La SlutWalk, ovvero la marcia delle puttane, arriva in Europa il 4 giugno con un doppio appuntamento a Londra e ad Amsterdam dopo aver attraversato Canada, Usa, Australia, Europa, Argentina e Kirghizistan. L’ondata d’indignazione contro il binomio stupro=abbigliamento da puttane, nasce a gennaio dopo che alcune ragazze che avevano assistito a un seminario sulla sicurezza alla York University di Toronto in cui il poliziotto Michale Sanguinetti aveva esordito, parlando dello stupro, con un triste:
“Mi raccomando, non vestitevi come puttane se non volete diventare vittime”, avevano protestato scendendo in piazza più o meno vestite in maniera “discinta”. Con lo slogan: lo stupro non è colpa delle donne che se lo sono andate a cercare, il tam tam è dilagato sui social network e gruppi di donne pronte a manifestare “in mutande” si stanno formando in giro per il mondo. Questa dirompente risposta delle ragazze occidentali, accanto alle proteste delle donne islamiche nella primavera mediorientale, stimolano riflessioni sullo stupro e sull’uso dell’intimidazione sessuale nei momenti di conflittualità sociale e nelle guerre.
L’elenco che deriva da questa ricerca fa rabbrividire e la materia è così vasta da aver suggerito l’idea di un percorso a puntate su quello che nel 2008 è stato classificato come “arma di guerra” dalle Nazioni Unite grazie alla risoluzione 1820. Secondo Christine Weise, Presidente della Sezione Italiana di Amnesty Internazional: “Nel 1998 è stato approvato lo Statuto della Corte penale internazionale che riconosce lo stupro come crimine contro l’umanità. Si tratta di un grande progresso perché finalmente viene riconosciuta nella sua gravità un reato che da sempre colpiva le donne in tempi di guerra, un fenomeno senza storia e senza tempo che ha accompagnato l’intera umanità ed è entrato nell’immaginario collettivo senza venir comunque compreso nella sua gravità per chi lo subisce. Io sono tedesca e ricordo le parole di mia nonna che raccontava di quando i russi stupravano sistematicamente le donne tedesche durante l’avanzata in Germania alla fine della Seconda Guerra Mondiale: un racconto non esplicito, ma che parlava di paura, di cose terribili che come bambina non potevo capire, un racconto che trasmetteva un orrore inspiegabile.
Gli stupri di guerra sono stati sempre raccontati sottovoce, in casa, da donna a donna, storie che non si potevano raccontare a nessuno. Ecco perché è stato così importante definire il reato di stupro nello Statuto della Corte penale internazionale: per dare un nome a questo orrore, per dare alle donne la dignità di vedere riconosciuto il dolore che hanno subito e per dare loro gli strumenti per finirla con l’impunità degli stupratori”.
La violenza sessuale contro le donne come prassi nei conflitti ha attraversato ogni angolo della Terra in tutte le epoche
Durante la Seconda Guerra Mondiale l’esercito giapponese e americano disponevano di schiave sessuali, ovvero donne prigioniere costrette a subire violenze sessuali, e in Italia gli americani costrinsero 40.000 donne napoletane a prostituirsi dopo stupri. Oggi le cifre dei conflitti negli ultimi 20 anni parlano di 20.000-50.000 donne violentate in Bosnia, 250.000-500.000 in Ruanda, 50.000-64.000 in Sierra Leone, e una media di 40 donne stuprate al giorno nella Repubblica Democratica del Congo. Eppure c’è una differenza: se prima o durante i conflitti mondiali lo stupro era strumento di vendetta sul nemico, dagli anni ‘90 in Bosnia diventa pulizia etnica, tanto che il Tribunale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia ha perseguito in maniera specifica i reati di stupro e riduzione in schiavitù in quanto crimini contro l’umanità. Enisa Bukvic, operatrice internazionale e scrittrice, racconta:
“Condurre donne, ragazze e bambine nei lager costringendole a stupri collettivi della soldataglia e costringere quelle che rimanevano incinte a continuare a subire violenze fino ai 6 mesi di gravidanza, non è solo una violenza sessuale, è molto di peggio”
In Bosnia Erzegovina lo stupro è stato pensato e usato come arma di guerra in una lucida, precisa strategia militare di un progetto al quale hanno preso parte psicologi e psichiatri dalle menti squilibrate”. Ma casi di violenza sessuale di massa si sono registrati, e si registrano ancora, in molte parti del mondo: Cecenia, Darfur, Iraq, Libia, Congo, Kosovo, Sierra Leone, Rwanda, ecc. Nel rapporto 2010 del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) si afferma che “le donne fanno di rado la guerra, ma troppo spesso ne soffrono le conseguenze peggiori: la violenza sessuale costituisce un’arma di guerra ripugnante e sempre più utilizzata”. Pochi giorni fa in un’intervista alla Cnn Siham Sergewa, psicologa libica, ha detto di aver ricevuto una chiamata da una donna di Ajdabiya che “piangeva e stava molto male e mi raccontava dello stupro”.
