La destra chiede l’ergastolo ma le donne continuano a morire

Le deputate Bongiorno (Fli) e Carfagna (Pdl) sostengono un ddl per dare l’ergastolo a chi uccide le donne

Luisa Betti Dakli
Luisa Betti Dakli
Direttrice DonnexDiritti International Women



Mi ricordo il 25 novembre di due anni fa quando scrissi un pezzo dal titolo emblematico: “Violenza sulle donne, mattanza silenziosa”, dopo che i centri antiviolenza mi chiamarono disperati perché le donne continuavano a morire e non sapevano come fare perché nessuno si filava la notizia.

Oggi la situazione invece è fortunatamente ribaltata: di femminicidio ne parlano tutti e la stampa e la tv è piena di storie su questo fenomeno. Eppure bisogna stare attente perché oltre ai tantissimi eventi e manifestazioni che nel Paese si accavallano, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne rischia di essere un boomerang all’italiana, perché senza decisioni serie, dirette, e senza una risposta istituzionale con politiche concrete per contrastare il femminicidio, potrebbe essere che dopo la valanga mediatica tutto poi rimanga com’era.

le deputate Bongiorno e Carfagna vogliono l’ergastolo a chi uccide “in reazione a un’offesa all’onore proprio o della famiglia”

(onore? Il delitto d’onore da noi è stato cancellato nel 1981), chiedendo di introdurre l’aggravante negli omicidi a seguito di maltrattamenti (già c’è, ed è stato introdotto a ottobre con la ratifica della Convezione di Lanzarote) e introducendo il matrimonio forzato (un grosso problema per l’Italia). Cioè: nulla. La senatrice Anna Serafini, che sta costruendo un ddl per il contrasto al femminicidio, pur con tutta la buona volontà, non ha ancora chiaro quali siano i punti nodali per affrontare il problema e continua a girare in tondo con un documentone che andrebbe snellito e rivisto attentamente prima di portarlo in giro; mentre il suo partito, il Pd, lancia l’iniziativa “scarpette rosse” perché sia mai che poi si dica che loro non hanno fatto nulla sulla violenza (alcune deputate del Pd indosseranno scarpe rosse con lo slogan: Scarpe rosse eppur bisogna andar).

Mara Carfagna

Alla ribalta è tornata anche Isabella Rauti che invece su questi temi sa il fatto suo, e che per questo ha lanciato due giorni fa una campagna ben finanziata con l’associazione “Hands off Women-How”, che parte dal fatto che le violenze di genere “non possono essere considerate fatti individuali e privati, ma devono essere affrontate e contrastate come responsabilità collettive”: proprio lei che ha appoggiato alla Regione Lazio la Legge Tarzia contro i consultori cercando di affossare la legge 194 sull’interruzione di gravidanza? Non lo sa che la lotta alla violenza comincia dall’autodeterminazione a partire dalle scelte che riguardano il proprio corpo? Anche il Vaticano è degno di nota perché preannuncia scenari di interessanti alleanze: “la donna – si legge sull’Osservatorio Romano nel suo editoriale – conquistati i diritti, è diventata cittadina a pieno titolo, ed è un giro di boa troppo grande da accettare nei rapporti domestici di ogni giorno”, frasi che echeggiano nelle mie orecchie perché già sentite da una parte di Snoq (Se non ora quando) quando sono stata al grande convegno sulla violenza di genere “Mai più complici” a Torino (metà ottobre) e in cui più volte ho sentito dire che in realtà la violenza sulle donne è scatenata dalla non accettazione dell’emancipazione da parte dei maschi che, poverini, non sanno da che parte girarsi (magari fosse così semplice).

Nel mondo 140 milioni di donne hanno subito qualche forma di violenza e ogni anno vengono stuprate 150 milioni di bambine

mentre in Italia 7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito nella vita almeno un tipo di violenza. Eppure una delle emergenze più forti rimane, qui da noi, la violenza domestica che compone l’85% della violenza nel suo totale. E allora passiamo al governo, che sui femminicidi non è stato capace di dare neanche un riconoscimento pubblico dicendo: sì, è vero, queste donne sono vittime di femminicidio perché uccise con movente di genere. Un governo che, ripreso più volte dalle Nazioni Unite – con le raccomandazioni Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) e quelle della special rapporteur dell’Onu, Rashida Manjoo – non ha alzato un dito neanche a fronte di scadenze (entro fine dicembre 2012) che riguardano le richieste urgenti dell’Onu e che sono: “trovare il modo di finanziare stabilmente i centri antiviolenza, monitorare l’applicazione della 154/2001 (provvedimento che dispone l’allontanamento con cui il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ndr), aprire un’inchiesta per verificare se sussista una responsabilità in tutti quei casi in cui la donna è stata uccisa da una persona nei cui confronti aveva già sporto una o più denunce” – come dice Barbara Spinelli, avvocata Piattaforma Cedaw. E quindi poniamo alcune domande, e diamo alcune risposte.

