Legge 194: chi obietta mette in serio pericolo la vita delle donne

In Italia l'80% dei ginecologi non applica più la legge 194 e di fatto è come un Paese in cui abortire non è legale

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice di DonnexDiritti Network e International Women



“Oltre l’80% dei ginecologi è obiettore di coscienza e le donne respinte dalle istituzioni tornano al segreto: ventimila le interruzioni di gravidanza illegali calcolate dal ministero della Sanità, ma secondo alcune stime sono almeno il doppio. Ambulatori fuorilegge e farmaci di contrabbando”. Con questo input si apre  “194, così sta morendo una legge. In Italia torna l’aborto clandestino”, l’inchiesta di Maria Novella De Luca, giornalista di Repubblica,  pubblicata 10 giorni fa sul sito del giornale. Qui si legge:

da Nord a Sud l’aborto legale è cancellato e l’80% dei ginecologi non applica più la 194

In Italia ci sarebbero quindi “Ventimila gli aborti illegali calcolati dal ministero della Sanità con stime mai più aggiornate dal 2008: quarantamila, forse cinquantamila quelli reali”. Una realtà agghiacciante se a questi si aggiungono anche i “Settantacinquemila aborti spontanei nel 2011 dichiarati dall’Istat”, di cui un terzo potrebbe essere il “frutto probabilmente di interventi casalinghi finiti male”.Come nella migliore tradizione di un potere solido e millenario, se una cosa non si riesce a combattere da fuori, basta infiltrarsi bene dentro, come un cancro che mangia e prosciuga un copro vivo, dimorandoci. Questo è quello che è successo a una legge come quella italiana sulla interruzione volontaria di gravidanza, voluta da un referendum popolare, ribadita con la stessa forza quando fu messa in discussione, e oggi quasi impraticabile qui da noi. Un effetto dell’imbarbarimento, civile e politico, di un Paese, il nostro. Ma cosa succede altrove? Secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità)

circa 16 milioni di adolescenti, di cui 2 milioni sotto i 15 anni, partoriscono ogni anno nel mondo, mentre 3 milioni rischiano la vita con aborti illegali

In uno studio su Lancet si legge che la metà degli aborti nel mondo non avvengono in condizioni di sicurezza e di questi il 98% avviene in paesi dove le leggi sull’aborto sono restrittive. Come ha sottolineato Richard Horton, direttore di Lancet, “Condannare, stigmatizzare e criminalizzare l’aborto, non serve: si tratta di strategie crudeli e fallimentari”, perché dove l’aborto è consentito, la salute della donne è tutelata, mentre dove le leggi lo vietano, la donna mette in pericolo la sua vita affrontando un aborto clandestino.

L’82% delle gravidanze indesiderate si verifica in donne che non riescono ad accedere a servizi di pianificazione familiare, e vietare l’aborto non è la soluzione, anzi quando una donna interrompe una gravidanza la struttura in cui ha fatto l’intervento propone subito un percorso di contraccezione, cosa che senza dubbio non avviene se l’aborto è clandestino. Ecco allora che in Italia, dove la legge c’è, impedire la sua corretta applicazione equivale realisticamente non a far diminuire gli aborti, ma a mettere in pericolo la vita delle donne.

Per l’Onu chi impedisce o si rifiuta di praticare una interruzione volontaria di gravidanza, infligge una forma di tortura alla donna

e quindi gli Stati devono assicurare alle donne l’accesso alle cure mediche, comprese quelle connesse all’interruzione di gravidanza. Il report sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, presentato a Ginevra a marzo, di Juan E. Méndez (relatore speciale delle Nazioni Unite), “si concentra su alcune forme di abusi in strutture sanitarie che possono attraversare la soglia di maltrattamenti che equivale a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti”, tra cui Méndez cita specificamente la mancanza di accesso all’aborto.

Méndez , da tempo attivista dei diritti umani e professore di Diritto presso l’American University, dichiara che “la negazione di servizi legali e disponibili come l’aborto e l’assistenza post-aborto”, equivalgono a “maltrattamenti e umiliazioni in contesti istituzionali”.Ma il punto è anche un altro perché, come osserva la giornalista britannica Laurie Penny  (New Statesman) se “possiamo scegliere se e quanti figli vogliamo avere e quando averli, possiamo essere sessualmente attive senza timore di una gravidanza, e possiamo essere presenti, in teoria, in ogni ambito della vita pubblica e professionale. Possiamo avere, cioè, tutti i vantaggi di cui gli uomini hanno sempre goduto per puri motivi biologici”.

Un attacco che non è semplice “guerra culturale” ma una vera  “controrivoluzione sessuale” che si gioca sulle donne in Europa, in America e nel mondo, anche se con forme diverse e in maniera trasversale. Il recente caso di Beatriz – una ragazza di 22 anni affetta da lupus e insufficienza renale, incinta di una bambina affetta da anancefalia (malformazione che comporta la quasi totale assenza del cranio) – alla quale è stato negato l’aborto terapeutico nel Salvador dove l’aborto è illegale e che alla fine ha avuto un cesareo alla ventisettesima settima da cui è uscita una bimba morta, dimostra che il problema non è la vita di chi nasce ma il fatto di vietare tassativamente un’interruzione di gravidanza come libera scelta della donna, la cui vita in fondo vale meno che zero (come ha dimostrato il caso Beatriz in cui lei ha rischiato di morire).

La cosa più grave però è stato il pressing della chiesa cattolica

che, con metodi identici in tutto il Pianeta, ha fatto pressione affinché la donna non ottenesse il permesso di interrompere la gravidanza dalla Corte Suprema del paese, a cui Beatriz si era rivolta con un ricorso. E qui sono scesi a fianco delle organizzazioni no-choice per impedire l’aborto, anche i vescovi, ribadendo che la vita va difesa fin dal concepimento e dimostrando quindi di mettere in secondo piano la sopravvivenza della madre. Da questa prospettiva, la soluzione alle difficoltà che incontrano oggi le donne che vogliono interrompere la gravidanza non va cercata in strategie aziendali che disincentivino l’obiezione di coscienza dell’operazione sanitario o che permettano all’operatore sanitario di praticare l’obiezione senza compromette i diritti delle donne, ma contestando la legittimità morale, prima che giuridica, del diritto dell’operatore all’obiezione di coscienza. La difficoltà che le donne incontrano nell’applicazione di un loro diritto in Italia, come altrove, non può essere causata da l’etica professionale del medico che non dovrebbe far valere i propri convincimenti morali quando sono in gioco la salute e i diritti delle persone.

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