«Questa è stata la mia ultima sessione della Csw (Commission on the Status of Women), perché per motivi personali tornerò nel mio Paese, anche se continuerò a lavorare per l’uguaglianza di genere e l’ empowerment delle donne». A parlare è Michelle Bachelet che ha lasciato la direzione esecutiva dell’UN Women (ente delle Nazioni Unite che promuove i diritti delle donne), per tornarsene in Cile dove si candiderà per la seconda volta alle presidenziali del 17 novembre come indipendente (il suo primo mandato è durato dal 2006 al 2010). Un commiato che il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha commentato riconoscendo come il lavoro straordinario di Bachelet abbia «permesso di mobilitare e fare la differenza per milioni di persone in tutto il mondo».
Successi che quest’anno l’ hanno vista protagonista di uno dei più grandi e importanti passi in avanti per la tutela di genere, attraverso la firma di 132 Paesi della Carta dell’Onu contro la violenza sulle donne nel mondo, uscita proprio da questa 57.ma Commission on the Status of Women che si è conclusa a metà marzo a New York, dopo 15 giorni di lavoro con donne, associazioni e istituzioni dell’intero Pianeta. Un accordo che finora non era stato possibile e che, seppur non vincolante, rappresenta un altro tassello nella lotta al femminicidio. In questo testo di 17 pagine,
le Nazioni Unite condannano la violenza contro donne e bambine
chiedono maggiore attenzione e accelerazione nel prevenire e rispondere al fenomeno, insistono sulla priorità della creazione di una rete di servizi a sostegno delle vittime e la fine dell’impunità dei responsabili, ribadendo il diritto alla salute sessuale e riproduttiva, a uguali diritti umani per uomini e donne, e condannando il matrimonio precoce e forzato, la selezione del sesso, le mutilazioni genitali femminili e i crimini commessi in nome dell’onore.
In particolare vengono riaffermate la Dichiarazione di Pechino e Piattaforma d’azione, la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) e il protocollo opzionale, la Convenzione sui diritti del fanciullo, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità e le Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro. La Commissione sottolinea anche come «la violenza contro le donne significhi ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi o possa provocare, danno fisico, sessuale o psicologico o una sofferenza alle donne e le ragazze, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o arbitrarie privazione della libertà, sia in pubblico che nella vita privata».
Non solo, ma stabilisce la violenza domestica come una delle forme più ampie; conferma la violenza contro le donne e le ragazze come una delle violazioni più diffuse dei diritti umani nel mondo; e riconosce questa violenza quale manifestazione delle relazioni di potere storicamente ineguali tra uomini e donne, con sistemica discriminazione basata sul genere. Inoltre in questa Carta «si esortano i governi, i soggetti attivi nel settore del sistema delle Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali e regionali, delle donne e di altre organizzazioni della società civile e del settore privato, ad adottare le azioni a livello nazionale, regionale e globale», insistendo molto sul
«raggiungimento della parità di genere e l’ empowerment delle donne in tutte le sue dimensioni», in quanto «essenziale per affrontare le cause profonde della violenza contro le donne»
Per chi ha partecipato ai lavori, come Barbara Spinelli (avvocato penalista di Giuristi democratici e esperta di femminicidio), la sensazione è stata che alcuni Paesi, come l’Austria, la Norvegia e lo Zambia, avessero una buona interazione tra istituzioni e Ong. «L’importanza di questo incontro – dice Spinelli – è che qui ogni anno si incontrano centinaia di donne che svolgono nei propri Paesi un ruolo fondamentale per la promozione e la difesa dei diritti di donne e bambine. Donne migranti, professioniste, accademiche, con un’altissima professionalità. Tutte le relatrici hanno convenuto sul fatto che questo fenomeno si sconfigge solo affiancando la lotta alla criminalità organizzata, a una rivoluzione culturale in grado di incidere sulla mentalità dei clienti e di creare condizioni adeguate per le donne nei Paesi di origine, modificando le tradizioni lesive dei diritti umani, potenziando l’accesso ai servizi, investendo per eliminare le discriminazioni nell’accesso al lavoro, allo studio, e tutti quei fattori che rendono le donne facili prede dei trafficanti». Quelle che si chiamano strategie integrate.
Eppure, malgrado i dati dell’Onu indichino che ancora oggi 7 donne su 10 subiscono violenza nel corso della vita e 603 milioni di donne vivono in nazioni che non la considerano un reato, non sono mancate obiezioni da parte di Egitto, Iran, Sudan, Arabia Saudita, Qatar, Honduras, mentre la Libia questa Carta non l’ha sottoscritta. Le resistenze si sono concentrate sul passo in cui si dice che la violenza contro le donne non può essere giustificata da «nessun costume, tradizione o considerazione religiosa», un concetto che ha provocato la rottura della rappresentante egiziana alla 57.ma Commission, Mervat Tallawy, che è andata contro il volere degli islamisti firmando la carta e dichiarando che «la solidarietà internazionale è necessaria per dare i poteri alle donne e prevenire quest’aria di repressione». Tra i punti considerati inammissibili da alcuni Paesi islamici c’è anche la «piena uguaglianza nel matrimonio» che consente di denunciare il coniuge violento, e la garanzia di libertà sessuale per le ragazze con l’accesso ai contraccettivi. Accanto a loro nell’esprimere contrarietà si sono schierati anche il Vaticano (che ha un seggio all’Onu come Stato non membro e osservatore permanente),
la Russia e l’Iran che hanno trovato sconveniente il passaggio sull’interruzione di gravidanza
e alla salute riproduttiva delle donne: un punto che, come successo nell’incontro di Rio+20 l’anno scorso, volevano cassare. E la Carta alla fine è passata solo grazie alla trattativa portata avanti da Michelle Bachelet.