Dopo tante critiche, l’Italia scende in piazza per dire no alla riforma del diritto di famiglia così come la vorrebbe il senatore Simone Pillon con il disegno di legge 735, per ora bloccato in commissione giustizia al Senato dove si stanno svolgendo le audizioni. Indetta dalla Rete dei centri antiviolenza (DiRe), le manifestazioni del 10 novembre si dislocheranno in diverse città sul territorio nazionale con slogan che diranno no alla mediazione obbligatoria e a pagamento, all’imposizione di tempi e alla doppia residenza dei minori, al mantenimento diretto e al piano genitoriale, rimarcando un netto rifiuto all’alienazione parentale.
Le Donne in rete contro la violenza scenderanno in strada insieme ad altre organizzazioni per chiedere il ritiro del ddl Pillon e anche degli altri disegni di legge in materia (n. 45, 768 e 118) attualmente in commissione giustizia. Con una petizione arrivata quasi a 100 mila firme, DiRe non è affatto convinta delle rassicurazioni del senatore Pillon riguardo la violenza contro le donne che lui dice di non toccare, perché, secondo loro, con questa legge peggiorerebbe ulteriormente una situazione già critica nei tribunali italiani.
Ce lo spiega Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna che fa parte della rete DiRe e che da anni si occupa dell’ufficio delle avvocate penaliste all’interno dei centri antiviolenza. «Se pensiamo che oggi ci vogliono 6 mesi per divorziare in consensuale e 1 anno nel giudiziale, penso che con una legge del genere non divorzierà più nessuno».
Avvocata Manente, l’attuale legge sull’affido secondo lei va bene?
Il 90 per cento in Italia è affido condiviso, ma il problema del ddl 735 è che va ad aggravare una situazione già complicata.
Cioè?
Quando ci sono separazioni c’è sempre conflittualità, magari non è violenza ma ci può essere una conflittualità alta perché la separazione è un momento di lutto, quindi la cosa più importante è lasciare fuori da queste dinamiche i bambini mantenendo il più possibile le abitudini che avevano prima della separazione, cosa che invece il DDL Pillon sconvolge.
In che modo?
Immettendo regole troppo rigide decise a tavolino che impongono diktat su genitori che sono già in difficoltà, e andando contro l’interesse dei figli che invece devono mantenere tutto quello che avevano prima, a partire dalla casa che spetta a loro. Se poi un padre si occupava dei figli 10 ore il giorno, va benissimo, purché lo faccia, se la madre gli faceva fare i compiti, che continui a farlo, importante è non sconvolgere le abitudini dei bambini.
Ma è vero che queste mamme non fanno vedere i figli ai papà?
Le denunce sono molte e sono sempre da parte dei padri ma di solito i giudici le respingono perché senza fondamento oppure perché esiste una situazione di violenza e quindi il bambino non vuole vedere il padre perché è traumatizzato.
Questo in penale, e al tribunale civile?
Qui il giudice, davanti a una separazione conflittuale, non verifica l’eventuale presenza di violenza in quanto il consulente troppo spesso invece di segnalare possibili maltrattamenti, fa Ctu (consulenze tecniche d’ufficio, ndr) in cui ravvede situazioni di alienazione parentale dove il rifiuto di un genitore da parte del bambino non accende il dubbio dell’abuso, e lo psicologo, o lo psichiatra, dice semplicemente che la mamma aliena il figlio consigliando di prelevarlo per metterlo in casa famiglia.
Quindi penale e civile non si incontrano sulla violenza domestica?
Se pensiamo che nelle Linee guida del Consiglio superiore della magistratura si dice che il femminicidio avviene quasi sempre per mancato coordinamento tra civile e penale, ci rendiamo conto che ci sono due registri: uno al penale e uno al civile, ed è su questo che si dovrebbe intervenire con una legge e non certo con il ddl Pillon che invece esaspera una situazione già tristemente esistente.
Sembra però che qui il problema sia il tempo che i padri non passano con i figli una volta separati.
Se andiamo a vedere di solito sono le madri che chiedono ai padri di essere più presenti, perché già oggi è prevista la divisione in tempi paritetici, spesso non rispettati proprio dai papà.
E come se ne esce?
Se un padre vuole fare il casalingo va benissimo ma non deve essere imposto per legge con una mediazione forzata. La mediazione è uno strumento che funziona se è volontaria e se non esistono maltrattamenti, perché quando c’è violenza una persona è sottomessa all’altra quindi non c’è confronto e non ci può essere perché una delle due sta zitta, è sottoposta, non parla, quindi che mediazione è?
Ma la mediazione è vietata nei casi di violenza domestica dalla Convenzione di Istanbul.
Oggi la mediazione spesso non funziona perché dove la violenza non è riconosciuta come tale, le donne si trovano esposte davanti agli stessi mediatori che non sono assolutamente specializzati sul tema e non possono affrontare questo tipo di dinamica.
Quindi cosa succede?
Succede che devono trovare un accordo per forza e spesso salta fuori l’alienazione parentale. Io ho una cliente accusata di alienazione parentale perché lui doveva vedere la figlia di 14 anni 2 volte a settimana e siccome la ragazza non ci voleva andare, allora sosteneva che era la mamma che la condizionava.
Come è finita?
