La Siria ha il volto di Sama, profuga in un campo libanese nella Valle della Beqà, fuggita da Homs nel 2011, praticamente dall’inizio della guerra, e mai più tornata nella sua terra anche se il suo sogno è “tornare a casa e se non la troverò la ricostruirò”. Lei vive in un campo profughi spontaneo, costruito tra terreni da coltivare e piccole aziende di trasformazione agricola. Lavora per un caporale: lava e incassetta carote. D’inverno, in quelle tende tra il Monte Libano ad Ovest e le montagne dell’Anti Libano ad Est si gela e d’estate si soffoca. Una delle tante donne, Sama, emblema della guerra che da 10 anni tortura la Siria.
In fuga dalla Siria
Le donne di questa guerra sono tante, hanno volti diversi, appartengono a classi sociali diverse: mogli, studentesse universitarie, insegnanti, giornaliste, attiviste. Molte di loro sono andate via dalla Siria per sfuggire alla persecuzione e alla morte. Si trovano, come Sama, nei paesi confinanti o in Europa. Molte hanno la consapevolezza che sarà impossibile tornare in patria. Molte vivono immerse in una forte nostalgia e in una grande costernazione per le tragiche condizioni in cui versa oggi il loro Paese, diviso e abbandonato anche dalla comunità internazionale. Rabia Tasir, volontaria di White Helmet e studentessa in medicina a Iblid, non pensa più al futuro.
“I costanti bombardamenti ci obbligano a vivere in uno stato di paura – dice Rabia – Non so se ci sarò domani. Sogno che i nostri figli non debbano vivere nella paura, nelle deprivazioni e nel pericolo come abbiamo dovuto fare noi. La guerra ci ha tolto molto ma noi dobbiamo rimanere forti per aiutare gli altri”
I problemi irrisolti
Molte di loro si chiedono come sia possibile che una rivoluzione possa avere portato un tale peggioramento delle condizioni di vita: il prima era molto meglio dal punto di vista della libertà individuale. Adesso governano la repressione, l’obbligo di indossare il velo integrale, il divieto di partecipare alle manifestazioni o di uscire di casa nelle zone controllate dagli islamisti radicali. Ormai si vive con le scuole clandestine per i bambini, le battaglie quotidiane per la scarsità del cibo, la mancanza perenne di elettricità e di connessione internet, gli ospedali improvvisati, le carceri dove vengono inflitte torture fisiche e psicologiche, la fuga dai bombardamenti, dalle armi chimiche lanciate sulla popolazione.
Le donne sono strette, da 10 anni, tra il potere della dittatura di Assad, dell’Esercito siriano libero, e quello del Fronte al-Nusra e di Daesh, mescolato alla secolare questione della convivenza tra cristiani, drusi, alawiti e musulmani sunniti. E dove il potere è maschile, cieco e autoreferenziale. Nora Barre, un’attivista sirio-americana, ha rilasciato un’intervista alla Cnn, qualche giorno fa in cui fa il quadro della situazione attuale:
“Non possiamo discutere del futuro della Siria se non capiamo quanto intricati siano le relazioni tra Russia e Iran con Assad che è il fantoccio”
La meta sembra lontana
“In questo momento l‘Iran è in sofferenza – continua Nora – per le sanzioni mentre la Russia sta lottando con gli effetti della pandemia da coronavirus e penso che a breve inizierà a ritirare il suo appoggio ad Assad. Il Caesar act ha causato grandi sofferenze ai siriani ma ha anche intaccato le risorse del regime. Nel futuro della Siria non vedo arcobaleni e la fine del regime di Assad finirà solo con il declino delle economie iraniane e russe che così smetteranno di finanziare la macchina di morte siriana”. Ma le donne siriane non smettono di soffrire e lottare per la libertà, per altre donne, per la speranza che la Siria si liberi dalla guerra.
La condizione femminile non è facile come racconta Hassna Issa: “Sono stata in carcere per aver partecipato alle pacifiche proteste di dieci anni fa. Avendo visto, con i miei occhi, cosa succedeva nelle segrete di Assad ancora di più mi sono convinta della bontà della rivoluzione. Mio marito allora mi ha lasciato con le mie gemelle a Ghouta assediata”.
“Ricordo bene come mi ha trattato la mia comunità – continua Hassna – proprio perché ero una donna divorziata. Molte donne siriane si battono per costruire una Siria migliore. Non vogliamo la carità: vogliamo tornare nelle nostre case, vogliamo le scuole per i nostri figli, vogliamo avere l’opportunità di lavorare ed essere indipendenti”
Molte di loro hanno fratelli scomparsi nelle prigioni di Assad o padri uccisi nei bombardamenti. Familiari rapiti dal Daesh o detenuti da gruppi armati che aspettano solo di essere liberati. A dieci anni dall’inizio della guerra le donne siriane domandano dignità, libertà e democrazia nel segno di “never give up”. Allora come adesso, a rischio della propria vita.