Sono passati 20 anni, da quel giugno e quel luglio che, nel 2001, cambiò le vite di centinaia di migliaia di persone. Il G8 di Genova, infatti, è stato un evento spartiacque sia a livello personale che politico, proprio all’inizio del nuovo secolo. Ci lamentiamo, con ragione, del rischio e del pericolo di perdita di memoria da parte delle giovani generazioni.
Cosa è successo durante il G8 del 2001?
Eppure, nonostante la pandemia e le relative emergenze che questa ha portato con sé, la sorpresa è stata che, sin dai primi mesi del 2021, mi sono arrivate molte richieste da parte di giovani donne e uomini, dai vent’anni in su, che mi hanno domandato su Genova 2001, perché vogliono sapere, vogliono capire. Hanno bisogno del racconto reale di chi c’era e il G8 l’ha vissuto sulla propria pelle. Nel 2001 sono stata una delle venti portavoce del Genova Social Forum, in rappresentanza del movimento femminista allora riunito nella Marcia mondiale delle donne. Per provare a rispondere alle tante domande di chi non c’era, vent’anni fa, ho scritto un libro: “Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo. Punto G. Il femminismo al G8 di Genova (2001-2021)” (Vanda Edizioni).
Il libro è il racconto, personale e politico, non solo degli eventi, ma anche di elaborazioni politiche e progetti femministi purtroppo occultati dai fatti di luglio 2001
La morte di Carlo Giuliani, la violenza della polizia, quella dei black bloc, il sangue, gli abusi, la ferita inferta alla democrazia hanno seppellito a lungo, inevitabilmente, i contenuti dello sguardo femminista di allora, che furono fortemente profetici, un mese prima, a giugno, sui pericoli della globalizzazione neoliberista nell’impatto sulle nostre vite e sul pianeta. Questo sguardo, allora premonitore, è ancora oggi limpido, attuale e più che mai necessario. Con oltre 1500 attiviste pacifiche riunite a Genova da tutto il mondo, quei giorni di giugno 2001 fecero vivere l’illusione che l’intelligenza collettiva di donne tanto diverse come storia, età, retaggi e allo stesso tempo così in sintonia sul desiderio di trasformare il mondo potesse avere la meglio sull’ottusità della violenza.
Un estratto dal libro
“L’inizio del racconto del mio percorso di nove mesi di avvicinamento alla settimana di iniziative di luglio, e soprattutto dei giorni di Punto G a giugno 2001, si può datare da qui: dall’incontro con un’attivista del popolo Uwa, una giovane donna non ancora trentenne di nome Daris Christanco. Facevo parte del collettivo dei portavoce del Genova Social Forum già dalla fine del 2000, quando erano cominciate le prime riunioni locali a Genova, nella allora sede del wwf regionale, riunioni che da febbraio 2001 divennero nazionali con la partecipazione delle varie realtà che avrebbero composto il gsf, alternate, per me, con quelle della rete della Marcia Mondiale delle Donne dalla quale avevo il mandato come portavoce.
La scelta del mandato era caduta su di me per vari motivi: ero di Genova, ero giornalista, la rivista Marea che avevo fondato con altre donne nel 1994 aveva, in anni passati, organizzato e gestito eventi nazionali e internazionali, i rapporti con le varie componenti dei movimenti femministi locali erano cordiali e collaborativi così come quelli con i movimenti e le associazioni nazionali femministe. Le prime riunioni a febbraio segnarono dunque l’inizio di un’esperienza che avrebbe cambiato la mia vita e quella di molte altre persone. Ed eccoci a Daris Christanco, 29 anni, occhi tristi, sguardo accusatorio e composta dignità, indigena del popolo Uwa, circa diecimila persone che tentavano di sopravvivere in una piccola zona boschiva a nord di Bogotá, in Colombia, uno dei paesi più violenti dell’America Latina, teatro di scontri per il possesso delle due ricchezze principali: il petrolio e la produzione di coca, dalla quale poi si raffina la droga della iper-produttività.
Ricordo nitidamente la ferocia della globalizzazione racchiusa nel suo racconto di giovane madre di cinque tra bambini e bambine: “La Madre Terra sta morendo”, ci disse nell’incontro che avemmo in un gruppo ristretto di giornaliste e giornalisti.
“È una terra offesa e violata dalle ruspe e dalle trivelle della Oxy, la compagnia petrolifera usa che da dieci anni, senza che il mondo muova un dito o quasi, sta demolendo uno degli ultimi territori vergini sul pianeta, che è anche casa mia”
Gli indigeni Uwa erano allora stretti tra il colosso del petrolio e le bande paramilitari mercenarie, spesso utilizzate anche dallo stesso governo per sgombrare il territorio con la forza: in queste occasioni vengono uccisi bambini, bambine, persone anziane, chiunque si frapponga sulla strada del “progresso”, la strada lucida del cancro nero, come i popoli indigeni chiamano il petrolio, senza il quale l’Occidente è perduto.
In quel pomeriggio, davanti alle nostre telecamere, ai registratori digitali e ai taccuini, Daris parlò di aria che manca, di alberi secolari che spariscono, di diritto alla vita non solo per loro Uwa, ma per tutte le persone che sulla terra rischiano di non ereditare che morte e malattie a seguito della deprivazione del territorio. Il loro territorio, ma anche il nostro territorio, l’intero pianeta. Lei, l’indigena che rischiava di estinguersi, alla domanda su cosa pensasse dell’Occidente rispose senza esitazione (documentario “Genova, giugno-luglio 2001: le donne, terminato in tempo record nell’agosto di quello stesso anno”):
“Mi sembrate una cultura triste, perché tutta la vostra ricchezza deriva in gran parte dall’avere saccheggiato il vostro ambiente e quello di altri popoli e terre, come nel nostro continente. Come si può essere felici e in pace se si distrugge ciò che abbiamo di più prezioso?”
Ad atterrirmi non fu soltanto quella limpida denuncia, la stessa che, vent’anni dopo, riecheggerà nelle parole di Greta Thunberg, ma il segreto che Daris ci rivelò e contemporaneamente ci proibì di divulgare negli articoli che avremmo scritto. Ci disse che, se entro il settembre dell’anno in corso non si fossero arrestate le operazioni di deforestazione sui loro terreni, il popolo avrebbe commesso un suicidio collettivo, come estrema misura affinché il mondo intervenisse a difesa dell’ambiente. Daris parlava di suicidio collettivo e già solo il nominare in astratto un gesto così apocalittico risultava inaccettabile da ascoltare.
Ma c’era di più. La tremenda, indicibile verità era che davanti a me non c’era soltanto una giovane donna che sapeva in anticipo la data della sua morte, ma una giovane donna che prima di uccidersi avrebbe tolto la vita ai suoi cinque bambini e bambine
Non accadde, perché grazie alla pressione sulla stampa e sulla diplomazia internazionale la deforestazione fu bloccata. Ma, come la storia di questi vent’anni insegna, l’aggressione alla ricchezza ambientale delle ultime foreste del pianeta e a chi le protegge non è finita. Sarà in questo intreccio tra consapevolezza, assunzione di responsabilità e visione radicale trasformativa che avrà origine la decisione di dare luce, e visibilità, allo sguardo politico femminista sulla globalizzazione con l’evento “Punto G-Genova Genere Globalizzazione nel giugno 2001”.