Il giudice ha stabilito una Ctu ed è risultato che la ragazza non voleva vedere il padre perché lui non sapeva rapportarsi con la figlia senza nessuna colpa della madre. Questo però a lui non è bastato e ha fatto domanda per una nuova Ctu. A quel punto sono andati tutti dal mediatore davanti al quale il padre ha cominciato a urlare contro la donna, offendendola e dicendo che ostacolava il rapporto con la figlia, al punto che la signora non ha potuto dire nulla. Ma la cosa più grave è stata che il mediatore non ha fermato la violenza verbale del padre, ed è stato zitto anche lui, inerme. Davanti a queste situazioni, che non sono casi isolati, mi chiedo: ma questi mediatori che li controlla? Chi li forma? Sono in grado di riconoscere una situazione di violenza, di intervenire, di segnalarla?
Qual è secondo lei la soluzione?
In casi come questi, quando un figlio o una figlia rifiuta un genitore, è sentire il minore. Qui per esempio la ragazza aveva 14 anni e non è mai stata audita, che è una cosa inimmaginabile, perché è la prima cosa da fare.
Chi può gestire una conflittualità così alta?
L’alta conflittualità può essere gestita da avvocati specializzati che non alzano l’asticella della rabbia nell’interesse di tutti, e riescono a confrontarsi e a trovare soluzioni che possono rispettare la vita dei coniugi che si separano e soprattutto quella dei bambini.
I bambini vanno ascoltati sempre?
Certo, se i figli vogliono abitare col padre, se sono abituati a stare di più col lui perché la madre lavora tanto, ben venga, ma non imponendo la presenza dello Stato che entra dentro la famiglia come in uno stato di polizia, perché cancella le scelte private, personali. La bigenitorialità obbligata in questo modo nasconde il progetto del matrimonio indissolubile ed è lesivo sia per gli uomini che per le donne, non solo perché sottrae al giudice la materia, ma perché le decisioni sono relegate a figure di professioni private con un inquadramento rigido tutto a carico delle coppie che se lo devono anche pagare.
Pillon all’articolo 11 dice che in caso di violenza l’affido condiviso decade ma mette sullo stesso piano anche il mancato spazio per il minore.
Prima di tutto è ridicolo, come se un genitore povero potesse essere paragonato a un genitore violento. E poi è ovvio che se tu consideri la violenza come prodotto di false accuse al 90% questa sparisce, e quindi non ci si pone neanche il problema. Se poi vedi l’articolo 12 che obbliga il bambino alla frequentazione del genitore anche se fosse un maltrattante o un abusante, si spiega tutto.
Ma a lei queste cifre convincono?
Queste cifre sono in contrasto con i dati della Commissione sul femminicidio conclusa quest’anno al senato, per cui il 60% delle donne che subiscono violenza nelle relazioni d’intimità non denunciano e il 90% dei femminicidi avvengono durante la separazione.
Cosa non quadra?
Voglio dire che le donne faticano a denunciare e quando lo fanno non è mai una querela strumentale perché in fase di separazione aumenta l’escalation della violenza, tanto che spesso vengono uccise. Perciò è normale che la separazione sia chiesta quando si fanno le denunce, e non per ottenere migliori situazioni con i figli ma per chiedere protezione. Oggi nei tribunali civili al momento della separazione, se la donna denuncia un marito violento, si parla troppo spesso di false denunce, di alienazione parentale, e questo produce un pericolo ulteriore per cui invece di essere protette le donne vengono stigmatizzate.
Cosa pensa dell’alienazione parentale?
Che andrebbe vietata e non messa in una legge. Perché oltre a non essere mai stata provata scientificamente, espone ancora di più le donne e i bambini alla violenza mettendo in dubbio la denuncia della vittima e la sua parola, senza verificare il rifiuto del bambino.
C’è l’ipotesi, in commissione senato, di accorpare il ddl Pillon con il ddl 45 presentato da Paola Binetti. Lei ne sa qualcosa?
Il ddl 45 stabilisce modifiche importanti all’articolo 572 del nostro codice penale, per cui i maltrattamenti dovranno essere sistematici mentre attualmente sono reati che presentano la caratteristica dell’abitualità nel comportamento violento, che non significa sistematicità.
Può spiegare meglio?
Nella violenza domestica vediamo l’alternarsi di momenti di luna di miele o di pentimento alla violenza come elementi determinanti nella dinamica intima in cui la violenza non è mai continua ma procede tra alti e bassi, e questa è la norma. Quindi prevedere che la violenza sia sistematica per essere reato, significa annullare il fenomeno che invece è proprio caratterizzato da momenti di tranquillità.
È un’altalena tra l’aggressione e il perdono per poter ricominciare da capo?
Esatto. La difesa degli offender porta sempre la prova di periodi di felicità tra coniugi come un viaggio, una festività, una ricorrenza, regali, le vacanze, per alleggerire il reato ma ormai sappiamo che sono interni alla dinamica della violenza perché altrimenti le donne non resisterebbero, e quindi la giurisprudenza ha stabilito che i periodi di normalità non escludono l’abitualità della violenza perché sono fatti apposta per tenere sottomessa la donna nel maltrattamento all’interno del rapporto.
Quali sarebbero le conseguenze di questa proposta?
La sistematicità non appartiene alla violenza in famiglia, infatti le donne dicono spesso: se fosse stato sempre così, me ne sarei andata prima. Per questo togliere l’abitualità e sostituirla con la sistematicità, significa negare il fenomeno della violenza domestica e molti uomini violenti sarebbero assolti. Si torna indietro, e sembra fatto per scoraggiare la denuncia da parte delle donne che è invece il problema che noi abbiamo.
E sarebbe?
Che già le donne non denunciano, e se passa tutto questo non denunceranno mai più.