stima degli Uffici tecnici dell’Assessorato al Patrimonio del Comune di Roma, marzo 2015, recepita nella Delibera del Consiglio comunale, luglio 2015).

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Casa internazionale delle donne di Roma

Consulenze psicologiche, ascolto a donne vittime di violenza, consulenza legale, visite ostetriche e ginecologiche preliminari, sostegno alla genitorialità, alfabetizzazione informatica, insegnamenti lingua italiana per donne straniere, corsi d’inglese, orientamento professionale e formazione finanziaria, promozione culturale e un bellissimo archivio: tutti servizi gratuiti svolti da professioniste per un totale di 12 mila ore l’anno. Una Casa dove tutti possono accedere, sedersi in giardino, usufruire del wi-fi gratuito e di bagni puliti, in una città dove tutto ciò è inesistente. Non solo, perché un immobile del genere, con la manutenzione di cui ha bisogno, costerebbe al Comune, solo per tenerlo aperto senza farci nulla, 250mila euro l’anno:

SOLDI CHE PER ORA, CON LA CASA DELLE DONNE CHE LO GESTISCE, RIMANGONO NELLE CASSE DEL COMUNE: CHI DEVE SOLDI A CHI?

“La Casa internazionale delle donne sta svolgendo in concessione attività socialmente utili d’interesse cittadino – dice l’avvocata Russo Valentini – su delega e per conto del comune secondo il regolamento comunale 5623 del 1983 tutt’ora vigente”. Un regolamento in base al quale l’immobile del Buon Pastore è destinato solo e unicamente a essere Casa internazionale delle donne e che nell’83 è stato affidato a quello che poi si è costituito come consorzio. “Di questa concessione di attività socialmente utili l’immobile costituisce un accessorio strumentale – spiega Valentini – che per legge è riservato alle donne senza altra destinazione, e men che meno a un uso commerciale. E questo non solo per atti comunali ma in base alla legge dello stato (Decreto ministeriale, 1 marzo 1992, Programma degli interventi per Roma Capitale, ndr) che ha previsto la destinazione del Buon pastore esattamente a Casa internazionale delle donne per la salvaguardia di un patrimonio non solo architettonico ma anche culturale, un luogo che ha sempre accolto le donne dal 1600 in poi”.

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Giardino della Casa internazionale

“Quanto richiesto – ha spiegato la presidente Francesca Koch – è esattamente ciò che prevede la convenzione firmata a suo tempo con il comune di Roma”: uno stabile antico “mantenuto alla perfezione da 30 anni senza l’intervento capitolino e con attività portate avanti da professioniste gratuitamente”, precisa Giulia Rodano del direttivo, aggiungendo anche che quello della Casa “non può essere considerato un caso di affittopoli, per cui noi usufruiremmo in modo parassitario di un bene pubblico come dice la sindaca, ed è sbagliato considerarlo un immobile per uso commerciale con prezzi di mercato, perché non lo è ed è la legge a stabilirlo”. Come spiega l’avvocata Aliberti quello che si chiede adesso è di scorporare le spese di manutenzione straordinaria che gravano sulla Casa, e il valore di attività che comunque deve essere valutato in quanto si tratta di servizi che dovrebbero essere resi dall’amministrazione.

“Non vogliamo regali né privilegi soltanto che venga riconosciuto giuridicamente che qui si svolge un lavoro sociale che economicamente ha un valore

e che soltanto questa Casa può destinare a donne che possono trovare qua un rifugio h24 col sostegno volontario”, dice ALberti. “In più – continua – il Buon Pastore è destinato a uso di pubblica utilità senza fine di lucro e lo stesso canone ricognitivo fa parte di questa normativa, in quanto fa parte del patrimonio indisponibile del comune che, diversamente dal patrimonio disponibile, non può essere usato per fare cassa, per richiamare i debiti, e quindi immesso sul mercato.

Questa non è mafia capitale dove sono stati usati immobili del patrimonio disponibile del comune per fare servigi a politici. C’è una bella differenza”. Ma allora perché la giunta capitolina non vuole riconoscere il lavoro svolto dal consorzio cacciando le donne dalla loro casa e mettendo a bando i servizi scorporandoli, con un costo aggiuntivo per le casse del comune di 250mila euro solo per tenere aperto l’immobile? “Sarebbe una pazzia – conclude Aliberti – perché questo immobile è per legge destinato a essere Casa internazionale delle donne e le associazioni delle donne romane sono sempre quelle: cosa fa la sindaca, rimette a bando attività che sono gestite da associazioni che sono qua dentro dopo averle cacciate?

A me sembra un’elucubrazione fantastica, la legalità non è questa perché in un bando puoi anche facilitare gli amici tuoi, e in ogni caso mettere al bando uno spazio dove tutte le associazioni che si occupano di donne stanno già qua dentro, mi sembra una follia. Io credo, e spero, che ci sia stato un difetto d’istruttoria, che il comune non abbia chiare tutte le carte che noi comunque nel ricorso abbiamo presentato. Una mancanza d’informazione, altrimenti è inspiegabile, io stessa non me lo spiego”.

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