Direttrice di DonnexDiritti Network
e International Women
Una settimana fa a Los Angeles centinaia di persone hanno sfilato, partendo dal Dolby Theater – dove vengono consegnati gli Oscar – percorrendo parte del Sunset Boulevard, in segno di protesta contro le molestie e le violenze sulle donne: persone che si sono riunite sotto lo slogan #metoo, hashtag lanciato sui social da un mese per permettere a chiunque di denunciare i propri offender pubblicamente. Tutto è iniziato il 10 ottobre, quando Ronan Farrow ha pubblicato sul «New Yorker» la sua inchiesta in cui 30 donne raccontano di assalti sessuali, stupri e fughe nel panico di fronte a un uomo che, all’epoca dei fatti, era il più potente produttore di Hollywood: Harvey Weinstein.
Costumiste, impiegate, modelle ma anche grandi attrici, all’epoca all’inizio della carriera, che descrivono un predatore sessuale che con la scusa del lavoro le faceva cadere in trappola
Si tratta di Rosanna Arquette, Gwyneth Paltrow, Angelina Jolie, Judith Godrèche, Heather Graham, Kate Beckinsale, Eva Green e molte altre, ognuna con un racconto doloroso. Un’inchiesta che ha condotto Weinstein a rintanarsi in una clinica per «curarsi» , ciò che non ha impedito l’avvio di procedimenti penali a suo carico a New York, Londra e Los Angeles. Weinstein è stato anche espulso dall’Academy, mentre il presidente francese Macron gli ha tolto la Legion d’Onore, ma il fatto più eclatante è che questo caso ha dato il coraggio alle donne di tutto il mondo di parlare delle violenze subite, senza vergogna o paura di non essere credute. E la voragine si è aperta.
Come ha scritto Tarana Burke, un’attivista americana, «per ogni Harvey Weinstein, esiste un centinaio di altri uomini nelle vicinanze che fa esattamente la stessa cosa»: niente di più vero se contiamo che accanto al moltiplicarsi delle accuse contro Weinstein, è cominciato il conto alla rovescia per molti altri che nel mondo dello spettacolo hollywoodiano sono stati nominati.
Tra questi Kevin Spacey, Westwick, Dustin Hoffman, Toback, Jenny McCarthy, Seagal, Terry Crews, l’attore nippo-americano George Takei (il «signor Sulu» di Star Trek), Richard Dreyfuss, il produttore Andrew Kreisberg, l’attore comico Louis C.K., e ora anche John Travolta: uomini che rischiano di veder interrotta la loro carriera e che dovranno rispondere di molestie o violenza sessuale, per un numero che aumenta giorno dopo giorno e che ha costretto i procuratori di Los Angeles a creare una task force di esperti per poter valutare la valanga di denunce che sono arrivate.
Ma Hollywood non è la sola a implodere, perché lo spettro della verità sta dilagando ovunque. Negli Usa si sono dimessi da un giorno all’altro il direttore degli Amazon Studios, Roy Price, e due impiegati della Fidelity Investments a Wall Street; Robert Scoble, esperto di tecnologia, ha fatto mea culpa sui social e il conduttore di Fox News,
Bill O’Reilly, ha proposto di pagare 32 milioni di dollari per non essere denunciato, mentre la campionessa Hope ha accusato di molestie l’ex numero uno della Fifa: Sepp Blatter
In Svezia 456 attrici del teatro e del cinema hanno pubblicato una lettera aperta in cui descrivono gli abusi e le molestie subite negli anni da registi e uomini del loro ambiente, tanto che la ministra della Cultura, Alice Bah Kuhnke, ha convocato un incontro urgente con i responsabili dei maggiori teatri nazionali. Ma chi veramente sta tremando è il parlamento inglese dove, dopo le denunce a carico del sottosegretario Mark Garnier, l’ex ministro Stephen Crabb e le dimissioni del ministro della Difesa Michael Fallon, è stata creata dalla premier Theresa May una commissione d’indagine sulle molestie che ha già prodotto un dossier con più di 50 nomi di parlamentari, ministri e sottosegretari.