Il ministro degli affari esteri, Giulio Terzi, ieri ha detto sul 25 novembre che: “Non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia di fronte ai casi di violenza, di abuso e di maltrattamenti sulle donne. Istituzioni, parti sociali, mondo dell’associazionismo, magistratura, forze dell’ordine: tutti insieme dobbiamo fare di più”. Risposta: mai abbassata la guardia, l’associazionismo si è preso la responsabilità dello Stato creando servizi a supporto delle donne che subiscono violenza e mantenendo a stento, e con finanziamenti a singhiozzo, un lavoro altamente professionale; mentre le forze dell’ordine spesso tendono ancora oggi a rimandare a casa le donne che subiscono violenza domestica, accanto a una Giustizia che non sempre è in grado di difendere queste donne.

Elisa Fornero

La ministra del Lavoro e delle Pari Opportunità, Elsa Fornero, sempre ieri sulla violenza, ha detto: “Ho avuto modo di incontrare molte donne, di sentire ancora fortissima la violenza, la pressione e la distanza nei confronti delle donne in molti ambiti, anche all’interno della famiglia, nei posti di lavoro: quindi il tema è più che mai attuale. Molte ricerche dimostrano che laddove il lavoro è sia della donna che dell’uomo nella famiglia i bambini vivono meglio, non solo in termini materiali ma anche di benessere psicologico. Quindi c’è una maggiore sicurezza”. Risposta: mi viene da ridere, proprio lei, ministra, che ha ridotto questo paese sul lastrico in un contesto in cui le donne sono le prime ad uscire dal mondo del lavoro e a rimanere, come si dice: con le pezze in quel posto? Le donne, per merito suo, sono le prime a essere disoccupate, e in momenti di crisi sono costrette anche a prendersi il carico di un welfare ridotto all’osso, tutto gratis, un regalino che la cultura fa passare come “lavoro di cura adatto a una donna-madre-moglie-schiava”. Un panorama in cui le donne che subiscono violenza domestica rimangono a casa a farsi massacrare dal marito, perché non hanno un’indipendenza economica e non sanno dove andare.

La ministra di Giustizia Paola Severino, ha invece riconosciuto ieri la natura culturale della violenza sulla donne

“Il problema sociologico della violenza sulle donne – ha osservato Severino – non riguarda le donne, visto che tutte le fasce di donne sono colpite, ma riguarda la cultura degli uomini, una cultura che si radica nel senso del possesso. Mariti, padri, fratelli, amanti che ritengono di dover possedere la loro donna, le creano attorno una specie di cerchio di fuoco, la allontanano dal resto della famiglia, la isolano, la amano in modo folle, malato, la picchiano. E la donna non reagisce, perché non è supportata, è isolata, si vergogna e ritiene che l’amore possa vincere tutto e questo è un grande errore. Invece bisogna creare una cultura dell’antiviolenza”. In più ha ribadito la necessità della ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica, e ha riconosciuto come lo stalking possa sfociare nel femmincidio, mentre sull’inasprimento delle pene ha detto che “può essere un segnale importante, ma fondamentale è l’applicazione della pena esistente”.

Paola Severino

Ieri sono stata a Napoli a moderare un Convegno dal titolo “Adultocentrismo, separazioni conflittuali, nuove forme di violenza su donne e bambini. La terapia della minaccia e l’allontanamento coatto nelle c..d. case famiglia”, un evento nato dalla campagna della piattaforma “30 anni di Cedaw: Lavori in corsa” e promosso da un felice connubio tra napoletane, come Elena Coccia  (Vice Presidente del Consiglio comunale  di Napoli) e toscane come Sara Vatteroni (membro ELWN European Liberal Women’s Network e responsabile nazionale del dipartimento Democrazia Paritaria di IDV). Un convegno che è durato 6 ore con una sala (al Maschio Angioino di Napoli) strapiena e vivace, fatto da interventi di alto livello e testimonianze forti.

