La notizia le è arrivata a scuola, durante la lezione di chimica, ma lei non ha voluto interrompere le lezioni e ha concluso la mattinata con l’ora di fisica e d’inglese, per poi volare a Oslo. È Malala Yousafzai che a soli 17 anni ha ricevuto il premio Nobel per la pace ex equo con l’attivista indiano Kailash Satyarthi, da 25 anni impegnato contro lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù di bambini e bambine. La più giovane Nobel della storia che però ha già un passato importante: a 11 anni Malala curava un blog per il sito della BBC in lingua urdu per documentare la difficile vita nel distretto dello Swat in Pakistan, dove viveva in piena offensiva talebana, schierandosi a favore dell’istruzione delle ragazze in un Paese, il suo, in cui
20 milioni di minori sono ancora esclusi dall’accesso alla scuola
Una determinazione che le costò quasi la vita quando il 9 ottobre del 2012, qualcuno salì sul suo scuolabus chiedendo Malala Yousufzai sok daa? (Chi è Malala Youzufzai?) e sparando verso il suo volto per colpirla alla testa sopra l’occhio sinistro. Un attentato rivendicato da Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani pakistani, perché la ragazza era «il simbolo degli infedeli e dell’oscenità».
«I talebani erano indaffarati a insediarsi nello Swat – aveva dichiarato in quei giorni Murtaza Haider, vice rettora di origine pakistana all’Università di Toronto – e avevano proibito la scuola per le femmine. Malala e le sue compagne erano andate lo stesso alle lezioni di nascosto e coi libri sotto i vestiti, rischiando aggressioni armate o con l’acido». Ragazze che sapevano di essere in pericolo, come tante altre, ma che hanno avuto il coraggio di continuare.Sopravvissuta ai talebani e curata in Gran Bretagna, dove ora vive e studia, Malala non si è fatta sopraffare dalla paura e sebbene ancora oggi sia minacciata di morte per il suo attivismo a favore del diritto all’istruzione, ha scritto un libro ( I’m Malala), ha ricevuto il premio Sakharov per la libertà di pensiero, e ha parlato alle Nazioni Unite lo scorso anno dicendo che «un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo».
Un destino, quello di Malala, forse segnato da lei stessa quando un anno fa dichiarò, in un’intervista alla Cnn rilasciata a Christiane Amanpour, che le sarebbe piaciuto diventare un giorno prima ministra del suo Paese. Perché per la giovane premio Nobel, diventata il simbolo di milioni di bambine e ragazze che vivono violenze e ingiustizie su tutto il Pianeta, questo riconoscimento è in effetti solo un inizio che la fa sentire «più forte e più coraggiosa», in quanto
«non è un pezzo di ferro, una medaglia da tenere in cameretta, ma un forte incoraggiamento ad andare avanti»
naffinché ogni ragazza abbia «il diritto di vivere la propria vita». Obiettivi enormi se si analizza la situazione delle sue coetanee nel mondo. D’altra parte la stessa Onu, in occasione della Giornata internazionale delle bambine celebrata l’11 ottobre, ha scelto come tema per quest’anno: « Empowerment delle bambine e delle ragazze per contrastare la violenza», mettendo come priorità il rafforzamento e il protagonismo delle giovanissime, a partire dall’istruzione, come strumento per contrastare la violenza sulle donne.
A ridosso di questa giornata internazionale, l’Unicef ha infatti reso noto che nel mondo ci sono ancora 70 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni (Cina esclusa) che hanno subito una forma di violenza fisica, 120 milioni costrette a subire rapporti sessuali forzati, 84 milioni vittime di violenza psicologica, fisica o sessuale da parte del partner, e 700 milioni di spose sotto i 18 anni di cui 23 milioni sotto i 15 anni: una tendenza che non sembra bloccarsi. Cifre a cui Terre des Hommes, nel suo ultimo report, aggiunge a livello globale 515 milioni di bambine in condizioni di povertà, 100 milioni di mai nate per gli aborti selettivi (Cina, India, Paesi del Sud-Est asiatico e Caucaso), 68 milioni di baby lavoratrici e 125 milioni con mutilazioni genitali. Mentre nella sola Europa, secondo l’Agency for Fundamental Rights (FRA), vivono 21 milioni di donne che hanno subito una forma di abuso o atto sessuale da parte di un adulto prima dei 15 anni (12%).
Ma la chiave per risolvere – e per questo, empowerment e istruzione sono tra gli obiettivi primari – è capire la situazione culturale in cui tutto ciò prolifera, perché ancora oggi in molti Paesi, anche occidentali, ragazze vittime di violenza (7 su 10) non hanno mai chiesto aiuto in quanto convinte che tutto ciò che accadeva loro fosse normale. Dati che mostrano una preoccupante percezione e accettazione della violenza da parte di adolescenti che a livello globale per circa la metà (tra i 15 e i 19 anni) crede che un uomo sia giustificato a picchiare la partner nel caso di rifiuto a un rapporto sessuale, se si esce senza permesso o in caso di litigio. «Questi dati parlano di una mentalità che tollera, perpetra e giustifica la violenza, e dovrebbero far suonare un campanello d’allarme in ognuno di noi, ovunque», ha detto Geeta Rao Gupta, Vice Direttore generale dell’Unicef.
Un humus culturale che uccide circa 70 mila adolescenti per complicanze legate alla gravidanza, con 3,2 milioni gli aborti a rischio
In uno studio dell’Odi (Overseas Development Institute) si legge che ogni giorno nel mondo 39.000 bambine rischiano di essere costrette a sposarsi con sconosciuti: una situazione che non sembra migliorare in quanto, anche grazie alla crisi, sono sempre più frequenti i casi in cui genitori combinano il matrimonio della figlia ancora piccola, dietro il pagamento di una somma di denaro da parte del futuro marito. Un problema che non riguarda solo l’Africa, l’Asia o il Medio Oriente, ma anche i Paesi occidentali: come la Gran Bretagna, dove sarebbero più di 5000 (dati dell’Unità governativa britannica) le giovani costrette a un matrimonio contro la propria volontà e che per questo interrompono la scuola. O gli Stati Uniti e l’Europa, di cui però si preferisce non parlare.