Un’onda che non sembra arrestarsi, anche grazie alle campagne sui social con l’hashtag#metoo, #quellavoltache #balancetonporc, che hanno fatto emergere un mondo finora rimasto silenzioso: migliaia di donne che stanno raccontando la violenza subìta senza paura di essere giudicate, un fenomeno finora inedito che non permetterà ritorni al passato.
Tra pochi giorni, il 25 novembre, si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne – indetta dall’Onu dal 1999 in ricordo delle tre sorelle Mirabal torturate e uccise durante il regime Trujillo nel 1960 – con la campagna UNiTE, fino al 10 dicembre; e questo perché nel mondo la violenza contro le donne e le ragazze (VAWG) è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e devastanti e coinvolge più di un miliardo di persone. Nel complesso il fenomeno è presente in ogni paese al di là delle differenze culturali, generazionali, socio-economiche e geografiche: una violenza che all’80 per cento è domestica e che non tocca solo paesi economicamente deboli o fasce sociali meno abbienti, ma anche quei Paesi che sembrano aver raggiunto un certo livello di uguaglianza tra i generi, e ceti sociali alti in cui ci sia una donna scolarizzata, affermata sul lavoro e con ruoli di responsabilità. Questo perché la cultura dell’esercizio del potere maschile sulla donna come oggetto diverso da sé è talmente profondo da non essere mai morto da nessuna parte.
In Europa, secondo l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Ue, la violenza sarebbe più estesa nei Paesi del Nord, dove il primato spetta alla Danimarca (52 per cento), anche se in realtà dove i dati diminuiscono aumenta il sommerso: come in Italia, dove l’Istat (Istituto nazionale di statistica) ha contato 7 milioni di donne che hanno subito una forma di violenza nella vita, ma anche un 93 per cento che la subisce in silenzio – rivelando così che probabilmente il dato sarebbe molto più alto se tutte le donne denunciassero i propri offender. Ma come denunciare quando si teme di non essere protetta e di essere stigmatizzata da un contesto ancora profondamente pervaso da una cultura che pone la donna su un piano di subalternità?
In Italia, a proposito del caso Weinstein, le poche donne che hanno parlato facendo nomi e cognomi (circa 12 attrici per ora), hanno subito una doppia molestia, perché ampiamente giudicate e attaccate
A partire da Asia Argento che, per aver rivelato la violenza subita dal produttore americano a 21 anni, ha dovuto subire un massiccio victim blaming sui social e su alcuni media, tale da essere costretta a giustificarsi per aver denunciato Weinstein. Simili sofferenze, alle donne non vengono risparmiate neanche quando cercano di uscire allo scoperto rivolgendosi alla giustizia: interrogatori morbosi da parte della polizia, giudizi morali sui giornali a proposito del comportamento avuto, le accuse di aver fatto qualcosa che ha provocato l’uomo, o di essere poco credibili, che risuonano nei tribunali, sono tutti
fattori che provocano una seconda violenza chiamata «vittimizzazione secondaria»vietata per legge
Ma la violenza non nasce sugli alberi ed è il prodotto di uno sbilanciato rapporto di forze tra uomini e donne in una cultura ancora profondamente patriarcale e paternalista, anche là dove non ce lo aspetteremmo, e che comincia fin dalla scuola, dove i maschi giocano a pallone e le femmine con le bambole. Considerare una donna un oggetto di cui disporre fino alla sua uccisione, e la libertà di toccare un sedere quando passa accanto come se fosse un soprammobile, fanno parte dello stesso humus culturale ed è molto difficile liberarsi da certi stereotipi se non si attua una trasformazione profonda e capillare che superi l’emancipazione per una reale messa in discussione dei ruoli, della libertà e del potere, e questo in tutti gli ambiti della vita sociale e privata: sul lavoro, a scuola, in famiglia, per strada e nella vita quotidiana.