La psicologa dichiara di aver ricevuto diverse chiamate così e di essere andata, insieme a volontari, nei campi profughi tra Libia, Tunisia ed Egitto, per identificare persone bisognose di aiuto, e di aver trovato quasi 300 donne che hanno ammesso stupri dai soldati con racconti raccapriccianti: “Hanno legato mio marito, mi hanno violentato davanti a lui e poi lo hanno ucciso”, diceva una donna.
In Libia, nel mese di aprile, l’ambasciatrice statunitense Susan Rice aveva denunciato la distribuzione di viagra alle truppe per fomentare aggressioni sessuali, e il britannico Daily Mail aveva intervistato Michael Mahrt di Save The Children, che parlava di aggressioni sessuali a minori. Storie di stupri indistinti sono stati riportati da chi è fuggito da Misurata, Ajdabiya e Ras Lanuf, e al Sunday Times il dottor Khalifa al-Sharkassi ha descritto i casi di una ragazza che ha provato a lavarsi con la candeggina dopo essere stata violentata, mentre un’altra si è iniettata del cloro sperando di bloccare in questo modo la gravidanza, mentre “due sorelle di 16 e 20 anni sono state stuprate dai mercenari dopo che il loro fratello si era unito ai ribelli: la madre era stata chiusa in un’altra stanza mentre le figlie venivano violentate.
Quattro o cinque africani hanno stuprato a turno le due ragazze e ora una di loro non fa altro che restare immobile e piangere”
Ma denuncia degli stupri in Libia era cominciata da una donna coraggiosa, Eman al Olbeidy, avvocata di 29 anni arrestata dal regime, oggi rifugiata a Tunisi, che era riuscita a gridare alla stampa internazionale nell’Hotel Rixos di Tripoli, le violenze subite da 15 uomini mentre era in caserma. In paesi in conflitto come è stato l’Iraq o come è tutt’ora l’Afghanistan, le donne sono violentate da ogni parte, compresi soldati americani e britannici: Women Against Rape e Women’s Rape Action Project, raccontano che “le irachene ci hanno detto che le donne sono in prigione per essere interrogate e torturate perché rivelino informazioni sugli uomini loro parenti. Per loro la tortura comincia quasi sempre con lo stupro, spesso da più uomini. Una donna dell’Università di Baghdad che lavora per Amnesty International, ha descritto gli abusi sessuali a cui è stata sottoposta a un posto di blocco:
Mi ha puntato la luce laser in mezzo al petto e poi ha indicato il suo pene. Mi ha detto: Vieni qua, puttana, che ti scopo”
Ma non basta, perché un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) del 2005, riporta casi di violenze contro donne e bambine praticate da peacekeepers dell’Onu: Anneke Van Woudenberg, ricercatrice di Hrw, spiega che “nelle zone di conflitto lo stupro è usato sempre più come arma da guerra e non si tratta di occasionali voglie di sesso dei soldati; lo stupro è diventato parte della condotta normale di guerra”, uno scandalo che ha riguardato soldati che in cambio di favori sessuali davano cibo, acqua, regali a bambine e ragazzine. A gennaio l’Islamic Republic of Iran Broadcasting (agenzia stampa iraniana), ha riferito di
tre donne ridotte in fin di vita per gli stupri subiti in una base militare americana vicino Farah dove i soldati Usa avrebbero creato una prigione-bordello con ragazze rapite
Esempi recenti dimostrano infine come ancora oggi l’intimidazione sessuale sia la minaccia di genere per eccellenza: in Egitto le donne che durante la rivoluzione del 25 gennaio sono state centrali per la rivolta, sono state marginalizzate ed escluse dai processi decisionali nella fase di ricostruzione, e per fare questo sono state minacciate e molestate da uomini, e sottoposte al test di controllo della verginità contro la loro volontà.
Poche settimane fa, nel Bahrain, la poetessa ventenne Ayat al-Ghermezi, in prima fila nelle proteste in Piazza della Perla a Manama, è morta dopo essere stata arrestata e ridotta in coma per gli stupri subiti. Infine nelle carceri di Gohar Dasht, nella città di Karaj a nord di Teheran, ancora oggi moltissime ragazze vengono sistematicamente violentate e uccise: arrestate per motivi che vanno dalla morale al dissenso, nel momento in cui vengono condannate queste donne vengono inghiottite nel reparto 7 padiglione 21 dove sono drogate e trasformate in schiave sessuali a disposizione di secondini, politici e dirigenti, e quando non servono più vengono uccise.