Qui ho sentito storie di ordinaria violenza fatta su donne e bambini prigionieri in casa, torurati e costretti a una vita umiliante e senza via di uscita. Ho visto donne con il viso provato da una sofferenza immane confessare come si siano dovute difendere prima dai mariti che le massacravano in casa e poi nei Tribunali italiani perché non credute e trasformate da vittime a imputate della loro stessa pena.

Ho ascoltato psicologhe che faticavano a raccontarci come perizie di abusi sessuali su minori da parte di familiari fossero travisate e manipolate da Ctu (Consulenze d’ufficio) e da servizi sociali pronti a ridare in mano bambini ai loro abusanti tra le mura domestiche, con madri disperate perché non riuscivano a difendere né se stesse, né soprattutto i loro figli, dalle violenze. Ho appreso che due gemelle di 4 anni che subivano lavaggi intrusivi dal padre ogni volta che lui tornava a casa, non sono state credute malgrado nei colloqui fosse chiara la violenza subita, con una madre disperata e non creduta in sede di giudizio, dove è stato detto che il padre era solo “maldestro” nei lavaggi.

una signora che dopo la nascita della figlia è dovuta fuggire in ciabatte da casa con la piccola in braccio e poi si è vista tornare il marito con un’altra pretendendo l’affido esclusivo della bambina

Tutte donne che subiscono violenza in casa e che cercano di difendere se stesse e i loro figli da abusi e maltrattamenti, subiti o assistiti, e che quando chiedono aiuto alla giustizia, non solo non sono credute, ma rischiano anche di perdere i loro bambini che sono considerati “malati” perché se denunciano violenze è solo perché sono manipolati dalla madre.

Ho appreso che la famigerata Pas (sindrome di alinanzione parentale) viene automaticamente richiesta nella maggior parte dei casi di violenza denunciata o accertata da parte del partner, e che una volta “certificata” da una Ctu il giudice non chiede prove, non verifica testimonianze, ma rinchiude il minore nelle case famiglia dove ormai vivono in Italia, circa 40.000 minori. A Napoli medici, psichiatri, avvocati hanno ribadito che sebbene anche il ministero della salute abbia messo nero su bianco che questa sindrome non esiste, viene ancora applicata nei tribunali italiani. Maria Serenella Pignotti, neonatologa, pediatra, medico-legale del Meyer di Firenze, ha detto che il ministero della Sanità conferma che l’80% dei bambini è in ottima salute e vorrebbe vedere dove sono tutti questi piccoli malati di Pas.

Annamaria Raimondi, di D.i.re (Donne in rete contro la violenza) e Elvira Reale, psicologa del Presidio Ospedaliero S. Paolo (Sportello Antiviolenza donne e minori) hanno detto che le perizie psicologiche nei casi di maltrattamento e violenza, sottostanno spesso “a un pregiudizio in cui è forte il dislivello di potere esistente tra uomini e donne”, e dove la donna che denuncia, magari dopo anni di maltrattamenti e in uno stato mentale di forte disagio psicologico, viene trattata come una poveraccia non credibile nel racconto delle violenze sia se sono state subite da lei che dai minori in casa. Flora Antinolfi, dell’associazione Giuristi Democratici, ha detto che i minori sono ormai come un “pacco” da affidare all’uno o all’altro da parte dei giudici, e pochi si chiedono seriamente perché un bambino non vuole vedere un genitore; mentre per Sara Vatteroni (Idv)

“se il bambino rifiuta di vedere il padre denunciato per abuso, lui ricorrerà alla Pas parlando di condizionamento della madre”

Tutto questo, ministra Severino, succede nei tribunali civili e nei tribunali dei minori di tutt’Italia, e succede per superficialità, per incompetenza, e per un pregiudizio radicato, per quella cultura di cui parla anche lei e che sta rovinando la vita di tantissime donne compresi i figli. Ma non basta dirlo, bisogna evitare che succeda, e non dicendo cosa devono fare le donne ma rendendo più competente quella magistratura, quelle forze dell’ordine e tutto il personale che istituzionalmente dovrebbe difendere e creare un muro tra la violenza e le sue vittime.

Le donne non denunciano perché sanno che non saranno credute, che saranno umiliate, che le loro parole sarannno sottovalutate, e rimangono in casa a subire violenza, fino anche a morirne, perché non vogliono subire sulla loro pelle un altro tipo di violenza, che è ancora più degradante: quella istituzionale. Le donne non sono stupide.

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